giovedì 13 marzo 2025

Io so


C'è chi, come molti per Marcel Proust, per buona parte della loro vita, si dedica quasi ossessivamente alla propria passione per un determinato artista.
Non posso affermare di essere parte di questa speciale categoria, però confesso di essere stato sempre interessato dalla figura di Pier Paolo Pasolini.
Avevo solo 15 anni quando le immagini in bianco e nero rimandate da un televisore mi misero a conoscenza della sua tragica morte, inizialmente indicata come conseguente ad un adescamento finito male da parte dell'artista.
Era facile allora credere a quanto ti veniva propinato dai media, "lo hanno detto in televisione" bastava a conferire un carattere di verità assoluta alla notizia.
D'altronde Pasolini già da alcuni anni era fatto oggetto di una spietata persecuzione, anche giudiziaria (33 processi a suo carico, dal vilipendio alla religione al reato di oscenità), diventando il capro espiatorio dell'Italia piccolo borghese.
Perchè?
Perchè Pasolini faceva paura.
La sua lucidità intellettuale, la sua capacità di intravedere il futuro, con i suoi tristi scenari, non poteva che spaventare i potenti.
La Commissione Parlamentare Antimafia, incaricata di fare luce sull'omicidio, nella propria relazione, resa pubblica nell’anno del centesimo anniversario della nascita di Pasolini, si concentrò sul furto della pellicola originale Salò o le 120 giornate di Sodoma e sulle "possibili connessioni" di quel furto con l’uccisione di Pasolini.
Nella relazione si sottolineava che vi erano state inchieste di giornalismo investigativo che avevano “definitivamente sgretolato l’iniziale ipotesi, purtroppo allora sostenuta dai mezzi di comunicazione e da alcune pronunce giurisdizionali, secondo cui l’assassinio dello scrittore sarebbe stato solo il tragico esito di un incontro sessuale sfociato estemporaneamente in una aggressione da parte di un unico individuo e cioè Pino Pelosi (poi condannato in via definitiva per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini ndr). La Commissione segnalava “omissioni particolarmente gravi” rispetto agli “accertamenti immediati che si sarebbero dovuti svolgere” come “la mancata audizione dei testimoni che abitavano nelle baracche della zona e che avevano udito quanto avvenuto quella notte e che avrebbero sin dal principio dato conto dell’evidenza che l’aggressione fu condotta da numerose persone” o “la mancanza, dopo l’omesso confinamento della zona ove il delitto era avvenuto, di approfondite perizie sulle gravi ferite riportate da Pasolini e sui mezzi con i quali queste erano state inferte”.
Tra i temi al centro del lavoro della Commissione, come detto, il furto di alcune "pizze" di film, avvenuto a Ferragosto del 1975 da un capannone di Cinecittà, tra le quali anche una pellicola originale con scene del film "Salò o le 120 giornate di Sodoma"


Secondo alcune ipotesi, all’origine dell’incontro all’Idroscalo di Ostia, in cui morì il poeta e regista, ci sarebbe stata proprio l’intenzione di recuperare la pellicola per non perdere irrimediabilmente alcune scene del suo film. Un incontro che, secondo questa ipotesi, sarebbe stato dunque una trappola non solo ad opera di Pelosi, ma di personaggi di spicco della malavita romana, come confermato da alcune dichiarazioni rese da Maurizio Abbatino, uno dei capi della Banda della Magliana, poi collaboratore di giustizia, che è stato sentito dalla Commissione di inchiesta in “due distinte occasioni”.
Ma, senza voler cadere nel facile complottismo, io credo proprio che questa non sia la verità.
Credo infatti che l'assassinio di Pier Paolo Pasolini venga da lontano, da quel famoso editoriale pubblicato sul Corriere della Sera il 14 novembre del 1974.

