10 febbraio 1971.
Tra il pubblico della St. Mark’s Church, le celebrità si mescolano agli appassionati di letteratura. In programma c’è il reading di Gerard Malanga e con lui il debutto di una giovane poetessa. Patti Smith ha ventiquattro anni e può contare sui primi ammiratori “importanti” e sui primi sponsor tra la gente che conta, nell’ambiente culturale di New York.
Ad accompagnarla in alcuni pezzi c’è un chitarrista, Lenny Kaye, che nel futuro immediato sarà il produttore della mitica compilation Nuggets e in quello prossimo diventerà la sua spalla quasi inseparabile. Sembra una predestinata per la celebrità. In effetti lo è. Devono passare però quattro anni prima che mantenga quelle promesse di fama e di gloria.
Quattro anni perché trovi la strada di un cantautorato a metà tra la poesia declamata e il rock scarno e urbano del CBGB’s. Quattro anni in cui Patti pubblica le prime raccolte di poesie, recita a teatro, conosce da vicino alcuni suoi eroi come William Burroughs e Bob Dylan e incrocia il cammino con compagni di viaggio importanti, come lo stesso Kaye, come Tom Verlaine dei Television, come Robert Mapplethorpe, che sarà autore dello scatto in bianco e nero sulla copertina di Horses, immagine che la renderà un’icona.
Quattro anni in cui ha dato forma al proposito di iniettare nuova linfa vitale nelle vene un po’ secche del rock di metà settanta attraverso la poesia. Quattro anni in cui il suo discorso si è evoluto fino ad acquistare un ampio respiro e una nuova cadenza, dall’accompagnamento jazzato di Piss Factory, il lato A del suo primo singolo, e dal protorap di Hey Joe, presente sul lato B , a quello che lei stessa ha definito "three chord rock and roll merged with the power of the word", che mescola cioè la poesia recitata a una profetica anticipazione del punk.
In questo senso Horses è il vero album spartiacque, quello che taglia a metà gli anni ’70 temporalmente e non solo perché "era una via di fuga dai concerti negli stadi e dalle band sfavillanti. Tornavamo nelle strade, nei garage. La gente che venne dopo era di QUEL genere. Noi eravamo i nonni, i primi a essere usciti dal CBGB".
La madrina del punk segue, qui più che nei suoi lavori successivi, un modulo espressivo ricamato sulla ritmicità dei suoi versi e sulle impunture drammatiche del recitativo all’interno di un rock fluido e teatrale, anche se mai sopra le righe. Non è una grande cantante in senso puramente tecnico, ma una performer eccezionale per com’è in grado di modulare la voce.
Patti si presenta con una band – oltre a Kaye, Ivan Kral alla chitarra e al basso, Richard Sohl al piano e Jay Dee Daugherty alla batteria – che la sa assecondare sulla via del free form, e capace nel contempo di rendere di nuovo incendiari i vecchi classici sixties, come Gloria dei Them e Land of Thousand Dances, interpolandoli alla musica originale con una finezza notevole.
Il recital e la forma canzone convivono naturalmente dando vita a un incipit tra i più memorabili della storia, a partire dal verso "Jesus died for somebody’s sins but not mine" con cui Patti attacca, su pochi accordi di pianoforte, un pezzo che diventa blues per poi sfociare in un’intensa cover di Gloria che è allo stesso tempo un tuffo nel passato, in quel Sixties garage che Lenny Kaye conosceva molto bene e aveva chiamato punk rock, e un’escursione in un futuro prossimo che porterà nel 1977 a un secondo anno zero del rock and roll.
Stessa cosa avviene in Land, una sorta di The End dei Doors in chiave protopunk, della durata di nove minuti che comincia addirittura dalla sola voce recitante per poi confluire nella Land of 1000 Dances di Chris Kenner, terminando con un "crossover cultural-musicale" tra Arthur Rimbaud e Chuck Berry al grido "Go Rimbaud and go, Johnny go".
I brani centrali non sono da meno; anzi, è qui che si cela la vera cartina di tornasole dell’album. Free Money parte da versi intonati su un sottofondo scarno che diventano strada facendo una canzone rock dal passo trascinante. Birdland porta avanti lo stesso discorso di Piss Factory anche se con una maggiore fusione tra l’impianto musicale e lo sviluppo dei versi.
Kimberly risolve in un grandioso refrain finale un andamento melodico di seducente eccentricità in cui memorie velvettiane si mescolano ad anticipazioni di new wave. A completare il disco, pezzi più “standard” come il reggae di Redondo Beach, la Break It Up ravvivata dal tocco chitarristico di Tom Verlaine, e, in ultimo, una Elegie minacciosamente in sordina, anche se le cose più belle rimangono appunto quelle fuori misura, che danno veramente l’idea dell’intensità dell’autrice, dell’artista, della persona scenica.
Anche se all'epoca l'album fu criticato per il suono, esso non può non essere considerato un classico della musica rock per la qualità delle canzoni presenti.
Come per gruppi come i Television o i Velvet Underground, anche quando si parla dei dischi di Patti Smith piace metterne in evidenza l'attitudine "arty".
Se la cosa è sacrosanta per le opere successive, più formalmente rock, non vale per questo esordio. Che è "arty", nel senso buono, nella forma, ma splendidamente rock 'n' roll nell'attitudine.
Il miglior disco rock con il nome di una donna in copertina, e uno dei migliori in assoluto, qualunque sia il nome in copertina.
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