1.“Quel bastardo è morto”
Marcello Elisei, 19
anni, muore alle tre di notte del 29 novembre 1959, solo come un cane alla
catena in una casa abbandonata. Muore dopo un giorno e una notte di urla,
suppliche, gemiti, lasciato senza cibo né acqua, legato per i polsi e le
caviglie a un tavolaccio in una cella del carcere di Regina Coeli. Ha la
broncopolmonite, è in stato di shock, la cella è gelida. I legacci bloccano la
circolazione del sangue. Da una cella vicina un altro detenuto, il neofascista
Paolo Signorelli, sente il ragazzo gridare a lungo, poi rantolare, invocare
acqua, infine il silenzio. La mattina, chiede lumi su cosa sia accaduto. “Quel
bastardo è morto”, taglia corto un agente di custodia. È il 29 novembre 1959.
Marcello Elisei stava
scontando una condanna a quattro anni e sette mesi per aver rubato gomme
d’automobile. Aveva dato segni di disagio psichico. Segni chiarissimi: aveva
ingoiato chiodi, poi rimossi con una lavanda gastrica; il giorno prima aveva
battuto più volte la testa contro un muro, cercando di uccidersi. I medici del
carcere lo avevano accusato di “simulare”. Le guardie lo avevano trascinato via
con la forza e legato al tavolaccio.
Il 15 dicembre si
dimette il direttore del carcere Carmelo Scalia, ufficialmente per motivi di
salute. A parte questo, per la morte di Elisei non pagherà nessuno. Inchieste e
processi scagioneranno tutti gli indagati.
Leggendo della vicenda,
Pier Paolo Pasolini rimane sconvolto. “Non so come avrei scritto un articolo su
questa orribile morte”, dichiara alla rivista Noi donne del 27 dicembre 1959.
“Ma certamente è un episodio che inserirò in uno dei racconti che ho in mente,
o forse anche nel romanzo Il rio della grana”. Un romanzo rimasto
incompiuto, poi incluso tra i materiali della raccolta Alì dagli occhi
azzurri (1965). Se dovessi scrivere un’inchiesta,
aggiunge, “sarei assolutamente spietato con i responsabili: dai secondini al
direttore del carcere. E non mancherei di implicare le responsabilità dei
governanti”.
Oggi è difficile, quasi
impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da
Pasolini in 15 anni
L’agonia e la morte in
solitudine di Marcello Elisei scaveranno a lungo dentro Pasolini, fino a
ispirare il finale di Mamma Roma (1962). Ma nel 1959 Pasolini
non è ancora un regista. Ha 37 anni, è autore di raccolte poetiche,
sceneggiature e due romanzi che hanno fatto scalpore: Ragazzi di vita e Una
vita violenta. Ha già subìto fermi di polizia, denunce, processi. Per
censurare Ragazzi di vita si è mossa direttamente la
presidenza del consiglio dei ministri. Eppure, a paragone dello stalking
fascista, del mobbing poliziesco-giudiziario e del linciaggio mediatico che
l’uomo sta per subire, questa è ancora poca roba.
Nel libro Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte (Garzanti 1977) Stefano Rodotà riassume la questione in una frase: “Pasolini rimane ininterrottamente nelle mani dei giudici dal 1960 al 1975”. E anche oltre, va precisato.
Post mortem.
Rodotà parla di “un
solo processo”, lunga catena di istruttorie e udienze che trascinò Pasolini
decine e decine di volte nelle aule di tribunale, perfino più volte al giorno,
tra umiliazioni e vessazioni, mentre fuori la stampa lo insultava, lo irrideva,
lo linciava.
2. Il giornalismo
libero
“Siamo ovviamente
d’accordo contro l’istituzione della polizia”.
L’uomo che nel giugno
1968 scrive questo verso ha già sulle spalle quattro fermi di polizia, 16
denunce e undici processi come imputato, oltre a tre aggressioni da parte di
neofascisti (tutte archiviate dalla magistratura) e una perquisizione del
proprio appartamento da parte della polizia in cerca di armi da fuoco. “Appena
avrò un po’ di tempo”, scrive in un appunto inedito, “pubblicherò un libro
bianco di una dozzina di sentenze pronunciate contro di me: senza commento.