Io so.
Io so i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato "golpe" (e che in realtà è una serie di "golpe" istituitasi a sistema di protezione del potere).
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi del "vertice" che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di "golpe", sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second'ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il '68, e in seguito, sempre con l'aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del "referendum".
Io so i nomi di coloro che, tra una Messa e l'altra, hanno dato le disposizioni e assicurato la protezione politica a vecchi generali (per tenere in piedi, di riserva, l'organizzazione di un potenziale colpo di Stato), a giovani neo-fascisti, anzi neo-nazisti (per creare in concreto la tensione anticomunista) e infine criminali comuni, fino a questo momento, e forse per sempre, senza nome (per creare la successiva tensione antifascista). 
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro a dei personaggi comici come quel generale della Forestale che operava, alquanto operettisticamente, a Città Ducale (mentre i boschi italiani bruciavano), o a dei personaggio grigi e puramente organizzativi come il generale Miceli.
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere. Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile.
Tale verità - lo si sente con assoluta precisione - sta dietro una grande quantità di interventi anche giornalistici e politici: cioè non di immaginazione o di finzione come è per sua natura il mio. 
Ultimo esempio: è chiaro che la verità urgeva, con tutti i suoi nomi, dietro all'editoriale del "Corriere della Sera", del 1° novembre 1974.
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
Mi si potrebbe obiettare che io, per esempio, come intellettuale, e inventore di storie, potrei entrare in quel mondo esplicitamente politico (del potere o intorno al potere), compromettermi con esso, e quindi partecipare del diritto ad avere, con una certa alta probabilità, prove ed indizi.
Ma a tale obiezione io risponderei che ciò non è possibile, perché è proprio la ripugnanza ad entrare in un simile mondo politico che si identifica col mio potenziale coraggio intellettuale a dire la verità: cioè a fare i nomi.
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia.
All'intellettuale - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici.
Se egli vien messo a questo mandato viene considerato traditore del suo ruolo: si grida subito (come se non si aspettasse altro che questo) al "tradimento dei chierici" è un alibi e una gratificazione per i politici e per i servi del potere.
Ma non esiste solo il potere: esiste anche un'opposizione al potere. In Italia questa opposizione è così vasta e forte da essere un potere essa stessa: mi riferisco naturalmente al Partito comunista italiano.
È certo che in questo momento la presenza di un grande partito all'opposizione come è il Partito comunista italiano è la salvezza dell'Italia e delle sue povere istituzioni democratiche.
Il Partito comunista italiano è un Paese pulito in un Paese sporco, un Paese onesto in un Paese disonesto, un Paese intelligente in un Paese idiota, un Paese colto in un Paese ignorante, un Paese umanistico in un Paese consumistico. In questi ultimi anni tra il Partito comunista italiano, inteso in senso autenticamente unitario - in un compatto "insieme" di dirigenti, base e votanti - e il resto dell'Italia, si è aperto un baratto: per cui il Partito comunista italiano è divenuto appunto un "Paese separato", un'isola. Ed è proprio per questo che esso può oggi avere rapporti stretti come non mai col potere effettivo, corrotto, inetto, degradato: ma si tratta di rapporti diplomatici, quasi da nazione a nazione. In realtà le due morali sono incommensurabili, intese nella loro concretezza, nella loro totalità. È possibile, proprio su queste basi, prospettare quel "compromesso", realistico, che forse salverebbe l'Italia dal completo sfacelo: "compromesso" che sarebbe però in realtà una "alleanza" tra due Stati confinanti, o tra due Stati incastrati uno nell'altro.
Ma proprio tutto ciò che di positivo ho detto sul Partito comunista italiano ne costituisce anche il momento relativamente negativo.
La divisione del Paese in due Paesi, uno affondato fino al collo nella degradazione e nella degenerazione, l'altro intatto e non compromesso, non può essere una ragione di pace e di costruttività.
Inoltre, concepita così come io l'ho qui delineata, credo oggettivamente, cioè come un Paese nel Paese, l'opposizione si identifica con un altro potere: che tuttavia è sempre potere.
Di conseguenza gli uomini politici di tale opposizione non possono non comportarsi anch'essi come uomini di potere.
Nel caso specifico, che in questo momento così drammaticamente ci riguarda, anch'essi hanno deferito all'intellettuale un mandato stabilito da loro. E, se l'intellettuale viene meno a questo mandato - puramente morale e ideologico - ecco che è, con somma soddisfazione di tutti, un traditore.
Ora, perché neanche gli uomini politici dell'opposizione, se hanno - come probabilmente hanno - prove o almeno indizi, non fanno i nomi dei responsabili reali, cioè politici, dei comici golpe e delle spaventose stragi di questi anni? È semplice: essi non li fanno nella misura in cui distinguono - a differenza di quanto farebbe un intellettuale - verità politica da pratica politica. E quindi, naturalmente, neanch'essi mettono al corrente di prove e indizi l'intellettuale non funzionario: non se lo sognano nemmeno, com'è del resto normale, data l'oggettiva situazione di fatto.
L'intellettuale deve continuare ad attenersi a quello che gli viene imposto come suo dovere, a iterare il proprio modo codificato di intervento.
Lo so bene che non è il caso - in questo particolare momento della storia italiana - di fare pubblicamente una mozione di sfiducia contro l'intera classe politica. Non è diplomatico, non è opportuno. Ma queste categorie della politica, non della verità politica: quella che - quando può e come può - l'impotente intellettuale è tenuto a servire.
Ebbene, proprio perché io non posso fare i nomi dei responsabili dei tentativi di colpo di Stato e delle stragi (e non al posto di questo) io non posso pronunciare la mia debole e ideale accusa contro l'intera classe politica italiana.
E io faccio in quanto io credo alla politica, credo nei principi "formali" della democrazia, credo nel Parlamento e credo nei partiti. E naturalmente attraverso la mia particolare ottica che è quella di un comunista.
Sono pronto a ritirare la mia mozione di sfiducia (anzi non aspetto altro che questo) solo quando un uomo politico - non per opportunità, cioè non perché sia venuto il momento, ma piuttosto per creare la possibilità di tale momento - deciderà di fare i nomi dei responsabili dei colpi di Stato e delle stragi, che evidentemente egli sa, come me, non può non avere prove, o almeno indizi.
Probabilmente - se il potere americano lo consentirà - magari decidendo "diplomaticamente" di concedere a un'altra democrazia ciò che la democrazia americana si è concessa a proposito di Nixon - questi nomi prima o poi saranno detti. Ma a dirli saranno uomini che hanno condiviso con essi il potere: come minori responsabili contro maggiori responsabili (e non è detto, come nel caso americano, che siano migliori). Questo sarebbe in definitiva il vero Colpo di Stato.

