Così come "Betty Blue", anche questo film mi ha profondamente colpito ed emozionato al momento della sua prima visione, tanto da diventare uno dei miei preferiti di sempre.
Buio in sala e veniamo subito proiettati in uno spazio desertico dove, solo dopo alcuni secondi, al suono di una slide guitar, appare un uomo vestito di scuro, con un berretto rosso e una tanica in mano che, palesemente confuso, vaga in questo paesaggio quasi lunare.
L'impatto visivo, di straordinaria potenza, serve a rappresentare uno dei concetti cari al regista Wim Wenders, cioè quello secondo il quale è lo spazio esterno a definire lo stato d'animo dei personaggi, al pari dei dialoghi, caratteristica che in questo film viene portata all'estremo, rendendolo uno dei più belli da guardare, sia per la regia che per i dettagli estetici, come le insegne al neon dei motel e dei diner messe in risalto dai brillanti giochi di luce del direttore della fotografia Robby Müller, così come per il modo in cui sono mostrati i sobborghi meno eleganti della periferia di Los Angeles.
In sostanza, si tratta di un road movie, che racconta la storia di Travis, un uomo taciturno che vaga da solo per il deserto, e di suo fratello Walt (Dean Stockwell), che a un certo punto riesce a contattarlo e lo porta a Los Angeles, dove incontrerà suo figlio Hunter (Hunter Carson), che non vedeva da 8 anni. Dopo il ricongiungimento, Travis e Hunter partono insieme per un viaggio alla ricerca di Jane (Nastassja Kinski), moglie del primo e madre del secondo.
Ritornato in sé, venendo a contatto con Hunter, il figlio perduto, Travis ne assume la purezza dello sguardo. Esemplare la scena di padre e figlio che si copiano le camminate ai lati opposti della strada: in quel campo-controcampo risiede tutta la magia di un cinema che svela il segreto del sentimento nascente.
Wenders pone la macchina da presa ad altezza bambino e viaggia da Los Angeles ad Houston con questo particolare punto di vista: le insegne al neon, i tramonti rosso fuoco, le nuvole basse. Tutto è visto come se fosse la prima volta. La fotografia pone in primo piano contemporaneamente paesaggio e volto, sottolineando l’importanza dell’elemento naturale sulla mutazione dell’espressione umana.
Jane si guadagna da vivere lavorando in uno squallido peep-show dalle forti tinte bluastre e rossastre. E’ la madre dimenticata, la moglie traditrice. Wim Wenders, in maniera geniale, mette Travis e Jane uno di fronte all’altra separati da una parete di vetro trasparente che consente all’uomo di potere osservare senza essere visto. Dalle autostrade assolate americane passiamo improvvisamente ai toni scuri.
Nell’ultimo confronto in cui è la voce umana a prendere il sopravvento (Jane ammetterà a capo chino “Ogni uomo ha la tua voce”), viene proposto un dialogo molto realistico, fatto di ammissioni e di accuse, di consapevolezza e perdono, di vigliaccheria ed eroismo.
Proprio questa lunga confessione finale trasforma l’assenza visiva in flusso di coscienza in “vivavoce,” restituendo la drammaticità di una storia d’amore impossibile, in precedenza mostrata in un Super 8 amatoriale accompagnato da una struggente canzone d'amore messicana suonata da Ry Cooder con la voce dello stesso protagonista Harry Dean Stanton.
Jane e Travis si scambiano continuamente i ruoli, dandosi le spalle, tra la luce e l’oscurità. Nastassja Kinski usa tutta la sua bravura d’attrice nella comunicazione non verbale passando da un atteggiamento offensivo ad uno di placida arrendevolezza. Nel momento in cui si riconoscono, Jane spegne la luce e può adesso vedere al di là del vetro.
Travis compie l’unico gesto che possa dare un senso alle loro esistenze, ricongiungere il figlio alla madre.
Poi potrà riprendere il suo viaggio alla cieca, lasciando che siano i luoghi a dettare la direzione.
Con questo film Wenders vinse la sua unica Palma d'Oro al Festival di Cannes, mentre il protagonista Harry Dean Stanton, dopo anni nei quali era stato apprezzato soprattutto come caratterista, e pur rimanendo muto per buona parte del film stesso, vide finalmente riconosciuto il suo valore di attore, accrescendo successivamente la sua popolarità.
Una menzione particolare va fatta per la colonna sonora affidata a Ry Cooder, che con il suo peculiare modo di suonare, caratterizzato dall’uso di accordature aperte (in cui cioè le corde, suonando a vuoto, riproducono un accordo completo) e da fraseggi lentissimi e molto espressivi, diede un sottofondo perfetto a un film ambientato nel deserto e incentrato sull’angoscia.
Il film ebbe talmente tanto successo da ispirare ben tre gruppi musicali: gli U2 diedero vita a The Joshua Tree dopo esserne rimasti incantati (Running To Stand Still è ispirata alla colonna sonora di Ry Cooder), mentre i Travis e i Texas devono al film la scelta di chiamarsi così, e tanto basta per guadagnarsi l’immortalità artistica…
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