Dire che la copertina è la cosa più sorprendente di questo album non significa sminuirla: è una delle più belle copertine nella storia del jazz, con il ben evidenziato nome dell'album, i suoi bellissimi colori e la sua perfetta tipografia che mostra citazioni elogiative sul pianista Bill Evans, da parte di esperti come Miles Davis (nel cui sestetto Evans aveva suonato), George Shearing, Ahmad Jamal e Julian Cannonball Adderley.
Era solo il 1958 e la copertina di un album non è mai stata migliore di questa.
Ma per quanto la copertina sia bella, la musica all'interno è ancora più bella.
"Eveybody digs Bill Evans" è il secondo disco solista di Evans, e lui suona in maniera particolarmente ispirata, interpretando canzoni classiche e bellissimi brani originali.
Alcune tracce appaiono al tempo stesso glaciali e belle, come "What Is There to Say?", mentre altre, come "Oleo", sono degli swing uptempo.
Ma la tecnica di Evans è così originale e compiuta che l'intero disco regge senza alcun problema.
Il miglior esempio di questo, forse in tutta la sua carriera, è "Peace Piece".
Originariamente basato su una composizione di Leonard Bernstein, questo assolo di pianoforte cristallino si è evoluto in una canzone modale che, consentitemi, appare più vicina alla perfezione di qualsiasi cosa mai registrata.
Evans si prende il suo tempo per creare una delicata tensione, nella quale è facile ascoltare echi della musica di Erik Satie, prima di esplodere con una serie di frasi musicali più aggressive, che si risolvono altrettanto rapidamente nell'etere.
Il modello per il classico di Miles Davis, Kind of Blue, del 1959, (che Bill Evans ha ispirato, suonato, e per il quale ha scritto le note di copertina) può essere trovato proprio qui, in questi sette minuti assolutamente perfetti.
Ad onor del vero, buona parte del merito per la riuscita dell'album va riconosciuto ai collaboratori che Bill Evans scelse per l'occasione.
Il lavoro di basso di Sam Jones riesce a essere sia maestoso che allegro in "Tenderly", mentre sostiene in maniera impeccabile il ritmo nell'iniziale "Minority".
E non ci si può sottrarre dall'esprimere giudizi ugualmente entusiasti sul lavoro dietro ai tamburi di Philly Joe Jones, uno dei migliori batteristi che abbiano calcato le scene.
Ascoltare l'assolo di apertura latino di "Night and Day" significa capire di cosa si tratta nella musica jazz.
Ripensando a "Everybody Digs Bill Evans" nel 1975, il pianista disse:
"Mi sono sempre sentito piuttosto bene riguardo a quel disco, perché sapevo che c'era una forte emozione, e questa è la cosa più difficile del registrare, per cominciare.
Sai, entri a una certa ora in un certo giorno, e speri di avere quel tipo di picco.
Non importa cosa accada, suoni, fai un lavoro, e per la maggior parte degli ascoltatori probabilmente non fa poi così tanta differenza.
Tuttavia, quando hai quel giorno speciale, penetra... Voglio dire, questo album ha ottenuto un certo tipo di reazione dalla gente nel corso degli anni; sembra avere molto a che fare con quella sensazione molto speciale che avevo allora".
C'è qualcosa di profondamente intimo e toccante in "Everybody Digs Bill Evans".
L'album non è solo una dimostrazione della straordinaria tecnica e del talento del pianista, ma anche una finestra aperta sulle sue emozioni e sui suoi pensieri.
Ogni brano è un viaggio attraverso i sentimenti, una conversazione sincera tra l'artista e l'ascoltatore.
Le improvvisazioni di Evans, sempre eleganti e precise, sembrano sgorgare dal profondo del suo essere, conferendo a ogni nota un significato speciale.
In definitiva, "Everybody Digs Bill Evans" non è solo un album per gli amanti del jazz, ma per chiunque apprezzi la bellezza e la complessità della musica.
È un'opera che continua a ispirare e a commuovere, confermando Bill Evans come uno dei più grandi musicisti della sua generazione.
Nessun commento:
Posta un commento