Ai più attenti non sarà sfuggita la presenza nell'articolo del seguente passaggio "Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato, che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a fatti e persone reali siano inesatti".


Già dal 1972 Pasolini lavorava a Petrolio, opera rimasta poi incompiuta, composta di circa 500 pagine di appunti, frammenti, tracce, titoli di capitoli e una lettera allo scrittore Alberto Moravia. 
Pasolini considerava Petrolio come “una specie di summa di tutte le mie esperienze, di tutte le mie memorie”, così scriveva nella lettera a Moravia, risalente al 1975, un’opera che lo avrebbe tenuto occupato per anni o a cui avrebbe dedicato tutta la vita.
Le vicende ruotano intorno a Carlo, ingegnere torinese che lavora alla ENI, ma che è in realtà sdoppiato. Esistono infatti due Carlo, uno, onesto e buono, e l’altro, malvagio e sensuale. 
Questo personaggio nel corso del romanzo muterà ancora, fino a rendersi conto di essere diventato donna. Ma ciò che in realtà Pasolini vuole mostrare, seguendo la carriera di Carlo all' ENI, è la società contemporanea italiana, vista ormai come corrotta e degradata.
Il consumismo è la nuova ideologia del potere, che ha omologato i costumi degli italiani, facendo scomparire l'autenticità del mondo rurale e popolare, e così scrive in Petrolio:

"Le persone che passavano davanti a Carlo erano dei miseri cittadini ormai presi nell'orbita dell'angoscia e del benessere, corrotti e distrutti dalle mille lire di più che una società "sviluppata" aveva infilato loro in saccoccia... Erano dei piccoli borghesi senza destino, messi ai margini della storia del mondo, nel momento stesso in cui venivano omologati a tutti gli altri".

