lunedì 2 settembre 2024

Stanley Kubrick - L' epopea di un grande visionario parte 3

 


La volontà di indagare le oscure profondità dell’animo umano – soffermandosi su tematiche fortemente attuali e su problematiche esistenziali che accompagnano l’uomo sin dalla notte dei tempi, sin dall’origine della filosofia, la narrativa anticonvenzionale e d’avanguardia e l’immaginario cosmico di 2001 Odissea nello spazio, suggestionarono Terrence Malick a tal punto da diventare parte integrante della sua concezione cinematografica.

The Tree of Life (2011)

In questo senso, per esempio, The Tree of Life assume i connotati dell’Odissea kubrickiana, riprendendone le sequenze universali, la cui creazione si basa, stando alle parole di Douglas Trumbull, creatore degli effetti speciali dei due film in questione, sulla stessa “modalità che abbiamo utilizzato in 2001”.
La verosimiglianza di questo paragone è legata, oltre che all’impiego del tecnico Douglas Trumbul, all’impostazione strutturale e ritmica del film. Entrambi inseriscono una vicenda umana particolare nel quadro della evoluzione dell’Universo. Entrambi si giovano di una fotografia e un impatto visivo notevole e di un commento musicale particolarmente accurato e si caratterizzano per la prevalenza della suggestione visiva e sonora su dialoghi e trama.
Mentre tuttavia l’opera di Kubrick appare concentrata sull’aspetto della evoluzione tecnologica, in una prospettiva sostanzialmente materialista se non nichilista, il film di Malick è prevalentemente incentrato sulla dimensione delle emozioni e apertamente orientato a lasciare dischiuse risposte, o quantomeno dubbi, metafisici.
Pochi cineasti sono riusciti a riprodurre fedelmente la complessità della filosofia di Nietzsche. E, tra questi, Kubrick.

 

La potenza evocativa delle immagini del regista newyorkese riesce quasi a raggiungere quella delle parole, cariche del fascino esercitato dalla loro oscura incomprensibilità, del filosofo tedesco, il cui pensiero è stato adoperato innumerevoli volte come chiave interpretativa di opere cinematografiche.
Evidenziata dallo stesso Nietzsche attraverso il sottotitolo del capolavoro Così parlò Zarathustra, definito “un libro per tutti e per nessuno”, l’inaccessibilità della sua filosofia viene rigenerata dal cineasta con la creazione di una grave aura di mistero, con la composizione di un’atmosfera regnata dall’indefinito, dal non-detto, dall’incomunicabilità dell’ineffabile.
Per stessa ammissione del regista, il film si delinea come un viaggio incentrato sul progresso evolutivo del genere umano. Come un percorso in cui, rifiutato il dogma illuministico della supremazia della ragione, si ricerca la perduta purezza caratterizzante l’umanità degli albori.
Come un poema la cui narrazione si dispiega attraverso una struttura costituita da tre sezioni: la prima, intitolata L’alba dell’uomo, espone la condizione dell’uomo primitivo, raffigurando il mondo all’epoca del Pleistocene; l’intermedia, Missione Giove, descrive la quotidianità degli astronauti della missione Discovery; infine, Giove e oltre l’infinito, costituente la terza ed ultima unità, dopo una lunga sequenza allucinatoria, si conclude con l’avvento del cosiddetto star-child, il Bambino delle stelle.
Narrando quella che potrebbe essere definita l’epopea di un’umanità alla ricerca della propria essenza, la pellicola di Kubrick evoca, come si può facilmente dedurre dal titolo, la celebre Odissea omerica.
Registrando il succedersi delle azioni umane, descrivendo il fluire dei sentimenti provati dai protagonisti, Kubrick, come un moderno Omero, riesce a cristallizzare le incertezze e gli interrogativi di un’intera generazione, dipingendo, attraverso i suoi fotogrammi, l’affresco di un universo complesso e affascinante, oscuro e seducente, dando origine ad un’opera d’arte destinata ad essere ricordata nel susseguirsi dei lustri.
Una schermata nera. Nella più assoluta oscurità, la Genesi.
Il cinema si priva del movimento, e della sua stessa essenza, la LUCE.
Tre minuti in cui viene mostrato il NULLA.
A György Ligeti segue la maestosità di Also Sprach Zarathustra.
E poi le luci dell’alba illuminano la Terra.
Il sole è sorto.


Mediante il suo titolo, l’evocativa sinfonia di Richard Strauss richiama esplicitamente quella che è l’opera più conosciuta di Nietzsche, diventando così il primo riferimento alla filosofia del tedesco e assumendo un’elevata importanza linguistico-strutturale.
La composizione musicale costituisce l’ouverture della sezione L’alba dell’uomo, la prima parte della pellicola e raffigurazione della primitività che caratterizzava gli albori dell’uomo.
Un paesaggio alienante e spietato, smisurato e inospitale, silenzioso e letale si mostra allo spettatore. L’ominide è solo un ospite inatteso, un imprevisto venuto alla luce per chissà quale capriccio del caso, pura bestialità.
Stretto nella morsa della mano di una scimmia, un osso diventa arma. La scelta di catturare tale particolare mediante la tecnica dello slow-motion contribuisce a creare un’atmosfera di sacralità, a rendere il momento ancora più simbolico e universale. Ciò che era puro imprevisto, attraverso la volontà di potenza, diventa padrone della terra che l’ha generato.
Quello che era, secondo natura, innocuo si trasforma in essere pericoloso, violento, mortale.
La scimmia è ormai uomo.
Così allegoricamente rappresentata, la transizione da primitività a modernità si compie solamente in seguito all’apparizione di un’indecifrabile entità sovrumana, trascendentale, il monolito.