Sarà uno dei libri più comici della pubblicistica italiana. Ma ora le cose non
sono più comiche. Sono tragiche, perché non riguardano più la persecuzione di
un capro espiatorio […]: ora si tratta di una vasta, profonda calcolata opera
di repressione, a cui la parte più retriva della Magistratura si è dedicata con
zelo…”. E ancora: “Ho speso circa quindici milioni in avvocati, per difendermi
in processi assurdi e puramente politici”.
Oggi è difficile, quasi
impossibile cogliere la portata della persecuzione subita ogni giorno da
Pasolini in 15 anni.
Per capire bisognerebbe
calarsi nell’abisso e ripercorrere la sfilza dei pestaggi a mezzo stampa, toccare
con le dita un’omofobia da sporcarsi solo a immaginarla, soppesare l’intero
corpus fradicio di articoli, denso come un grande bolo di sterco e vermi.
Tra i quotidiani si fa
notare soprattutto Il Tempo, ma è la stampa periodica di destra a tormentare
Pasolini in maniera teppistica e ininterrotta. Rotocalchi come Lo Specchio e Il
Borghese si dedicano alla missione con entusiasmo, con reporter e corsivisti
distaccati a tallonare la vittima, a provocarla, a colpirla in ogni occasione,
con titoli come “Il culo batte a sinistra” e lo stile inconfondibile oggi
ereditato da Libero, per citare una sola testata.
Sulle pagine del
Borghese si distinguono nel killeraggio il critico musicale Piero Buscaroli e
il futuro autore e regista televisivo Pier Francesco Pingitore, fondatore del
Bagaglino.
Altre invettive giungono dallo scrittore
Giovannino Guareschi e, in un’occasione, dal critico cinematografico Gian Luigi
Rondi, ma la regina dell’antipasolinismo è senza dubbio Gianna Preda,
pseudonimo di Maria Giovanna Pazzagli Predassi (1922-1981), poi cofondatrice –
indovinate – del Bagaglino.
Celebrata ancora oggi
su un blog di destra come “la signora del giornalismo libero”, “fuori dal
coro”, “mai moralista né oscurantista” e via ritinteggiando, Preda coltiva nei
confronti di Pasolini un’autentica ossessione omofobica, sessuofobica e – ça
va sans dire – ideologica. Sovente si riferisce allo scrittore/regista
chiamandolo “la Pasolina”. Per gli omosessuali, descritti come artefici di
loschi complotti, conia il termine “pasolinidi”. Va avanti per anni, proseguendo
anche dopo la morte di PPP, a scrivere cose del genere:
[Pasolini]
ha potuto, con immutata disinvoltura, continuare a confondere le questioni del
bassoschiena con quelle dell’antifascismo […] Una segreta alleanza […] fa dei
‘capovolti’ il partito più numeroso e saldo d’Italia; un partito che,
attraverso i suoi illustri esponenti, finisce sempre col far capo o col rendere
servizi al Pci […] Il ‘capovolto’ sente, a naso, quel che gli conviene e dove
deve appoggiarsi, se non vuole rendere conto all’opinione pubblica di quello
che essa giudica ancora un vizio […] Così nasce un nuovo mito… [A celebrarlo]
pensano poi i giornali di sinistra, che riescono a camuffare da eroismo la
paura segreta di questo o quel ‘capovolto’ clandestino. Luminose saranno le
sorti dei pasolinidi d’Italia. Già si avvertono i segni delle fortune di coloro
che hanno scoperto troppo tardi il vantaggio d’esser pasolinidi […] Se avremo,
dunque, nuovi scontri con i marxisti […] prima di pensare a coprirci il petto,
preoccupiamoci di coprirci le terga…
L’equivalente di Gianna
Preda sullo Specchio è lo scrittore ex repubblichino Giose Rimanelli, celato
dietro lo pseudonimo di A. G. Solari. Com’è ovvio, attacchi forsennati a
Pasolini giungono anche dal Secolo d’Italia, ma un lavorìo più subdolo e
influente ha luogo sulla stampa popolare nazionalconservatrice, quella di
riviste come Oggi e Gente.