A questo punto, visto che il personaggio del libro è un dipendente ENI, occorre affiancare alla figura di Pasolini quella di altri due protagonisti della vita italiana di quegli anni: Enrico Mattei e Mauro de Mauro.
Enrico Mattei, da partigiano che combatteva per la resistenza nelle Alpi lombarde, entrò all’Agip come commissario liquidatore. Il suo incarico doveva limitarsi alla chiusura e alla liquidazione dell’azienda pubblica, ma Mattei intravide un futuro per l’azienda e così si occupò del suo rilancio. 
Curò i rapporti con il Medio Oriente stringendo relazioni con petrolieri internazionali avendo un progetto ben definito: voleva un’Italia autonoma energicamente e finanziariamente, libera dalle dipendenze delle cosiddette Sette Sorelle, sconvolgendo così, con il suo progetto, gli equilibri mondiali del mercato petrolifero.
Durante gli anni della sua lotta partigiana tra le Alpi lombarde Mattei incontrò Eugenio Cefis, anche lui un combattente per la resistenza. Le loro  vite si incrociarono nuovamente nella ricostruzione dell’Agip e nella fondazione dell’Eni. Cefis, a quei tempi appoggiato dalla Democrazia Cristiana, aveva idee completamente diverse da Mattei per la gestione delle relazioni internazionali. La figura di Cefis è una delle più misteriose ed emblematiche nella storia italiana, in quanto accusato di essere  anche il fondatore della loggia massonica P2.
Il 27 Ottobre del 1962 Enrico Mattei, diventato ormai presidente dell’Eni, salì su un aereo che da Catania l’avrebbe riportato a Milano, ma  il velivolo esplose sulle campagne di Bescapè in provincia di Pavia. Le indagini rivelarono poi che sull’aereo era stata posizionata una bomba con 150 grammi di tritolo, ritenuta causa della morte di Enrico Mattei e degli altri passeggeri.
È dopo la morte di Mattei che entrano in scena Mauro De Mauro e Pier Paolo Pasolini.
Mauro De Mauro era un giornalista che a fine anni ’60 iniziò ad indagare sull’omicidio di Mattei, ma di lui misteriosamente si persero le tracce. La maggior parte degli investigatori che si occuparono della scomparsa del giornalista furono assassinati, e solo con la confessione del pentito Tommaso Buscetta si venne a conoscenza che De Mauro era stato assassinato da qualche uomo di Totò Riina per un "favore" che la mafia doveva allo Stato.

Enrico Mattei

Pier Paolo Pasolini, proprio sulla scorta del caso Mattei, nel 1972 iniziò a scrivere Petrolio
L’opera rimarrà incompiuta perché il 2 Novembre del 1975 Pasolini verrà assassinato. Lo scrittore rese Eugenio Cefis e Enrico Mattei i personaggi principali del suo romanzo, ipotizzò, basandosi su varie fonti, che Cefis alias Troya (l'alias romanzesco di Petrolio) avesse avuto un qualche ruolo nello stragismo italiano legato al petrolio e alle trame internazionali.

Tra il 1992 e il 1994 il magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, entrò in possesso di un libro, dal titolo Questo è Cefis - L’altra faccia dell’onorato presidente, scritto dall’ignoto Giorgio Steimetz e pubblicato dalla casa editrice AMI nel 1972. 
Il libro diventò centrale nelle indagini quando il magistrato scoprì che intere parti di esso, senza alcuna variazione di forma, erano state trascritte in Petrolio. Il libro di Steimetz, presenta una vicenda editoriale molto farraginosa in quanto appena comparve sul mercato, scomparve una copia dopo l’altra, a cominciare da quelle d’obbligo nella Biblioteca nazionale di Firenze e in quella di Roma. Il libro, dunque, all’epoca in cui il magistrato Calia ne entrò in possesso, era praticamente introvabile, anzi, non risultava nemmeno esistente. 
Il suo autore, un tale Giorgio Steimetz, è tuttora ignoto poiché, si pensa sia lo pseudonimo del giornalista Corrado Ragozzino, del quale a tutt'oggi non si trovano informazioni. 
L’AMI (Agenzia Milano Informazioni), la casa di pubblicazione, era finanziata da Graziano Verzotto, uomo di fiducia di Enrico Mattei, ex partigiano e democristiano della corrente dorotea di Mariano Rumor., dal 1962 al 1966 segretario regionale in Sicilia della Dc, mentre dal 1967 presidente dell’Ente minerario siciliano, a capo del quale rimarrà fino al 1975.
Il magistrato Calia, dunque, confrontando Questo è Cefis con Petrolio, comprende che Pasolini stava studiando il volume di Steimetz e ne era rimasto così colpito da volerne addirittura replicare intere parti senza modifica alcuna.
Questo è Cefis si presenta come una sorta di biografia di uno dei presidenti più controversi dell’Eni e poi della Montedison, nell’epoca del sistema delle Partecipazioni Statali. Di Cefis vengono rivelate società per azioni, immobili posseduti, attività e conti. Il libro, ad una attenta analisi, non è altro che la raccolta di articoli scritti sullo stesso argomento e con lo stesso intento: quello di denunciare l’operato di Cefis come funzionario dello Stato richiedendo un’indagine fiscale ai suoi riguardi, rivolta direttamente al Ministero del Tesoro e delle Finanze.


