Parlare di cinema, cioè di un fenomeno prettamente visivo, utilizzando delle parole, è sicuramente un’impresa ardua.
E ancora di più se l’argomento del discorso è il cinema di Stanley Kubrick, un autore che aveva sempre definito i suoi film come “un’esperienza non verbale” e che si era sempre rifiutato di commentare le sue opere, mantenendo un’aura di mistero e di indeterminatezza che si dipana in tutta la sua filmografia.
Non sappiamo quando iniziò a girare per Hollywood questa barzelletta, ma sappiamo che Matthew Modine la raccontò a Stanley Kubrick durante la lavorazione di “Full Metal Jacket”.
Lo stesso attore l’ha più volte ricordato, parlando della sua esperienza sul set, fino a mettere per iscritto l’aneddoto nel suo “Full Metal Jacket Diary“, pubblicato nel 2005.
“Stanley Kubrick è morto da un po’, quando Steven Spielberg raggiunge il Paradiso; l’arcangelo Gabriele lo accoglie dicendogli che può fare per lui qualsiasi cosa, al che il regista domanda di poter incontrare Stanley Kubrick.
No, quello non si poteva fare, risponde Gabriele, perché Kubrick non vuole vedere nessuno.
Poco dopo, vedono in bicicletta un uomo con lunghi capelli scuri e barba incolta, che indossa una casacca militare e Spielberg fa notare a Gabriele che Stanley è lì davanti a loro, chiedendo di poterlo semplicemente salutare. Gabriele lo tira in disparte e gli confessa che no, quello non è Stanley Kubrick. È Dio.
Dio che crede di essere Stanley Kubrick.”.
Ossessionato dalla propria privacy, maniaco del controllo, forse paranoico se non completamente pazzo. Durante la lavorazione di “Eyes Wide Shut” un fotografo si appollaiava su un albero ogni giorno per cercare di rubare uno scatto a Tom Cruise e Nicole Kidman, i divi coinvolti nelle segretissime riprese. Un giorno riuscì a scattarne una dove c’era Cruise insieme a un anziano signore trasandato: solo dopo scoprì di aver fotografato Kubrick di cui non esistevano immagini da almeno dodici anni.
Nel solco dei grandi isolati, quali J.D. Salinger e Thomas Pynchon, indubbiamente i più radicali, e prima di Terrence Malick, si situa Stanley Kubrick.
In ogni suo film Kubrick rimette in discussione il suo progetto-cinema per rinnovarlo e affermarlo. La magnifica ossessione per la macchina-cinema rivela alcuni leitmotiv, come il tema del doppio, la riflessione sull’occhio e lo sguardo, l’idea della guerra, o di uno stato di guerra, quale luogo preferenziale per raccontare l’essere umano.
Kubrick stesso una volta ha definito il suo cinema “una riflessione sull’uomo del ventesimo secolo, gettato in una barca senza timoniere, in un mare sconosciuto”.
Nato a New York il 26 luglio del 1928, sviluppa molto presto un grande interesse per la fotografia tanto che, nell’aprile del 1945, mentre frequenta ancora il liceo, una sua fotografia, che ritraeva il volto affranto di un giornalaio di fronte ai titoli che annunciavano la morte di Franklin Delano Roosvelt, viene acquistata dalla rivista Look, della quale più tardi entrerà a far parte.
Questa passione per la fotografia contribuirà a sviluppare in Kubrick il senso dell’inquadratura, l’interesse per gli aspetti plastici che si manifesta in tutti i suoi film, di cui controlla sempre l’immagine in collaborazione con il suo direttore della fotografia.
Uno dei segni della modernità di Kubrick sta nel suo gusto per la sorpresa e per il cambiamento: si sente in lui il desiderio di sorprendere tanto se stesso quanto gli altri.
Cosa c’è di più opposto a “Il Dottor Stranamore”, con quel suo tono di farsa, con il ruolo dominante affidato agli attori per creare delle caricature impressionanti, se non il fantastico raccontato in “2001:Odissea nello spazio?”
A sua volta “Arancia Meccanica” è l’antitesi di “2001”, come in un movimento che tende a negare la tappa precedente.
E l’insuccesso di “Barry Lyndon” nei paesi anglosassoni potrebbe essere spiegato dallo spiazzamento provato dai critici nell’assistere ad un’opera tanto priva di sesso e violenza quanto “Arancia Meccanica” ne era satura.
Tutta la sua opera, che si è ispirata a cineasti differenti come Charlie Chaplin, Sergej M. Ejzenštejn e Max Ophuls, prendendo dal primo il senso della comicità, dal secondo l’atteggiamento di riflessione critica, dal terzo la malinconia, può essere letta come una riflessione storico-culturale sul mondo occidentale, realizzata attraverso storie esasperate e metaforiche nelle quali vengono in luce le contraddizioni dell’uomo contemporaneo.
Peter Sellers - Il Dottor Stranamore ovvero come ho imparato a non preoccuparmi ed amare la bomba (1964) |
Per Kubrick la società illuminista e sedicente liberale, apparentemente tollerante, democratica, pacifista e costruttiva, è in realtà totalitaria, aggressiva, distruttiva e autodistruttiva.
Partendo da romanzi o racconti, spesso di autori famosi come William Thackeray per “Barry Lyndon”, Arthur Schnitzler per“Eyes Wide Shut”, Vladimir Nabokov per “Lolita” o Arthur Clarke per “2001: Odissea nello Spazio”, Kubrick costruisce sempre un doppio livello di rappresentazione, uno spettacolo nello spettacolo: elabora grandi messe in scena per esaminarle poi con atteggiamento distaccato, come un narratore-osservatore che non partecipi alla storia né alla vita dei personaggi ma li studi offrendoli allo spettatore con la freddezza dello scienziato.
Già il suo lavoro giovanile di documentarista si orientò verso un realismo di tipo metaforico. Uno dei suoi primi cortometraggi, “Day of the Fight”, del 1949, descrive la giornata comune di un pugile, assistito prima del combattimento dal fratello gemello, un doppio protettivo e inquietante che ripete con lui ogni sua azione; i soldati del primo mediometraggio ”Fear and Desire” (1953), dopo una lunga ricognizione nella foresta, uccidono nemici che hanno i loro stessi volti.
Nel successivo mediometraggio,“Il bacio dell’assassino” (1955), la scena finale, parodia della grande sequenza degli specchi ne "La Signora di Shangai" (1947), di Orson Welles, si svolge in un magazzino di manichini, in cui due uomini lottano per una donna facendo a pezzi una quantità enorme di corpi, teste, braccia e gambe di cartapesta, prima di affrontarsi direttamente.
Il motivo del doppio appare quindi, fin dall’inizio, sia come ossessione narrativa dell’autore, sia come emblema di una cultura in disfacimento che si rivolge contro sé stessa dopo avere distrutto tutto ciò che le è estraneo. A questi motivi metaforici si aggiunge spesso uno spietato realismo, che sembra contrastare, ma in effetti accentua, la crudeltà della rappresentazione.
(1- continua)
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