Si va molto più in là,
purtroppo. Pasolini sembra essere la cartina di tornasole del peggio. Nel 1968
il regista Sergio Leone, interpellato dal Borghese, sente l’urgenza di
commentare così le polemiche sul film Teorema: “Sono convinto che tanti film sull’omosessualità hanno fatto diventare del
tutto normale e legittima questa forma di rapporto anormale”. Perfino su Il
manifesto si trovano battute omofobe: “La
tesi [di Pasolini] ridotta all’osso (sacro) è molto chiara…” (21 gennaio
1975).
Come ha scritto Tullio
De Mauro:
I
fiotti neri finiscono con l’inquinare anche acque relativamente lontane. Il
linguaggio verbale non è fatto solo di ciò che diciamo e udiamo. È fatto anche
di ciò che, nella memoria comune, circonda e alona il detto e l’udito. Il
non-detto pesa accanto al detto, ne orienta l’apprezzamento e intendimento. Chi
legge nell’Espresso del 18 febbraio 1968 il pezzo Pasolini benedice i nudisti con foto di giovanotto ciociaro
nudo a cavallo di violoncello, è coinvolto dagli effetti del fiotto nero
d’origine fascista, gli piaccia o no e lo volessero o no i redattori del
settimanale radical-socialista.
È una vasta campagna a
favorire, o meglio, istigare non solo le azioni poliziesche e giudiziarie, ma
anche le aggressioni fisiche da parte di fascisti. Fascisti mai toccati dalla
magistratura, che poi finiranno in diverse inchieste sulla strategia della
tensione, come Serafino Di Luia, Flavio Campo e Paolo Pecoriello.
Il 13 febbraio 1964,
davanti alla Casa dello studente di Roma, una Fiat 600 cerca di investire un
gruppo di amici di Pasolini che difendevano quest’ultimo da un agguato
fascista. A guidare l’auto è Adriano Romualdi, discepolo di Julius Evola e
figlio di Pino, deputato e presidente del Movimento sociale italiano (Msi).
L’episodio è riportato con dettagli e fonti in tutte le biografie di Pasolini,
mentre è assente dalla voce che Wikipedia dedica a Romualdi.
Pasolini non querela,
né per le diffamazioni a mezzo stampa né per le aggressioni fisiche. È una
scelta meditata: non vuole abbassarsi al livello dei suoi persecutori. Inoltre,
se querelasse non farebbe che aumentare la già enorme quantità di tempo che
trascorre in tribunale.
3. Come mai?
Come mai una simile
persecuzione? Perché era omosessuale? Tra gli artisti e gli scrittori non era
certo l’unico. Perché era omosessuale e comunista? Sì, ma nemmeno questo basta.
Perché era omosessuale, comunista e si esprimeva senza alcuna reticenza contro
la borghesia, il governo, la Democrazia cristiana, i fascisti, la magistratura
e la polizia? Sì, questo basta. Sarebbe bastato ovunque, figurarsi in Italia e
in quell’Italia.
Pasolini, ha scritto Alberto
Moravia, scandalizzava quella “borghesia italiana che in quattro secoli ha
creato i due più importanti movimenti conservatori d’Europa, cioè la
controriforma e il fascismo”.
La borghesia italiana
si è vendicata e, in modi più obliqui, continua a vendicarsi. La fandonia di
“Pasolini che stava con la polizia”, ripetuta dai fascisti, dai perbenisti e
dai falsi anticonformisti di oggi, prosegue la révanche dei
fascisti, dei perbenisti e dei falsi anticonformisti di ieri.
Anche l’apologia
postuma di un Pasolini semplificato, appiattito, lucidato e ridotto a santino
fa parte della révanche.
4. “Non potranno
mentire in eterno”
Nel marzo 1960 Fernando
Tambroni, già ministro dell’interno e poi del bilancio, diventa capo di un
governo monocolore Dc. L’esecutivo si forma grazie ai voti dei parlamentari
missini. Appena quindici anni dopo la liberazione, una forza neofascista si
avvicina all’area di governo. Proteste e disordini esplodono in tutto il paese.
Il 30 giugno, decine di migliaia di manifestanti si scontrano con la polizia a
Genova, città operaia e partigiana scelta dall’Msi per il suo congresso. Il 7
luglio, a Reggio Emilia, polizia e carabinieri sparano su una manifestazione
sindacale uccidendo cinque persone. Il 19 luglio, Tambroni si dimette.
