giovedì 9 gennaio 2025

Blade Runner


È del tutto normale che un film dedicato alla replicazione debba esistere in più versioni.
Non esiste un Blade Runner, ma ben sette.
Sebbene le opinioni su quale sia il migliore siano differenti e ogni edizione abbia i suoi sostenitori, la versione definitiva del film distopico del 1982, diretto da Ridley Scott è molto probabilmente Blade Runner - The Final Cut del 2002. 
Appropriatamente, anche la ripetizione è scritta nella trama del film , che vede il protagonista Deckard, interpretato da Harrison Ford, come un cacciatore di taglie (un "Blade Runner" cioè "un corridore sul filo del rasoio") incaricato di dare la caccia, uno dopo l'altro, a quattro replicanti Nexus-6, esseri umani artificiali geneticamente progettati, destinati a essere schiavi per le colonie extraterrestri della Terra.  Zhora (Joanna Cassidy), Leon (Brion James), la "modella del piacere" Pris ( Daryl Hannah ), e poi lui, la "bestia bionda" di Friederich Nietzsche, Roy Batty (il grandissimo Rutger Hauer). 
Lungo la strada, Deckard incontra e si innamora di un'altra replicante, Rachel (Sean Young), bella e fredda come una bambola di porcellana.


In Blade Runner , come in tutta la fantascienza, il "futuro" è uno stile. Qui quello stile è in parte film noir e in parte Gary Numan. L'influenza degli anni '40 è ovunque: nelle spalline alla Joan Crawford di Rachael, nelle ombre a strisce proiettate dalle veneziane, nell'atmosfera di sconfitta. 
Non è solo noir, Ridley Scott attinge anche a serie e film polizieschi degli anni '70 che a loro volta attingevano allo stile nostalgico, con il loro jazz struggente e i loro tristi appartamenti. Deckard visita persino uno strip club come tutti i detective della TV devono fare. 
Il film rimane uno dei più visivamente sbalorditivi nella storia del cinema. Traccia un pianeta di notte perpetua, un paesaggio di ombre, pioggia e neon riflessi, illuminati su finestre o occhi, in un mondo non costruito su scala umana, dove i grattacieli ci sovrastano come le antiche piramidi. 
In alto, sopra il mondo simile a quello di Philip Marlowe, le auto volanti piombano in picchiata e i cartelloni pubblicitari dirigibili fluttuano. Più datato ora del suo lustro hard-boiled è il coinvolgimento uguale e opposto del film nei sogni alla moda dei primi anni '80; la colonna sonora di Vangelis era all'avanguardia, mentre i replicanti si vestono come comparse di un video di Billy Idol, una festa in costume post-punk e synth-pop. Tuttavia, è il romanticismo noir a vincere, regalando al film la sua sconsolata solitudine.


La trama si basa sull'idea che ai replicanti non deve essere consentito di vivere più di quattro anni, perché con il passare del tempo iniziano a sviluppare emozioni crude. Perché poi  le emozioni dovrebbero essere un reato capitale non viene mai spiegato a sufficienza,  ma la linea narrativa  del film è in linea con quello che lo psicologo Ian D. Suttie una volta ha chiamato il "tabù della tenerezza". L'intimità qui è spaventosa, tutti sembrano vivere da soli, e fa particolarmente paura  la possibilità che i replicanti potrebbero essere indistinguibili da noi.
Questa ansia potrebbe aver avuto originariamente delle sottintese ripercussioni politiche. 
Nel romanzo su cui si basa il film, "Do Androids Dream of Electric Sheep ?" (in italiano "Gli Androidi sognano pecore elettriche?") di Philip K. Dick, pubblicato nel 1968, si dipana il dilemma del soldato semplice a cui viene ordinato di uccidere un avversario considerato meno umano di noi, che è però turbato dalla possibilità che il nemico indicatogli non sia in realtà diverso da lui. 
Gli echi dell'allora contemporanea guerra in Vietnam oscurano la storia, così come i ricordi del passato schiavista dell'America. 
Ci viene detto che i replicanti possono fare tutto ciò che un essere umano può fare, tranne provare empatia. 
Eppure, quanta empatia proviamo per vittime lontane o per altri cosiddetti "scomodi"?

