martedì 23 luglio 2024

Questione di baffi

A pensarci è davvero strano.
Sembra davvero uno scherzo del destino.
In quella settimana dell’aprile 1889 vennero alla luce due personaggi che, in modi diversi, caratterizzarono la storia del XX secolo.
Il 16 aprile nasce Charles Chaplin, mentre quattro giorni dopo viene alla luce Adolf Hitler.



Sebbene apparentemente agli antipodi le vite di questi due personaggi presentano delle analogie davvero sorprendenti.
Entrambi personalità asociali, incapaci di integrarsi, provenienti da famiglie proletarie disagiate, vissero in orfanotrofio e conobbero la fame.
Entrambi coltivarono ambizioni artistiche che rimasero inespresse – Charlie come musicista, Adolf come pittore – e lasciarono il loro paese d’origine.
La caratteristica comune che balza subito agli occhi è sicuramente costituita dai baffi “a spazzolino” o “toothbrush”.
Già…ma tra i due chi fu il primo ad usarli?
Se Hitler in età giovanile sfoggiava un bel paio di baffi “a manubrio”, Chaplin già nel 1914, agli albori della Prima Guerra Mondiale aveva portato sullo schermo il suo personaggio, con tanto di bombetta e baffetti.
E’ cosa ormai nota il fatto che Hitler fosse un appassionato cinefilo, circostanza questa che rende altamente probabile che egli possa aver assistito a uno dei primi cortometraggi di Chaplin, traendo forse ispirazione per i suoi baffi.
D’altronde proprio i baffi a manubrio che egli aveva sfoggiato anche in tempo di guerra, erano stati la causa di un lungo periodo di convalescenza.
La notte del 13 ottobre del 1918 a Wervik in Belgio il giovane Hitler rimase temporaneamente intossicato da un attacco di gas iprite o gas mostarda lanciato in una controffensiva degli inglesi. L’incidente che costò al futuro dittatore un lungo periodo di ricovero ospedaliero, agli sgoccioli della Iª guerra mondiale, fu procurato proprio dai suoi vistosi baffi, che gli impedirono di sigillare ermeticamente al volto la maschera antigas. 
Fu proprio durante questo periodo, come raccontato dallo stesso Hitler nel suo Mein Kampf, nel quale rischiò di perdere la vista e rimase cieco per 3 giorni, che iniziò a sviluppare la sua idea per un cambio radicale della Germania.
Nel frattempo, dall’altra parte dell’oceano, Charlie Chaplin, già al centro dell’attenzione del pubblico internazionale, decise di mettersi in proprio passando alla First National, con cui girò dieci film e guadagnò un favoloso ingaggio per l’epoca, corrispondente a 1 milione di dollari.
L’ascesa cinematografica di Chaplin coincise con quella politica del Fuhrer. 
Nel 1920 quando Hitler diventava leader del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori (National Sozialistische Deutsche Arbeitspartei, NSDAP), Chaplin lavorava alla realizzazione de “Il Monello” (uscito poi nel gennaio del 1921), pellicola che lo consacrò definitivamente nel Gotha della cinematografia statunitense.
Negli anni successivi Hitler accrebbe il proprio potere politico, fondò le SS e nel 1925 pubblicò il Mein Kampf mentre Chaplin proseguì il suo successo cinematografico e lo stesso anno uscì con il film “Luci della Città”.
Destini che quindi sembravano svilupparsi in maniera parallela, con ognuno dei due che era a conoscenza dell’esistenza dell’altro.
Sembrava quindi quasi inevitabile che questo strano intreccio dovesse in qualche modo avere un suo culmine.
E tutto ciò, ineluttabilmente avvenne.
Ci troviamo a New York, al Museo d'Arte Moderna, intorno alla metà degli anni Trenta. In una saletta privata, un giovane Luis Buñuel (sì, proprio lui, il futuro maestro del surrealismo, già autore dello sconvolgente Un chien andalou), ingaggiato dal MOMA, sta proiettando in una saletta privata, e a beneficio di due soli spettatori, Il trionfo della volontà, il documentario di propaganda nazista firmato da Leni Riefenstahl.
I due spettatori erano il regista francese René Clair e il comico inglese Charlie Chaplin. 
Le loro reazioni alla visione del film non potevano essere più diverse: se Clair rabbrividisce di fronte alle immagini di Adolf Hitler e resta sbalordito dalle qualità estetiche del film della Riefenstahl, Chaplin non può fare a meno di scoppiare a ridere ogni qual volta sullo schermo compare la figura del Führer tedesco.
E paradossalmente è proprio Il trionfo della volontà, monumento all'invincibilità del regime hitleriano, a instillare nella mente di Chaplin l'idea per il suo successivo progetto: una satira sul dittatore austriaco che, sulla sponda opposta dell'Oceano Atlantico, già faceva tremare l'Europa con le sue ambizioni espansionistiche e il suo feroce antisemitismo.
Nasce proprio in quel momento Il Grande Dittatore.