La rivista Vie nuove, su
cui Pasolini tiene una rubrica dove dialoga con i lettori, produce all’istante
un disco sull’eccidio di Reggio Emilia. Si tratta della registrazione della
sparatoria. Su Vie nuove, anno XV, numero 33, del 20 agosto 1960, Pasolini
commenta: “Quello che colpisce […] è la
freddezza organizzata e meccanica con cui la polizia ha sparato: i colpi si
succedono ai colpi, le raffiche alle raffiche, senza che niente le possa
arrestare, come un gioco, quasi con la voluttà distratta di un divertimento”.
Sono i giorni del
processo al criminale nazista Eichmann, e Pasolini collega le due storie:
Egli
uccideva così, con questo distacco freddo e preveduto, con questa dissociazione
folle. È da prevedere che le giustificazioni dei poliziotti […] saranno del
tutto simili a quelle già ben note… Anch’essi parleranno di ordini, di dovere
ecc. […] La polizia italiana… si configura quasi come l’esercito di una potenza
straniera, installata nel cuore dell’Italia. Come combattere contro questa
potenza e questo suo esercito? […] Noi abbiamo un potente mezzo di lotta: la
forza della ragione, con la coerenza e la resistenza fisica e morale che essa
dà. È con essa che dobbiamo lottare, senza perdere un colpo, senza desistere
mai. I nostri avversari sono, criticamente e razionalmente, tanto deboli quanto
sono poliziescamente forti: non potranno mentire in eterno.
Nel 1961 Pasolini gira
il suo primo film, Accattone.
In un paese dove si
legge pochissimo, il cinema è potenzialmente più pericoloso della letteratura.
La riprovazione borghese, la censura e la repressione scatenate dai film di
Pasolini (tutti, nessuno escluso) saranno incommensurabilmente maggiori di
quelle scatenate dai libri e dagli articoli. Se poi in un film riemerge la
storia di come morì Marcello Elisei…
Nel 1962, il finale
di Mamma Roma – film che scatena violenze fasciste ed è subito
proibito dalla censura – mostra il giovane Ettore che muore in prigione,
gemente, febbricitante e invocante la mamma, legato in mutande e canottiera a
un letto di contenzione. “Aiuto, aiuto,
perché mi avete messo qua?… Non lo faccio più, lo giuro, non lo faccio più… So’
bono, adesso… Mamma, sto a mori’ de freddo… Sto male… Mamma!… Mamma, sto a
mori’… È tutta notte che sto qua… Nun je ‘a faccio più…”.
Il 31 agosto 1962 il
tenente colonnello Giulio Fabi, comandante del gruppo carabinieri di Venezia,
denuncia Mamma Roma per oscenità e si premura di aggiungere: “Si fa presente che l’autore e regista
Pasolini e uno degli interpreti, il Citti, dovrebbero avere precedenti penali
presso il tribunale di Roma”. Tra coloro che seguono e apprezzano Pasolini
circola l’ipotesi che a irritare l’Arma sia stato il finale del film.
Da qui in avanti,
Pasolini è investito da un’onda d’urto censoria e repressiva che non ha
corrispettivi nella carriera di altri artisti italiani.
5. “Distruggere il
Potere”
Ecco il senso
dell’avverbio “ovviamente”, usato da Pasolini per rafforzare una premessa che
ritiene importante. È del tutto ovvio che PPP sia contro l’istituzione della
polizia.
Ancora più ovvio il
verso che segue: “Ma provate a
prendervela con la magistratura, e vedrete!”. Quella magistratura che tanto
ha perseguitato, continua e continuerà a perseguitare Pasolini, anche dopo la
morte.
È a partire da questa
posizione che l’autore della poesia Il Pci ai giovani affida a
un mucchio di “brutti versi” – definizione sua – una riflessione confusa, che
deraglia subito e diventa uno sfogo, un’invettiva antiborghese. Come scriverà
poco dopo: “Sono troppo traumatizzato
dalla borghesia, e il mio odio verso di lei è ormai patologico”.
Ma per quanto
l’invettiva possa essere brutta sul piano formale e carente nei contenuti, dopo
averla letta tutta (tutta intera, non solo i 4-5 versi estrapolati e branditi
come randelli da questo o quello scagnozzo) è difficile concludere che
“Pasolini stava con la polizia”.