Abbandonata la razionalità e la verità della ragione, rifiutati i presupposti del darwinismo, l’evoluzione dell’umanità è guidata e voluta da una potenza razionalmente indefinibile, totalmente aliena al microcosmo umano, concretizzata nella solenne imponenza del monolito nero.
In un gesto trionfale, il capoclan lancia in aria l’osso. 
La clava, seguita nel suo fluttuare, viene sostituita da un veicolo spaziale dalla forma allungata. 
L’uomo ha raggiunto le stelle. 
Il progresso, indissolubilmente legato alla bestialità della lotta per la vita, non si è mai arrestato.
Nata con l’avvento del monolito, la violenza diventa, secondo la visione di Kubrick, dominatrice della modernità: in tal senso, Clavius, il nome della base lunare, sarebbe manifestazione del carattere brutale della ragione, dell’umanità stessa.
2001: Odissea nello spazio, è un’odissea interplanetaria, una meditazione filosofica sui valori dello spazio/tempo e quindi sull’essenza stessa del cinema. E’ l’opera di Kubrick che mette più a dura prova gli occhi, ogni immagine può essere tutto e nulla, un mondo aperto o un oggetto chiuso.
Un corridoio luminoso infinito è la prima visione/allucinazione di Bowman ma è anche l’elemento architettonico narrativo e simbolico di tutto il film.


Precisamente ci troviamo di fronte ad un corridoio “curvo”, ripiegato su se stesso, così com’è l’universo secondo Einstein, l’universo è finito perché è “curvo”, giacché è stato incurvato dal tempo; in altre parole se lo percorressimo per intero finiremmo col tornare al punto di partenza. 
Per questo tutte le architetture “galleggianti”, le astronavi, del film sono “curve” e la macchina da presa, nelle inquadrature a loro dedicate, perde ogni punto di riferimento, non trova più l’alto e il basso, la destra e la sinistra.
La stazione orbitante su cui giunge il dottor Heywood Floyd, accompagnato nel suo viaggio dalle note de Il Danubio blu di Johann Strauss, è una gigantesca ruota-occhio spaziale che ricorda per enormità e movimento la Ruota del Prater di Vienna.
Sferica, o meglio a forma di testa, è poi l’astronave che porta Floyd sulla base lunare Clavius, un enorme complesso organizzato secondo cerchi concentrici.
Sferica é la plancia del Discovery e sferiche sono ancora le capsule usate dagli astronauti Bowman e Poole nella terza parte del film, sferico è infine l’inquietante occhio del calcolatore HAL-9000.


Ossessivamente Kubrick pone l’uomo al centro dell’inquadratura, ma è una centralità che situa l’uomo in posizioni spaziali inedite, con la testa in giù e i piedi in su, oppure trasversalmente con la testa a destra e i piedi a sinistra, o in entrambe le posizioni contemporaneamente come in una litografia di Escher.


La figura interna dominante è quindi il cerchio; l’astronauta corre in un corridoio per tenersi in forma fisica, corre in linea retta e il corridoio non finisce, benché sia dentro lo spazio limitato dell’astronave. E’ una corsa infinita che trasmette lo stesso smarrimento della corsa del piccolo Danny per i corridoi dell’Overlook Hotel in Shining: l’albergo è concepito anche qui come una totalità infinita, ma pur sempre come una totalità conclusa.
All’interno del Discovery il dominio della circolarità è ribadito dall’unico occhio di HAL e, attraverso “soggettive” dello stesso HAL, ci accorgiamo che, nonostante le immagini siano distorte, egli è l’unico “essere” a cogliere lo spazio curvo dell’astronave nella sua totalità. HAL, di conseguenza, prende più volte il posto dell’uomo al centro dell’immagine.
Dopo la “morte” di HAL la circolarità del Discovery si trasforma, nella stanza neoclassica di Bowman, in circolarità temporale: attraverso poche inquadrature Bowman passa, dalla maturità alla vecchiaia, dalla morte alla rinascita.


La camera settecentesca dove si muore e si rinasce è per il regista un mezzo per affrontare la storia e precipitare il pubblico in una nuova avventura visiva. 
Kubrick è noto fin da "Orizzonti di gloria" come un buon conoscitore del Settecento inglese, e c’è chi sostiene che su di esso sia fondata la sua concezione del cinema.
In una stanza del Settecento, inquadrata secondo una prospettiva frontale fissa, un nobiluomo appare seduto di spalle, a un tavolo apparecchiato. La sala è un perfetto parallelepipedo di colore grigio-azzurro, con una luce che si diffonde dalle grandi finestre a sinistra; il silenzio assoluto è sottolineato dai piccoli suoni delle posate d’argento. La scena somiglia a quella in cui Bowman, intento alla sua solitaria colazione, nella stanza settecentesca di 2001, si volta indietro, verso la porta, sentendo arrivare se stesso.
Questa volta però il gentiluomo, lo Chevalier de Balibari, alza solamente il capo verso la porta sul fondo, lontana nella luce e noi vediamo con lui che qualcuno sta realmente entrando.
Un uomo avanza, è Barry, il protagonista del film di Kubrick più esuberante e scenografico: Barry Lyndon, del 1975.


(3 - continua)

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