Il Deckard di Harrison Ford potrebbe o meno essere così preso dall'incertezza sul suo lavoro come il blade runner originale di Philip Dick. E in ogni caso, la sua brusca "mancanza di affetto" fornisce uno degli enigmi di lunga data del film: è anche lui un replicante? 
Di certo la perenne scontrosità di Harrison Ford, il suo cinismo, pongono barriere al sentimento che suggeriscono che sia tanto inquietante per lui quanto lo è per il braccato Leon o Roy. Sebbene alcuni ne dubitino ancora, sembra chiaro che Deckard sia davvero un replicante, le sue fantasie e i suoi ricordi scaricati da qualche database, la sua vita transitoria come quella delle sue vittime. Tuttavia, mentre guardiamo Blade Runner , Deckard non si sente un replicante; è cupo e disinteressato, ma manca dell'innocenza distaccata delle sue vittime, del loro distaccato sconcerto per i propri sentimenti non addestrati. Antitesi del cupo Deckard, il Roy di Rutger Hauer è un sinistro sorridente, o qualcuno il cui volto è colpito da un'emozione inassimilabile.


Dopotutto, nessuno dei replicanti che sono la preda di Deckard ha più di quattro anni; non dovrebbe sorprendere che si comportino anche come bambini. ("Cavolo", mormora Roy, mentre osserva una serie di pupazzi e bambole viventi, "hai davvero dei bei giocattoli qui."
Ed è proprio come bambini che forse impariamo ad affezionarci a loro, nonostante tutto il loro agghiacciante potenziale di violenza. Sono bambini anche in relazione all'uomo che li ha creati: Tyrell, il novello Dr. Frankenstein padre della creatura emarginata di Roy. A questo proposito, le energie psicologicamente oscure e patricide del film sono inevitabili: quando viene incalzato dalle domande su sua madre, Leon risponde "lascia che ti racconti di mia madre", e colpisce all'inguine l'inquisitore; quando Roy chiede a Tyrell: "Voglio più vita, stronzo", è la prima e unica parolaccia del film, ancora più forte per questo, e perché rivolta a un "padre" che lo ha progettato senza sentimenti, e non per amore.

Tyrell è il capo murdochiano della Tyrell Corporation; una delle tante ipotesi di Blade Runner sul futuro è che non sarebbero i governi, ma le corporazioni a gestire davvero le cose. 
"Più umano dell'umano" è il motto della Tyrrell Corporation e con i Nexus 6 sembra che siano riusciti nel loro scopo. Anche Rachael è un esperimento: una replicante che crede di essere umana. Come i molti umani del film, inconsapevoli di essere dei replicanti di un'umanità ormai in preda a una cecità ignorante del mondo.
In questo caso la sequenza all'interno del laboratorio criogenico, dove Chew costruisce gli occhi dei Nexus 6, è una di quelle più significative. Batty e Leon cercano risposte per "allungare" la propria vita, per prolungare il tempo della visione: i bulbi sono raccolti e sparsi sulle spalle di uno spaventato Chew in una moltiplicazione fisica dello strumento di visione, ma che risultano oggetti inanimati e inerti, incapaci di vedere realmente. 
Così per gli umani gli occhi non bastano più per vedere la realtà e hanno bisogno di replicarli o potenziarli: Deckard usa il visore della Voigt-Kampff per scoprire i replicanti e di un altro computer per carpire dei dettagli in una fotografia, recuperata nell'appartamento dei replicanti.
Chew ha in testa una cuffia con diverse lenti; lo stesso Tyrrell indossa degli occhiali con spesse lenti bifocali (una vista biforcuta, palesemente artificiosa). 


Invece i replicanti osservano il mondo con il loro sguardo triste e puro, alla ricerca di una verità negata.
La cecità degli uomini viene confermata da come Roy Batty uccide Chew, J.F. Sebastian e lo stesso Tyrrell: schiacciando gli occhi con le dita. In particolare, l'incontro tra Tyrrell e Batty è l'espressione edipica di un confronto tra padre e figlio, tra creatore e creatura, tra demiurgo e opera metafisica, dove la punizione è la morte per chi è incapace di vedere, di ricordare, di provare emozioni. 
Tutto ciò riconfermato dall'ultima straziante e famosa sequenza, nel monologo finale di Roy Batty prima di morire "Ho visto cose che voi umani non potete nemmeno immaginare...", davanti a un Deckard stupito, dove la vita è data innanzi tutto da ciò che si è visto e si ricorda.
Se la visione del mondo crea i ricordi, le loro tracce possono essere trasformate in fotografie: per questo i replicanti sono attaccati alle loro foto, così come ai ricordi, perché esse sono simbolo del vissuto, della loro umanità. E di foto è pieno anche l'appartamento di Deckard; le foto le porge Rachael a Deckard come prova e materia iconica del proprio vissuto. Attraverso i ricordi, Deckard accompagna lo spettatore nella detection umanistica, nel ritrovamento e poi nello scontro con i vari replicanti. I ricordi dunque sono componenti della visione vissuta dagli uomini e dai replicanti. Non ha nessuna importanza che siano fittizi, costruiti, inventati o reali: prendono forma per chi li vive nel momento che si palesano allo sguardo, attraverso le immagini fotografiche, gli occhi degli uomini o le immagini in movimento del Cinema.