Pasolini descrive i
poliziotti che si sono scontrati con gli studenti a Valle Giulia come “umiliati dalla perdita della qualità di
uomini / per quella di poliziotti”. L’istituzione della polizia
disumanizza. Per questo gli studenti – “quei
mille o duemila giovani miei fratelli / che operano a Trento o a Torino, / a
Pavia o a Pisa, / a Firenze e un po’ anche a Roma” – sono comunque “dalla
parte della ragione” e la polizia “dalla parte del torto”.
Se non si capisce
questo, non si coglie l’intento paradossale di Pasolini. Il paradosso gli serve
a precisare che la vera rivoluzione non la faranno mai gli studenti, perché
sono figli di borghesi. Al massimo potranno fare una “guerra civile”, in questo
caso generazionale, in seno alla borghesia. La rivoluzione, dice Pasolini,
possono farla solo gli operai, ai quali la grande stampa borghese non leccherà
mai il culo, come invece – nell’iperbole pasoliniana – sta facendo con gli
studenti.
Sono gli operai il vero
pericolo per il potere capitalistico, dunque saranno loro a subire la
repressione poliziesca più pesante: “La
polizia si limiterà a prendere un po’ di botte dentro una fabbrica occupata?”,
si chiede retoricamente l’autore. Quindi, è proprio là che dovranno trovarsi
gli studenti, se vogliono essere rivoluzionari: tra gli operai. “I Maestri si fanno occupando le Fabbriche
/ non le università”. Ma soprattutto, gli studenti devono riprendere in mano “l’unico strumento davvero pericoloso /
per combattere contro i [loro] padri: / ossia il comunismo”. Pasolini li
invita a impadronirsi del Pci, partito che ha “l’obiettivo teorico” di
“distruggere il Potere” (quell’estinzione dello stato che Marx pone a obiettivo
finale della lotta di classe e del socialismo) ma è finito in indegne mani, le
mani di “signori in modesto doppiopetto”,
“borghesi coetanei dei vostri stupidi padri”. Occupare le federazioni del
Pci, dice Pasolini, aiuterebbe il partito a “distruggere,
intanto, ciò che di borghese ha in sé”.
Questa esortazione
occupa tutta la seconda metà del testo, ma – guarda caso – non viene mai
citata.
Lo so, sembra strano,
dappertutto era stato detto che Il Pci ai giovani parlava bene
della repressione poliziesca. Avevamo sentito versi di questa poesia citati da
pubblici ministeri mentre chiedevano pene pesantissime per i No Tav, li avevamo
uditi dalle labbra di Belpietro, li avevamo letti nei comunicati del Sap e del
Coisp…
6. Un infame mantra
Il Pci ai giovani fu
attaccata subito, e non solo dagli studenti che criticava. Franco Fortini
riempì Pasolini di insulti. Sotto il cumulo di quegli insulti, le critiche
erano giuste. Pasolini provò a spiegarsi, cercando di non rimangiarsi il
paradosso. Quei versi erano “brutti” perché non erano bastati “da soli a esprimere ciò che l’autore [voleva] esprimere”.
Erano versi “’sdoppiati’, cioè ironici, autoironici. Tutto è detto tra
virgolette”. Parlò di “boutade”, di “captatio malevolantiae”,
ma non arretrò mai dal punto che aveva scelto e deciso di difendere: l’invito
agli studenti a “operare l’ultima scelta
ancora possibile […] in favore di ciò che non è borghese”.
Ma ormai la frittata
era fatta e sarebbe rimasta a cuocere in padella per i quarant’anni e passa a
venire, per la gioia di “postfascisti”, ciellini, sindacati gialli, teste da
talk-show, scrittori tuttologi esternazionisti, commentatori pavloviani.
Ogni volta che si
manifesta il conflitto sociale e la polizia interviene a reprimerlo riparte,
come lo ha chiamato un cattivo maestro, “l’infame mantra” su Pasolini che stava
con la polizia e i manganelli. Con quel mantra si è giustificato ogni ricorso
alla violenza da parte delle forze dell’ordine. Bastonate, candelotti sparati in
faccia, gas tossici, l’uccisione di Carlo Giuliani, l’irruzione alla scuola
Diaz di Genova, la solidarietà di corpo agli assassini di Federico Aldrovandi,
di Stefano Cucchi, eccetera. Periodicamente, frasi decontestualizzate sui
manifestanti “figli di papà” e i poliziotti proletari sono usate contro
precari, sfrattati o popolazioni che si oppongono alla devastazione del proprio
territorio.
