mercoledì 23 ottobre 2024

Stop Making Sense : 40 anni



Un palcoscenico spoglio, in attesa di essere allestito, un uomo con una chitarra acustica a tracolla e con in mano un cosiddetto "boombox" che, dopo essere entrato in scena, con il solo accompagnamento della base ritmica riprodotta dal registratore, inizia a suonare il riff di "Psycho killer".
Inizia così Stop Making Sense, il celebre film concerto diretto da Jonathan Demme e interpretato dai Talking Heads. Uscito per la prima volta nel 1984, Stop Making Sense non è solo un documento visivo di uno dei gruppi più influenti degli anni '80, ma rappresenta anche una rivoluzione per il modo in cui i concerti sono stati filmati e presentati al pubblico. 
A distanza di quattro decenni, l’impatto di questo film resta intatto, sia per l'innovazione stilistica che per il suo contributo alla ridefinizione del rapporto tra cinema e musica dal vivo. 
Per comprendere pienamente l'importanza di questo film, è fondamentale esaminare il contesto storico in cui è stato realizzato, le innovazioni tecniche e narrative che ha introdotto e il suo impatto duraturo sulla cultura popolare. 
Quando Stop Making Sense venne girato, i Talking Heads erano già un fenomeno musicale in piena ascesa. Nati dalla fervente scena musicale newyorkese alla fine degli anni '70, la band, guidata dal carismatico David Byrne, si era distinta per il suo mix unico di punk, art rock, e influenze musicali globali. Album come Fear of Music (1979) e Remain in Light (1980) avevano già consolidato il loro status di innovatori, con il loro suono intriso di funk, world music e avanguardie sonore, mentre l'uscita di Speaking in Tongues (1983) segnò un punto di svolta per la band. 
L'album, contenente hit come Burning Down the House e This Must Be the Place (Naive Melody), mostrava un'evoluzione stilistica verso un sound più accessibile senza perdere la loro complessità artistica. 


Fu in questo periodo che la band iniziò a pianificare un tour per promuovere l'album, e fu proprio durante questa tournée che venne girato Stop Making Sense.
Jonathan Demme, il regista del film, era già noto per il suo lavoro nel cinema indipendente e per il suo approccio originale alla narrazione cinematografica e si era sempre distinto per la sua capacità di entrare in empatia con i soggetti dei suoi film, che si trattasse di documentari o di opere di finzione.
Quando venne coinvolto nel progetto Stop Making Sense, Demme portò con sé una visione del tutto inedita per i film concerto. 
Tradizionalmente, questo genere cinematografico aveva sempre privilegiato una rappresentazione quasi "documentaristica" del concerto, cercando di riprodurre fedelmente l'esperienza visiva e sonora dell'evento dal vivo. 
Demme decise invece di adottare un approccio narrativo, trasformando il concerto dei Talking Heads in una vera e propria esperienza cinematografica.
Uno degli aspetti più rivoluzionari di *Stop Making Sense* è infatti proprio la sua struttura narrativa. Il film non inizia con il palco già pieno di musicisti e strumenti, come ci si aspetterebbe. Invece, vediamo David Byrne entrare da solo, con una chitarra acustica e un boombox, e suonare una versione intima e minimale di "Psycho Killer". Questo momento introduce lo spettatore in un'esperienza progressiva: canzone dopo canzone, i membri della band si aggiungono a Byrne, e il palco si riempie gradualmente di strumenti, luci e scenografie. 


Questa scelta stilistica crea un crescendo visivo e sonoro che rispecchia l’evoluzione musicale e artistica dei Talking Heads. Il film costruisce una sorta di tensione narrativa, dove ogni canzone aggiunge un nuovo elemento alla "storia" che viene raccontata sul palco. Questa progressione culmina in momenti iconici come Once in a Lifetime e l'entrata in scena del famoso "Big Suit" indossato da Byrne durante Girlfriend Is Better, un abito enorme e sproporzionato che è diventato il simbolo visivo del film. 
Questo momento rappresenta il picco del massimalismo visivo e sonoro che il film raggiunge. L'abito gigante è un atto di puro surrealismo, un elemento che sembra sfidare la logica e il senso comune, e allo stesso tempo aggiunge una dimensione comica e stravagante alla performance. Il "Big Suit" diventa così una metafora visiva per l'espansione della musica stessa: una performance che inizia piccola e intima, ma che alla fine esplode in qualcosa di esagerato e indimenticabile.