Le istantanee sentimentali di Leon sono illuminate come i dipinti di Edward Hopper , sebbene in esse le figure umane siano quasi assenti, oscurate dalla tristezza, nascoste negli specchi. Il film si aggrapperebbe a tali momenti fugaci, proiettandoci il ricordo. Altrimenti i ricordi si perdono, come ci dice Roy, "come lacrime nella pioggia"; ma i suoi ricordi sono reali o impiantati artificialmente? 
Le fotografie che decorano il pianoforte di Deckard sono autentiche o false?


Tuttavia Blade Runner non sorvola sul fatto che anche il cinema può partecipare alla procedura disumanizzante, trasformando gli altri in oggetti per il nostro voyeurismo. La nostra resistenza a questo processo può essere misurata nelle nostre risposte alle morti dei replicanti. Indossando un bikini da spogliarellista e un impermeabile di plastica trasparente, Zhora viene assassinata in uno spettacolo soft-porn al rallentatore, trasmesso con una musica triste; ma è tristezza per lei ciò che proviamo? 
Quando Pris muore, lo fa come uno scarafaggio che si dimena e stride sulla sua schiena; la stranezza di ciò respinge la compassione. Eppure, pochi minuti dopo, vedremo Roy piangerla, la sua morte non è una questione di disgusto ma di lamento.

Il percorso di Deckard lontano dalla crudeltà e dalla disconnessione avviene, in modo abbastanza equivoco, nel suo rifiuto dei valori del "business" e nel lasciarsi innamorare di Rachael. Ci sono tre scene d'amore tra loro nell'appartamento di Deckard, ciascuna giocata con crescente vicinanza: la prima non è affatto una scena d'amore, i due si aggirano furtivamente in stanze diverse, le porte si chiudono tra loro; la seconda, subito dopo che Rachael ha salvato la vita a Deckard, lo mostra inquietantemente violento nei suoi confronti, che la intimidisce per farle dire che lo ama, costringendola a dire le parole in bocca. 
L'ultima scena raggiunge finalmente sia la tenerezza che la reciprocità; la risveglia da quella che potrebbe davvero essere la morte, come in una favola, con un bacio. "Mi ami?" chiede. "Ti amo", risponde lei. "Ti fidi di me?" "Mi fido di te"
Dopo queste parole, Deckard nega il suo ruolo di blade runner; i due concludono il film in fuga, come è successo a Pris e Roy, con la loro implacabile mortalità che li accompagna.


Sentire un legame con Rachael è una cosa; entrare in contatto con il brutale e terrificante Roy è un'altra. Da sempre gli investigatori hanno risolto crimini mettendosi nei panni del criminale, diventando quello che Poe chiamava un "doppio Dupin". Invece Deckard, per gran parte del film, si rifiuta di identificarsi con la sua preda, mentre i replicanti, per tutto il film, sono impegnati a cercare di farlo sentire come si sentono loro, di condividere l'esperienza snervante di "vivere nella paura"
In una delle sequenze più brillanti del film, Roy e Deckard si inseguono in un appartamento buio, giocando a un gioco infantile di nascondino. Mentre lo fanno, le somiglianze tra loro diventano più forti: entrambi sono cacciatori e prede, entrambi soffrono, entrambi lottano con una mano ferita, simile a un artiglio. Se il film suggerisce qui una connessione che Deckard stesso potrebbe ancora negare a questo punto, alla fine il dubbio svanisce. 
La vita di Roy si chiude con un atto di pietà, che lo eleva moralmente al di sopra delle istituzioni commerciali che lo ucciderebbero. Se Deckard non riesce a vedere se stesso nell'altro, Roy sì. La colomba bianca che vola in modo improbabile da Roy al momento della sua morte forse allunga la credibilità con il suo simbolismo.
Il film si è guadagnato quel momento, suggerendo che nel replicante, come nella tecnologia replicata del film stesso, rimane un posto per qualcosa di umano.


Comunque, "Blade Runner", sotto qualsiasi forma lo si veda, entra a buon diritto nella storia del Cinema per la capacità di rappresentare la potenza immaginifica della Settima Arte. Dove i sogni possono diventare realtà. Una realtà composta di immagini, ricordi, suoni - la memorabile colonna sonora di Vangelis - ed emozioni per ogni spettatore.

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Blade Runner

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