Ho però il sospetto che
il mantra si sia imposto solo a partire dagli anni novanta, insieme a certe
“appropriazioni” del pensiero di Pasolini. Sicuramente, nel periodo 1968-75
nessun detentore del potere, nessun membro del blocco d’ordine lesse quei versi
come davvero apologetici della repressione. Basti vedere come proseguirono i
rapporti tra Pasolini, la polizia e la magistratura, e come si evolsero quelli
tra Pasolini, il movimento studentesco e le sinistre extraparlamentari.
7. “Propaganda
antinazionale”
Nell’agosto 1968, due
mesi dopo la polemica su Il Pci ai giovani, Pasolini partecipa alla
contestazione contro la Mostra d’arte cinematografica di Venezia, occupa il Palazzo
del Cinema al Lido, subisce lo sgombero poliziesco e si prende l’ennesima
denuncia. Sarà processato insieme ad altri registi, con l’accusa di aver
“turbato l’altrui pacifico possesso di cose immobili”. Verrà assolto
nell’ottobre 1969.
Sulla rivista Tempo,
anno XXX, numero 39, del 21 settembre 1968, la rubrica Il Caos tenuta da
Pasolini contiene una “Lettera al Presidente del Consiglio”, che in quei giorni
è Giovanni Leone, non ancora “quirinato” né impeached. Lo scrittore
accusa il capo del governo per la repressione a Venezia. Quanti credono che
Pasolini fosse contro il ‘68 e i contestatori trasecolerebbero leggendo questo
passaggio
“Nel
’44-’45 e nel ’68, sia pure parzialmente, il popolo italiano ha saputo cosa
vuol dire – magari solo a livello pragmatico – cosa siano autogestione e
decentramento, e ha vissuto, con violenza, una pretesa, sia pure indefinita, di
democrazia reale. Intorno c’è silenzio e deserto: il qualunquismo, la
degenerazione statalistica, le orrende tradizioni sabaude, borboniche,
papaline.”
Leone risponde
arzigogolando, Pasolini continua a mirare diritto e sul numero 41 del 5 ottobre
1968 ribadisce: “Io ero presente, quella
notte. E ho visto coi miei occhi le
violenze della polizia”.
Per chiedere – e il più
delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini agiscono in prima
persona membri delle forze dell’ordine
Due mesi dopo, sul
numero 52 del 21 dicembre 1968, Pasolini commenta l’ennesimo eccidio per mano
poliziesca – due braccianti crivellati di colpi ad Avola, in Sicilia – e
sostiene la proposta, fatta da un Pci ancora lontano dall’appoggio alle leggi
speciali, di disarmare la polizia:
“Disarmare
la polizia significa infatti creare le condizioni oggettive per un immediato
cambiamento della psicologia del poliziotto. Un poliziotto disarmato è un altro
poliziotto. Crollerebbe di colpo, in lui, il fondamento della ‘falsa idea di
sé’ che il Potere gli ha dato, addestrandolo come un automa.”
In una puntata della
rubrica rimasta inedita e ritrovata da Gian Carlo Ferretti, Pasolini risponde a
una lettrice di destra, tale Romana Grandi, che gli ha inviato un volantino
dell’Msi-Dn pieno di ingiurie nei confronti suoi e di altri intellettuali: “Un piccolo sforzo potrebbe pur farlo, visto
che scrive e riscrive di essere una lavoratrice:
non si è accorta che coloro che sono colpiti dalla polizia sono i lavoratori (e gli studenti che
lottano accanto ai lavoratori)?”.
L’autunno del ’69 – il cosiddetto
autunno caldo – è una stagione di grandi lotte e vittorie operaie. Il 12
dicembre, per tutta risposta, esplode la bomba in piazza Fontana. A ruota,
parte la montatura per colpire gli anarchici, le sinistre e il movimento
operaio. Il 15 dicembre muore Giuseppe Pinelli. Il 16 dicembre, l’inviato del
Tg1 Bruno Vespa comunica a milioni di persone che “Pietro Valpreda è il
colpevole, uno dei responsabili della strage di Milano”. L’anarchico Valpreda
diventa il mostro.