Mai come negli anni che videro la fioritura delle dittature e delle figure dei leader totalitari, cinema e politica sono stati così intimamente legati. La storia del cinema (teorica e pratica), ma anche la Storia con la S maiuscola, hanno trascurato questa relazione: si è cioè a lungo discusso di come i dittatori manipolassero il cinema, ma poca attenzione è stata posta al modo in cui i dittatori fossero essi stessi manipolati dal cinema. 
Stalin, Hitler e Mussolini appartenevano alla prima generazione di politici cresciuti con il cinema, tutti e tre provenivano dalla piccola borghesia per la quale, agli inizi del 900, il cinema era ormai diventato il principale mezzo d’intrattenimento e di conoscenza sociale. Amavano l’arte ‘bella e superflua’: il teatro (Mussolini), l’opera (Hitler), la danza (Stalin), ma era il cinema, cioè l’arte più popolare, ad accompagnare le loro esistenze in maniera diretta. Si tratta di un fenomeno senza precedenti: i politici a loro coevi si interessavano al cinema solo quando dovevano censurare un film.
Reinhold Hanisch, amico di Hitler negli anni viennesi, raccontò di quella volta in cui Hitler tornò a casa dopo aver visto un film che aveva per protagonista un oratore: era trasfigurato, come ‘ubriaco’, e ne parlò per ore.
Altri testimoni raccontano della vera ossessione che Hitler aveva verso Metropolis di Fritz Lang, film che egli guardava e riguardava più volte.
Ancora oggi fanno rabbrividire alcune sequenze del capolavoro di Fritz Lang, in particolare quelle nelle quali gli operai si avviano verso il loro turno lavorativo, verso il loro triste destino, tutti vestiti alla stessa maniera e tutti con lo sguardo basso.
Non si può non pensare a quanto succederà di lì a qualche anno nei territori conquistati dai nazisti.


L’arte oratoria di Hitler fu indubbiamente ispirata dalla visione di immagini in movimento di oratori politici e del loro pubblico. Più che nelle parole, Hitler credeva nelle immagini, nei simboli, nello spettacolo. 
Se l’ascesa dei dittatori avvenne durante l’epoca d’oro del cinema muto, il loro apogeo coincise con l’avvento del sonoro.
"Il grande dittatore", tuttavia, si preannuncia come un progetto tutt'altro che semplice: il Governo della Gran Bretagna, patria di Chaplin, mette subito in chiaro che proibirà la diffusione del film sul territorio del Regno Unito, per evitare problemi diplomatici con la Germania. 
Chaplin, in compenso, riceve il sostegno del Presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, e si imbarca così nell'impresa più ambiziosa della sua carriera: non solo perché, dopo aver ottenuto un'enorme popolarità grazie al cinema muto, l'attore/regista si accinge a cimentarsi per la prima volta con un film parlato, ma anche per gli elementi del soggetto, ovvero una rielaborazione satirica della figura di Hitler stesso mediante la quale veicolare una denuncia delle persecuzioni contro gli ebrei messe in atto dal Cancelliere tedesco, sulle quali molti governi, compreso quello britannico, come poi dimostrato, preferivano mantenere il silenzio.
Nel film è messo in scena il dualismo tra un barbiere ebreo perseguitato dalle guardie del regime di Tomania e Adenoid Hynkel, lo spietato dittatore del fantomatico stato totalitario chiaramente ispirato alla Germania nazista. 
Sembra quindi la riproduzione della dicotomia esistente tra i due: da una parte il vagabondo Chaplin, dall’altra lo spietato dittatore.

