Ad alcune persone succede: a Ryan Karazija ad esempio, è successo.
È successo di avere una vita particolare, segnata costantemente dai cambiamenti, dall’instabilità, dall’essere vicino a cadere, rialzarsi più di una volta.
Fino a un giorno dello scorso ottobre, quando Ryan, e la sua creatura musicale, Low Roar, si sono spenti definitivamente, lasciandoci però un'ultima testimonianza.
Low Roar era già morto, come progetto artistico, una volta, diversi anni fa, prima del 2016, ma non per problemi di salute o artistici, ma per un successo che non era ancora arrivato.
Lui, americano, si era trasferito in Islanda prima e in Polonia poi, aveva trovato nella routine della famiglia e di un posto sicuro e sano dove crescere i figli il suo punto di equilibrio.
E forse doveva finire così, tra qualche cascata islandese.
Solo che un giorno è arrivato Hideo Kojima, dal Giappone.
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Hideo Kojima |
Talento visionario, uno dei più iconici autori di videogiochi, creatore di un capolavoro come Metal Gear Solid, aveva scelto proprio Low Roar come colonna sonora della sua ultima opera, Death Stranding.
Death Stranding è un’opera quasi metafisica dove il giocatore diventa corriere di un mondo futuro nel quale le persone non possono più uscire, a causa di una terra diventata inospitale e dove il protagonista si carica letteralmente sulle spalle il peso di portare oggetti e ricostruire i collegamenti tra le persone.
Era il 2019, prima della pandemia.
Quel gioco, disegnato su quel che resta di Stati Uniti lontani nel futuro che sembrano Islanda, vive, dal trailer alle scene, in gran parte sulle musiche di Low Roar, di Ryan: questo volano di popolarità riaccende il progetto musicale, con centinaia di migliaia di persone che scoprono le sue canzoni lungo le ore di gioco.
Un rapporto simbiotico: Death Stranding, il gioco, non sarebbe lo stesso senza quelle musiche, e allo stesso tempo, forse, la band non esisterebbe più senza la spinta di quel gioco.
Poco dopo l’uscita, Ryan viene in tour in Italia e, durante un'intervista dichiarò "...a sedici, diciassette anni non ci pensi. Poi cresci e inizi a fare i conti sulla possibilità che prima o poi non ci sarà più qualcuno che era importante, di vicino a te, oppure, potrei non esserci più io, nemmeno."
Nelle parole delle sue canzoni c’era spesso questo senso di malinconia, questo stringersi attorno alle persone vicine, al dover non arrendersi.
Una musica che incrociava una produzione voce e chitarra classica, intensa e ben riuscita, con istanti di divagazioni elettroniche, pulsazioni moderne e inaspettate.
Scriveva per sé, Ryan Karazija, in tante sue canzoni affiora una introspezione, una malinconia, una sofferenza, una ricerca di pace interiore, che forse aveva trovato, o forse no, chi lo sa.
Chi siamo noi, in fondo, per voler comprendere qualcosa della vita di un artista, ascoltato, cantato?
Forse nessuno, ma quello che ci rimane è un mondo di emozioni.
“Letteralmente mi ha salvato dal suicidio un anno e mezzo fa”, si legge in un commento su Youtube di una persona, sotto un suo video.
Letteralmente, dice: non era l’atto più egoista della tua esistenza, Ryan, scrivere musica.
Era il tuo regalo più grande al mondo.
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