Pasolini, Moravia,
Maraini, Asor Rosa e altri intellettuali firmano un appello “contro l’ondata
repressiva”. Sul Borghese del 28 dicembre 1969, Alberto Giovannini coglie la
palla al balzo e scrive:
“Tra
gli arrestati, oltre al Valpreda, uso a voltare la schiena non solo all’odiata
borghesia ma anche agli amati giovinetti, vi sono molti ‘travestiti’ e
‘checche’; e il fatto non può lasciare indifferente P. P. Pasolini, che dei
capovolti di tutta Italia è, di certo, il padre spirituale, visto che la natura
ingrata […] non gli ha consentito di esserne la madre”.
Sul numero 2, anno XXXII,
di Tempo, del 10 gennaio 1970, Pasolini si rivolge al deputato
socialdemocratico Mauro Ferri e scrive:
“L’estremismo
dei gruppi minoritari ed extraparlamentari di sinistra non ha portato in nessun
modo (è infame solo pensarlo) alla strage di Piazza Fontana: esso ha portato
alla grande vittoria dei metalmeccanici. Prima che Potere Operaio e gli altri gruppi minoritari
extra-partitici agissero, i sindacati dormivano.”.
Dal 1 marzo 1971, per
due mesi, Pasolini si presta a fare il direttore responsabile del giornale
Lotta Continua, accettando il rischio di essere inquisito, rinviato a giudizio
e processato per i contenuti del giornale. Cosa che succede il 18 ottobre dello
stesso anno, per avere “istigato militari a disobbedire le leggi […], svolto
propaganda antinazionale e per il sovvertimento degli ordinamenti economici e
sociali costituiti dallo Stato [e] pubblicamente istigato a commettere
delitti”. Pena massima prevista dal codice: 15 anni di reclusione. Testimoni
per l’accusa: ufficiali, sottufficiali e agenti della pubblica sicurezza e dei
carabinieri.
Dopo questo rinvio a
giudizio, in spregio a qualsivoglia presunzione d’innocenza, la Rai blocca la
messa in onda del programma di Enzo Biagi Terza B: facciamo l’appello.
Oggi è una delle più famose apparizioni televisive di Pasolini, ma molti non
sanno che fu censurata e andò in onda solo dopo la sua morte, cinque anni dopo
essere stata registrata.
Nel frattempo, per
chiedere – e il più delle volte ottenere – il sequestro delle opere di Pasolini
agiscono in prima persona membri delle forze dell’ordine.
A Bari, l’ispettrice di
polizia Santoro segnala l’oscenità “orripilante” del film Decameron.
Ad Ancona, contro la medesima pellicola sporge denuncia l’ispettore forestale
Lorenzo Mannozzi Torini, secondo Wikipedia un “pioniere della tartuficoltura”.
Certamente provato ma
per nulla intimidito, Pasolini finanzia e gira insieme al collettivo
cinematografico di Lotta continua (Lc) un documentario-inchiesta su piazza
Fontana e sullo stato delle lotte in Italia. Sceneggiato da Giovanni Bonfanti e
Goffredo Fofi, il documentario esce nel 1972 con il titolo 12 dicembre e
la dicitura “Da un’idea di Pier Paolo Pasolini”.
Ancora nel novembre
1973, quando il rapporto con Lc è teso e sull’orlo della rottura, Pasolini
dichiara: “I ragazzi di Lotta continua sono degli estremisti, d’accordo, magari
fanatici e protervamente rozzi dal punto di vista culturale, ma tirano la corda
e mi pare che, proprio per questo, meritino di essere appoggiati. Bisogna
volere il troppo per ottenere il poco”.
8. “Le nostre vecchie
conoscenze”
L’ultima stagione, è segnata dalla reiterata, implacabile richiesta
di un grande processo alla Democrazia cristiana, ai suoi dirigenti e notabili,
ai complici delle sue politiche.
Dopo Il Pci ai
giovani, sono alcune formule-shock del Pasolini 1974-75 a detenere il
primato delle decontestualizzazioni e delle letture strumentali.