Non si può non apprezzare l’incredibile maniera con la quale Chaplin si cala nel personaggio di Adenoid Hynkel, la gestualità esasperata del dittatore, il grammelot senza significato dei suoi discorsi in pubblico, che riproduce le aspre sonorità della lingua tedesca, la vocalità stridula dai toni 'urlati' e i suoi irrefrenabili accessi d'ira...
Il ritratto di Hynkel va ben oltre la semplice caricatura: ne "Il grande dittatore", la comicità buffonesca del protagonista diventa uno strumento in grado di incrinare la gigantesca "macchina del consenso" messa in moto dal nazismo sette anni prima.
La natura inesorabilmente ridicola di Hynkel, che si infuria con il suo incompetente Ministro della Guerra Herring, che riproduce alla lettera il gerarca nazista Hermann Göring, e che si fa prendere in giro perfino dalla sua stenografa, è una crepa nel mito pseudo-religioso della grandezza del Führer e del Terzo Reich. 
Nel frattempo, mentre Chaplin è impegnato nelle riprese del film, dall'altra parte del mondo la Storia incalza il cinema: la Germania invade la Polonia e subito dopo la Francia, quasi come una sinistra conferma del carattere profetico dell'opera di Chaplin.
Gli spunti di irrefrenabile comicità riguardano anche un altro personaggio del film, quello di Benzino Napoloni, dittatore della Batalia (Bacteria nella versione originale), in visita ufficiale in Tomania, in nome di un'alleanza con Hynkel minata da invidie, rivalità e capricci infantili. 
L’imitazione del dittatore italiano Benito Mussolini, l'atmosfera di melliflua quanto falsa cortesia fra i due, scandita da commenti al vetriolo, e i continui battibecchi fra Hynkel e Napoloni danno vita infatti ad alcuni fra i momenti più divertenti del film: l’arrivo di Napoloni alla stazione ferroviaria, la "gara delle sedie" fra Hynkel e Napoloni dal barbiere e la rissa finale a colpi di cibo e di spaghetti.