Uno degli elementi che distingue Stop Making Sense da altri film concerto è l'uso della scenografia minimalista. Demme, il designer del palco e David Byrne optano per un'estetica semplice ma potente. Le luci e le ombre sono usate in modo espressivo per creare atmosfere mutevoli, che riflettono i toni delle canzoni. I movimenti coreografici dei membri della band sono attentamente pianificati, conferendo all’intero concerto una qualità quasi teatrale.
Demme, a differenza di molti registi di film concerto dell’epoca, evita l'uso di rapide inquadrature e montaggi frenetici. La sua regia è deliberatamente calma, con lunghi piani sequenza che permettono agli spettatori di immergersi nella performance senza distrazioni. Questa scelta conferisce al film un ritmo ipnotico, in cui lo spettatore è completamente assorbito dalla musica e dalla presenza magnetica di Byrne e della band.
Un altro aspetto fondamentale di Stop Making Sense è la qualità del suono. Il film fu uno dei primi a essere registrato utilizzando una tecnologia audio all'avanguardia per l'epoca, permettendo una fedeltà sonora senza precedenti. Il produttore musicale Gary Goetzman, insieme a Demme e al resto del team, lavorò intensamente per garantire che la musica nel film fosse il più possibile fedele all'esperienza dal vivo.
L'attenzione ai dettagli sonori non era solo una questione tecnica: rifletteva la filosofia dei Talking Heads, che vedevano la musica come un'esperienza totalizzante. Ogni strumento è mixato con precisione, e lo spettatore è in grado di sentire ogni sfumatura del suono, dai bassi pulsanti di Tina Weymouth ai ritmi frenetici delle percussioni di Chris Frantz.
A differenza di molti film concerto dell'epoca, che spesso presentavano un audio piatto e scarsamente mixato, Stop Making Sense utilizza un sound design che valorizza ogni strumento e ogni sfumatura della performance. I suoni sono ricchi e profondi, con una qualità che permette al pubblico di percepire la potenza della musica dal vivo anche attraverso uno schermo cinematografico. Le canzoni sembrano prendere vita in modo unico, con i ritmi che si mescolano alle voci e alle percussioni, creando un effetto quasi ipnotico.


Demme non si affida però solo al suono per catturare l'attenzione dello spettatore. L'aspetto visivo è altrettanto cruciale per l’esperienza sensoriale. La coreografia, che si sviluppa lentamente durante tutto il concerto, è attentamente studiata e gioca con l'idea di progressione, di costruzione emotiva. Lo spettatore è portato a vivere un viaggio attraverso diversi stati d'animo e atmosfere, a partire dall’intimità delle prime canzoni fino all’esplosione di energia delle ultime tracce.
La messa in scena, con il suo minimalismo iniziale che si evolve in qualcosa di più complesso e spettacolare, rispecchia questo crescendo. Ogni canzone è accompagnata da cambiamenti visivi e dinamici che contribuiscono a creare un effetto immersivo. Ad esempio, durante Once in a Lifetime, Byrne si muove in modo meccanico, quasi come un automa, riflettendo il tema della canzone sull’alienazione e la monotonia della vita moderna. Questi dettagli visivi non sono solo estetici, ma aggiungono un livello narrativo al film, facendo sì che ogni performance diventi parte di una storia più ampia.
Tutto ciò ha reso Stop Making Sense un'opera rivoluzionaria, capace di creare un'esperienza sensoriale totale per lo spettatore, in quanto non si limita a documentare una performance dal vivo, ma la trasforma in un'esperienza cinematografica che coinvolge tutti i sensi. 
Jonathan Demme, grazie al suo approccio visivo e all’uso sapiente del suono, porta lo spettatore a sentirsi parte integrante del concerto, come se si trovasse fisicamente tra la folla o addirittura sul palco, accanto ai membri dei Talking Heads.


Uno degli aspetti più affascinanti del film è proprio il modo in cui Jonathan Demme riesce a creare una connessione tra il pubblico e la band, pur mantenendo lo spettatore cinematografico al centro dell'attenzione. Il pubblico del concerto è presente, ma non è mai il protagonista. 
Demme evita le classiche riprese della folla urlante, concentrandosi invece sulla performance sul palco. Eppure, nonostante questa scelta, lo spettatore si sente profondamente coinvolto nella stessa energia collettiva che attraversa il pubblico reale.
Questa connessione è resa possibile grazie all'attenzione che Demme riserva ai dettagli umani. Le espressioni facciali dei membri della band, i loro sorrisi e le loro interazioni sul palco, tutto contribuisce a creare un senso di calore e familiarità. Lo spettatore sente di essere parte di un evento unico, di qualcosa che va oltre la semplice riproduzione musicale.
Questo senso di coinvolgimento è ulteriormente rafforzato dalla coreografia e dal movimento costante dei musicisti. Non sono mai statici, ma si muovono sul palco come in una danza continua, alimentando l'energia visiva del film. Anche se non si vede mai chiaramente il pubblico, è impossibile non sentirsi trascinati dall'entusiasmo e dalla gioia pura che emana dalla band.
A distanza di 40 anni, Stop Making Sense non ha perso nulla del suo potere di incantare e sorprendere e continua a rappresentare un'opera d'arte a sé stante, una testimonianza della capacità di Jonathan Demme di trasformare un evento dal vivo in un'esperienza cinematografica unica, capace di coinvolgere il pubblico su più livelli.
 La fusione tra musica, immagine, movimento e narrazione visiva ha creato un film che va oltre il suo genere, e che continua a ispirare generazioni di cineasti e musicisti.



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