Per esempio, si
estrapolano paradossi come “il fascismo degli antifascisti” per difendere le
adunate di estrema destra, guardandosi bene dal dire che Pasolini usava
l’espressione per attaccare l’ipocrisia del cosiddetto arco costituzionale,
l’insieme dei partiti al potere, quelli che – dice in un’intervista del giugno
1975 – “continueranno a organizzare altri assassinii e altre stragi, e dunque a
inventare i sicari fascisti; creando così una tensione antifascista per rifarsi
una verginità antifascista, e per rubare ai ladri i loro voti; ma, nel tempo
stesso, mantenendo l’impunità delle bande fasciste che essi, se volessero,
liquiderebbero in un giorno”.
Senza il contesto cosa
rimane? Una manciata di immagini – le lucciole, la fine del mondo contadino, i
corpi omologati dei capelloni – ridotte a cliché e rese innocue. Rimane il
“mito tecnicizzato” di uno pseudoPasolini light, propinato dalla
stessa cultura dominante che perseguitò Pasolini, dagli eredi giornalistici dei
suoi diffamatori e dagli eredi politici di chi lo aggrediva per strada.
L’8 ottobre 1975, sul
Corriere della Sera, Pasolini commenta la messa in onda di Accattone da
parte della Rai. Nel suo film d’esordio, scrive, metteva in scena due fenomeni
di continuità tra regime fascista e regime democristiano: “Primo, la
segregazione del sottoproletariato in una marginalità dove tutto era diverso;
secondo, la spietata, criminaloide, insindacabile violenza della polizia”.
Nella polizia fascista
di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia
Riguardo al primo
fenomeno, scrive Pasolini, la società dei consumi ha “integrato” e omologato
anche i sottoproletari, le loro abitudini, i loro corpi. Quindi, il mondo
rappresentato in Accattone è finito per sempre.
È trascorso poco tempo,
ma quelle parti di Roma sono cambiate. Pasolini le attraversa e dietro ogni
incrocio, dietro ogni edificio, dietro ogni
capannello di giovani vede – in una sovrapposizione lievemente sfasata –
com’erano l’incrocio, l’edificio e quei giovani solo poco tempo prima. Tutto è
in apparenza simile, ma la tonalità emotiva è alterata, la nota di fondo è
irriconoscibile.
Ma cosa dice Pasolini
del secondo fenomeno di continuità tra regime fascista e regime democristiano?
“Su questo punto c’intendiamo subito tutti”, scrive, e sa di essere
provocatorio. Sta parlando ai lettori del Corsera, è implausibile che tutti
siano d’accordo nel ritenere “spietata” e “criminaloide” la violenza della
polizia.
Ma l’autore è chiarissimo:
“È inutile spendere parole. Parte della
polizia è ancora così”. Segue un riferimento alla polizia spagnola, la
guardia civil del regime franchista. Riferimento oggi incomprensibile, se non
si sa cosa accadeva in Spagna in quei giorni. Ecco un titolo da l’Unità del 5 ottobre
1975: “Tortura a Madrid. / È stata usata
dalla polizia franchista in modo sistematico contro non meno di 250 baschi. –
Le conclusioni di un’inchiesta di Amnesty International – Testimonianze
agghiaccianti”.
Il passaggio è rapido,
ma non superficiale. Ci mostra un altro “doppio mondo” sfasato. Nella polizia
fascista di Madrid e Barcellona, scrive Pasolini, rivediamo la nostra polizia,
“le nostre vecchie conoscenze in tutto il loro squallido splendore”.
9. L’uomo che sorride
Tre settimane dopo, la
notte tra il 1 e il 2 novembre, il corpo di Pasolini giace nel fango di Ostia,
massacrato, ridotto a un unico cencio intriso di sangue.
Ora, per chiudere, le parole di Roberto Chiesi:
Se
guardate tra le terribili foto del ritrovamento del cadavere di Pasolini, ce
n’è una, forse la più terribile, che mostra il corpo rovesciato e martoriato,
con intorno alcuni inquirenti e poliziotti seduti sulle ginocchia. In
particolare c’è un poliziotto seduto accanto al cadavere di Pasolini, che
sorride. La foto lo mostra in maniera inequivocabile: è un sorriso di scherno,
di disprezzo. Questa immagine può essere presa a campione di tutta un’Italia
deteriore, da rifiutare, condensata in quell’immagine in bianco e nero, apparsa
sulle prime pagine di tanti giornali dell’epoca.
Pasolini continuava a essere contro la polizia, la polizia continuava a essere contro Pasolini.
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