"L'ultimo rigore di Faruk" (Sellerio Editore 2016) di Gigi Riva è più di un libro sul calcio: è un affresco umano e storico che racconta la disgregazione della Jugoslavia attraverso il ritratto di un evento sportivo e di un personaggio indimenticabile, Faruk Hadžibegić.
In questo racconto, il rigore sbagliato dal capitano della nazionale jugoslava ai Mondiali del 1990 al termine dei tempi supplementari del quarto di finale contro l'Argentina, diventa simbolo di una ferita collettiva, di un dolore che va oltre il gioco, del dramma di un paese che, solo un anno dopo, sarebbe sprofondato nella guerra. Con una scrittura densa e toccante, Gigi Riva ci accompagna in un viaggio nelle contraddizioni di una nazione multietnica, spezzata dall’odio e dalle divisioni etniche.
Per comprendere l’importanza simbolica del rigore di Hadžibegić, bisogna entrare nello spirito di quell’estate del 1990, quando la nazionale jugoslava affrontò la partita contro l'Argentina di Maradona. La squadra era un riflesso della nazione stessa: un mosaico di etnie e culture diverse, che trovava nel calcio un terreno di coesione e orgoglio. C'erano serbi, croati, bosniaci, sloveni e montenegrini, uniti sotto la stessa bandiera, pronti a combattere insieme sul campo da gioco.
L’evento calcistico però si caricava già di tensioni latenti. Le rivalità tra le varie repubbliche iniziavano a manifestarsi in modo visibile, anche nello sport. Quel rigore sbagliato, che portò la Jugoslavia fuori dai Mondiali, non fu solo un episodio di sfortuna o errore atletico; divenne una profezia sinistra di una rottura irreversibile. L'autore coglie con sensibilità questo aspetto, narrando le emozioni, le aspettative, la pressione di rappresentare un paese che si stava disfacendo proprio mentre era sotto i riflettori del mondo.
Faruk Hadžibegić |
La figura di Hadžibegić, scelta da Riva come protagonista, è carica di sfumature e significati. Bosniaco musulmano, simbolo della convivenza pacifica, Faruk incarnava l'ideale dell’unità jugoslava. Uomo di grande dignità, umile e allo stesso tempo fiero, Hadžibegić non era soltanto un calciatore, ma anche un portatore dei valori di solidarietà e rispetto tra i popoli.
La sua carriera sportiva si intreccia con la storia della sua famiglia e del suo paese, regalando un ritratto umano che rende ancora più dolorosa la visione della Jugoslavia in frantumi.
Attraverso la storia di Faruk, Riva esplora non solo la caduta di una carriera, ma anche quella di un’intera generazione che aveva creduto in un’idea di paese. La fine della Jugoslavia è descritta non solo come un fatto politico, ma come una tragedia umana per chi, come Hadžibegić, dovette assistere impotente all’orrore del conflitto, che distrusse amicizie, famiglie, vicinati. La narrazione di Riva ci porta dentro i dilemmi interiori del protagonista, diviso tra un sentimento di appartenenza e il desiderio di liberarsi da un peso che non avrebbe dovuto portare.
Un elemento chiave del libro è la capacità dell’autore di analizzare con chiarezza e profondità le cause del conflitto etnico esploso all'inizio degli anni ’90. Riva affronta il contesto storico della Jugoslavia, le tensioni tra le diverse etnie e religioni, le rivendicazioni nazionalistiche che presero corpo dopo la morte di Tito, il leader carismatico che per decenni era stato garante dell’unità jugoslava. Il libro ci porta a comprendere come quel fragile equilibrio costruito con fatica si sia progressivamente disintegrato, in un clima di crescente intolleranza.
Le ferite storiche che si riaprirono in quegli anni ci riportano alla Seconda guerra mondiale, quando i diversi gruppi etnici della Jugoslavia si trovarono schierati su fronti opposti. Gigi Riva ci offre una panoramica del complesso intreccio tra passato e presente, mettendo in luce il ruolo dei leader nazionalisti e degli interessi politici che alimentarono l’odio e spinsero le comunità l’una contro l’altra. L’autore non si limita a una fredda analisi politica, ma ci coinvolge emotivamente, facendoci comprendere le ragioni e le paure delle persone comuni, travolte dagli eventi, riuscendo a trasformare un momento sportivo in un simbolo di qualcosa di molto più grande.
Il rigore battuto da Hadžibegić |
Il rigore fallito di Faruk Hadžibegić è raccontato non come un errore, ma come un atto inevitabile, il punto di rottura di una storia che stava già andando in frantumi. Questo episodio, che potrebbe sembrare irrilevante per chi guarda solo la superficie, viene elevato a significato metaforico: rappresenta il fallimento di un sogno, il crollo di un paese, la sconfitta di una generazione che aveva creduto nell'idea di un’unica Jugoslavia.
L'abilità di Riva sta nel trasmettere al lettore il senso di disperazione e di impotenza che vissero molti jugoslavi in quegli anni. In primis lo stesso Hadžibegić che, con quel rigore sbagliato, sembrò portare sulle sue spalle il peso delle aspettative di un popolo, ma anche la consapevolezza che il destino della Jugoslavia era già segnato, in un intreccio inesorabile tra storia personale e collettiva.
Il libro non si limita a raccontare la fine della Jugoslavia, ma ci mostra anche il tentativo di ricostruzione, il percorso di riconciliazione che molti ex jugoslavi hanno dovuto affrontare dopo la guerra. La vita di Hadžibegić dopo quel rigore è segnata da un lungo viaggio interiore, da un dolore mai completamente sanato, ma anche da un desiderio di pace e di dialogo. Riva ci descrive un uomo che ha dovuto fare i conti con la propria coscienza, che ha cercato di ritrovare la propria identità in un mondo che era cambiato per sempre.
In questo contesto, il calcio torna ad avere un ruolo di aggregazione: non più come illusione di un’unità ormai impossibile, ma come simbolo di un legame che, nonostante tutto, resiste. Hadžibegić diventa così un ponte tra passato e futuro, tra ricordo e speranza, un simbolo della possibilità di costruire un’identità che tenga conto delle diversità e delle ferite, senza negare il dolore.
Il libro ci ricorda che la storia è fatta di persone, di volti e di storie che non possono essere dimenticate, e che ogni guerra lascia ferite profonde, ma che è possibile ricostruire partendo proprio da quei frammenti.
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