Potrebbe essere questa, dunque, una delle motivazioni per spiegare la scomparsa del libro dalla scena pochi mesi dopo la sua pubblicazione. Tuttavia, come dimostra l’indagine di Calia, Pasolini ne possedeva una copia, ed era pronto a divulgarne il contenuto dandogli gran voce e visibilità in virtù del suo nome. Pasolini era consapevole di poter divulgare il contenuto del libro “sparito” grazie al potere della sua immagine, al fatto che lui fosse una personalità di spicco sulla scena italiana e internazionale. Il libro di Steimetz, fonte primaria di Petrolio, è di fatto un atto di accusa nei confronti di Cefis, e Pasolini aveva il chiaro intento di darne voce e diffusione, dopo esserne entrato in possesso grazie all'amico Elvio Fachinelli, il quale in allegato ad una lettera gli invia una copia superstite nel settembre del 1974.
Ma i misteri purtroppo non terminano qui.
Tutti i soprariportati argomenti, pur se terribilmente importanti, appaiono come dei semplici dettagli in confronto al fatto maggiormente rilevante.
Così come il libro di Steimetz, anche Petrolio scompare.
Per ben 17 anni. 
Provate ad immaginare se questo libro fosse uscito, come sarebbe dovuto uscire, nel 1976, nel 1977 o nel 1978, cioè in anni in cui venne impressa una svolta epocale, molto violenta, alla strategia della tensione di cui parlava Pasolini, che culminò nel rapimento e nell’assassinio di Aldo Moro.
Se Petrolio fosse uscito allora, forse alcuni degli episodi più spaventosi della storia del nostro paese si sarebbero ugualmente verificati, ma se il libro fosse uscito allora forse tanta gente avrebbe capito, con estrema immediatezza, quello che solo dopo decenni abbiamo ricostruito e che con enorme difficoltà si tenta di far capire agli italiani di oggi, che vivono o credono di vivere in un’altra epoca e in un altro mondo.

Gli editoriali per il Corriere della Sera, Petrolio, il film “Salò”, e anche il discorso che Pasolini avrebbe dovuto pronunciare al congresso del Partito Radicale pochi giorni dopo la sua uccisione, sono tutti pezzi dello stesso mosaico.
L’intera esistenza di Pier Paolo Pasolini è fatta della stessa lucidità intellettuale. Pasolini era un uomo che pensava 24 ore su 24. 
È da questa incessante attività mentale che derivano le cosiddette profezie di Pasolini, come quella premonizione della strage alla Stazione di Bologna,  che lo fanno sembrare una sorta di Nostradamus. Pasolini non era un veggente. 


Pasolini era un intellettuale che metteva in collegamento tutte le cose che accadevano, perché questo è il dovere di un intellettuale, come spiegava egli stesso nel famoso editoriale. Pasolini venne assalito dall'intuizione sulla strage di Bologna perché non gli era sfuggito che il treno Italicus, fatto esplodere a pochi chilometri da Bologna, sarebbe dovuto probabilmente esplodere alla Stazione di Bologna per il semplice fatto che Bologna era la madre di tutti gli obiettivi del terrorismo fascista, essendo la “capitale del comunismo italiano”
Tutto qui. Nessuna profezia. Pasolini deve aver pensato che quello era lo scopo, che ci avrebbero sicuramente riprovato, e che molto probabilmente prima o poi ci sarebbero riusciti.
Se Petrolio non fosse stato gestito in tale maniera sarebbe stato forse tutto chiaro già da tempo, con risultati molto concreti non soltanto sulla morte di Pasolini, ma sulla morte di tutti noi. 
Perché è di questo che parlava Pasolini, avendo spesso ragione e avendo altrettanto spesso torto. Perché Pasolini era un istintivo, prendeva anche delle grandi cantonate, però anche questo fa di lui una persona straordinaria come poche altre.

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