Nella prima edizione italiana del film, distribuita nel 1946, a sottolineare l'ancora esistente retaggio fascista, vennero tagliate le scene in cui compariva la signora Napoloni, la sgraziata moglie di Benzino, che adombrava Rachele Guidi, moglie di Mussolini, scene poi reintegrate solo nel 2002. 
Oltre a voler sottolineare storture, contraddizioni e paradossi delle dittature europee, l'intento primario del film di Chaplin era quello di evidenziare l'allarme per un mondo che sembrava ormai  impazzito, nel quale ormai tutti gli equilibri sembravano essere collassati. 
E tutto ciò è magnificamente rappresentato nella sequenza più famosa del film: quella nella quale Adenoid Hynkel fa volteggiare sulla propria scrivania un mappamondo, destreggiandosi con infantile leggerezza con questo oggetto. 
Un'immagine emblematica dell'intero film, basata sul contrasto tra la ferocia del dittatore e la sua improvvisa soavità, spezzata però dallo scoppio del mappamondo fra le mani di Hynkel.
L'amarissima ironia di cui è pervasa questa scena è il preludio alla catastrofe in procinto di esplodere, ma si ricollega pure al dualismo dei due protagonisti, simboli - ma dall'identico volto - dei due poli opposti dell'animo umano.
Charles Chaplin Jr, il figlio di Charlie, riporterà in seguito le parole del padre a proposito di Hitler: "Lui è il pazzo, io il comico. Ma avrebbe potuto essere l'esatto contrario".
L’inquietudine di Chaplin nei confronti di Hitler sfocerà in autentico orrore con l'emergere della realtà dell'Olocausto, al punto da spingere il regista ad affermare che, se fosse stato a conoscenza della vera portata di quella tragedia, non avrebbe avuto il coraggio di girare un film del genere. E a tale stato d'inquietudine va ricondotto anche il monologo pacifista pronunciato nel finale dal barbiere, scambiato erroneamente per Hynkel: una sequenza spesso contestata dalla critica, poiché ritenuta eccessivamente didascalica, ma inscindibile dal contesto storico relativo al film. 
Chaplin affida infatti alle parole del barbiere il messaggio umanista del suo film: un commosso apologo della solidarietà e della dignità umana contro le abiezioni del nazifascismo, in cui la libertà e l'odio sono identificati come le sole scelte di campo possibili, mentre il richiamo alla responsabilità dell'individuo e della collettività ("Voi non siete macchine, siete uomini") risuona come un grido d'allarme a cui non è più possibile sottrarsi, in Europa né tantomeno in altre parti del mondo. 
Un allarme che ancora oggi, in un clima caratterizzato da rigurgiti di intolleranza e razzismo, abilmente mascherati, conserva purtroppo elementi di tragica attualità.

“Mi dispiace. 
Ma io non voglio fare l’imperatore. No, non è il mio mestiere. Non voglio governare, né conquistare nessuno; vorrei aiutare tutti se è possibile: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi, esseri umani, dovremmo aiutarci sempre; dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l’un l’altro.
In questo mondo c’è posto per tutti: la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi; la vita può essere felice e magnifica.
Ma noi lo abbiamo dimenticato.
L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotto a passo d’oca a far le cose più abiette.
Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi; la macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà; la scienza ci ha trasformato in cinici; l’abilità ci ha resi duri e cattivi.
Pensiamo troppo e sentiamo poco.
Più che macchinari, ci serve umanità.
Più che abilità, ci serve bontà e gentilezza.
Senza queste qualità, la vita è violenza, e tutto è perduto. L’aviazione e la radio hanno riavvicinato le genti. La natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell’uomo, reclama la fratellanza universale, l’unione dell’umanità. Perfino ora la mia voce raggiunge milioni di persone nel mondo, milioni di uomini, donne , bambini disperati.
Vittime di un sistema che impone agli uomini di torturare e imprigionare gente innocente.
A coloro che mi odono, io dico: non disperate, l’avidità che ci comanda è solamente un male passeggero. L’amarezza di uomini che temono le vie del progresso umano, l’odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. E il potere che hanno tolto al popolo, ritornerà al popolo.
E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa.
Soldati! Non cedete a dei bruti! Uomini che vi sfruttano! Che vi dicono come vivere! Cosa fare! Cosa dire! Cosa pensare! Che vi irreggimentano! Vi condizionano! Vi trattano come bestie! Non vi consegnate a questa gente senza un’anima!
Uomini macchina, con macchine al posto del cervello e del cuore.
Voi non siete macchine, voi non siete bestie, siete uomini!
Voi avete l’amore dell’umanità nel cuore.
Voi non odiate coloro che odiano solo quelli che non hanno l’amore altrui.
Soldati! Non difendete la schiavitù! Ma la libertà!
Ricordate.
Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere: mentivano, non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno.
I dittatori forse son liberi perché rendono schiavo il popolo. 
Allora combattiamo per mantenere quelle promesse! 
Combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere! 
Eliminando l’avidità, l’odio e l’intolleranza! Combattiamo per un mondo ragionevole; un mondo in cui la scienza e il progresso, diano a tutti gli uomini il benessere. 
Soldati! 
Nel nome della democrazia siate tutti uniti!”

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Chi ben comincia...

  Non c'è che dire...il nuovo anno inizia alla grande!!