mercoledì 13 novembre 2024

Ricordare



La scomparsa di Licia Pinelli, figura di straordinario coraggio e dignità, ci riporta a una delle vicende più drammatiche e controverse della storia italiana del secondo dopoguerra: la morte di suo marito, Giuseppe Pinelli, l’anarchico precipitato da una finestra della Questura di Milano il 15 dicembre 1969, durante un interrogatorio legato alla strage di Piazza Fontana. Licia ha trascorso gran parte della sua vita combattendo per la memoria e la verità, affinché il nome di Giuseppe fosse scagionato da ogni ingiusta accusa e la sua morte riconosciuta per l’ingiustizia che rappresentava.
Nel 2009, la Giornata della memoria delle vittime del terrorismo e delle stragi, celebrata al Quirinale, ha segnato un momento di particolare significato. Invitata dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Licia ha partecipato a questa commemorazione accanto a Gemma Capra, vedova del commissario Luigi Calabresi, il poliziotto a capo dell'Ufficio Politico della Questura di Milano, che sovraintendeva all'interrogatorio di suo marito e che a sua volta venne ucciso pochi anni dopo in un attentato.

Giuseppe Pinelli

 La presenza congiunta delle due vedove, unite dal dolore e dalla ricerca di verità, rappresentò un simbolo potente di riconciliazione e rispetto tra le famiglie di due vittime diverse, ma collegate indissolubilmente da una stessa pagina di sangue e tensione.

Pochi anni dopo, nel 2015, Napolitano insignì Licia Pinelli del titolo di commendatore al Merito della Repubblica Italiana, un riconoscimento al suo impegno instancabile e alla sua compostezza di fronte alla tragedia personale e alla battaglia per la giustizia. Il suo percorso di vita è testimonianza della forza civile di chi non ha mai smesso di credere nella verità, persino in quegli anni oscuri in cui lo Stato sembrava voler coprire, più che chiarire, ciò che era realmente accaduto. 

Ricordare oggi Giuseppe e Licia Pinelli è un dovere morale: non solo per onorare due figure che hanno pagato un prezzo altissimo nel nome della giustizia, ma anche per fare i conti con il passato e con le responsabilità di uno Stato che, in quegli anni di "strategia della tensione", non ha protetto i propri cittadini ma, al contrario, ha deliberatamente lasciato che venissero sacrificati in nome della stabilità e della lotta al comunismo.

All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, l'Italia si ritrova al centro di un intricato gioco di forze internazionali. Da un lato vi è il blocco occidentale, guidato dagli Stati Uniti, dall’altro il blocco sovietico, che sostiene movimenti e partiti comunisti in tutto il mondo, inclusa l’Italia. In un paese con una delle più grandi forze comuniste d’Europa, il Partito Comunista Italiano (PCI) diventa il principale bersaglio di una guerra fredda sotterranea, che non si combatte soltanto con le ideologie, ma con strategie mirate a destabilizzare il tessuto sociale e a influenzare l’opinione pubblica.

È in questo clima che si sviluppa la cosiddetta "strategia della tensione", una serie di azioni eversive e manipolative orchestrate da settori "deviati" delle istituzioni e da gruppi di estrema destra, talvolta con il supporto implicito dei servizi segreti italiani e stranieri. Questa strategia è finalizzata a seminare paura tra la popolazione, creando uno stato di tensione costante che legittimi misure repressive e allontani il consenso popolare dalle sinistre e dai movimenti di contestazione, percepiti come una minaccia all’ordine democratico.

L’Italia di fine anni Sessanta è attraversata da fermenti sociali e politici. Giovani studenti e lavoratori scendono in piazza, chiedendo riforme e giustizia sociale, mentre il PCI si rafforza, guadagnando consenso sia nelle urne che nelle piazze. Tuttavia, questo scenario appare intollerabile alle forze più conservatrici del paese e alleati esterni, che temono una "svolta rossa"
Nasce così l’idea di utilizzare attentati, violenza e disinformazione per contrastare l’ascesa del comunismo e dei movimenti di sinistra.


Giuseppe Pinelli era un ferroviere anarchico, attivo nei circoli politici e culturali di Milano. Non era un criminale né un sovversivo violento; il suo impegno era pacifico e idealista, volto alla diffusione di valori come l’uguaglianza, la giustizia sociale e la libertà individuale. Tuttavia, in seguito alla strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, a seguito dei primi depistaggi dello Stato, che indicavano gli anarchici come autori dell'attentato, Pinelli venne portato in Questura per un interrogatorio, come sospettato. 
È l’inizio di una vicenda che segnerà per sempre la sua vita e la storia italiana.

Dopo oltre tre giorni di fermo in Questura, nella notte del 15 dicembre, Pinelli muore precipitando da una finestra del quarto piano. La versione ufficiale fornita dalla polizia è da subito carica di ambiguità: inizialmente si parla di un suicidio, poi si ipotizza un “malore attivo”, una teoria controversa secondo cui Pinelli, per un improvviso svenimento, sarebbe caduto accidentalmente. Nessuna di queste spiegazioni sembra però convincente, e la famiglia di Pinelli, insieme all’opinione pubblica, inizia a sospettare che l’anarchico sia stato in realtà vittima di un omicidio di Stato, coperto dalle autorità.

Il caso Pinelli diventa rapidamente un simbolo delle ingiustizie e delle violenze istituzionali perpetrate nel contesto della “strategia della tensione”. L’anarchico viene ricordato come una vittima innocente, mentre molti continuano a interrogarsi su chi fossero i veri responsabili di quella morte e su quali interessi potessero essere stati protetti dal silenzio delle istituzioni.
Dopo la morte di Pinelli, l’indagine viene avviata con grande riluttanza e tra molteplici pressioni politiche. La figura dell’allora commissario di polizia Luigi Calabresi diventa centrale nel caso. Calabresi è infatti il responsabile dell’interrogatorio e la sua posizione suscita fin da subito sospetti, anche se lui stesso dichiarerà sempre di non essere stato presente al momento della caduta. 

Luigi Calabresi

Nel tentativo di giustificare l’accaduto, viene formulata la controversa teoria del “malore attivo” da parte del magistrato che conduce l’inchiesta, un’ipotesi considerata quasi un insulto alla logica e al buon senso. Inoltre, le testimonianze fornite dai poliziotti presenti in Questura quella notte risultano contraddittorie e incoerenti, generando ulteriori dubbi sulla dinamica dell’episodio.

La morte di Pinelli diventa una delle prime grandi prove di come lo Stato, o perlomeno settori "deviati" dello Stato, manipolasse informazioni e depistasse indagini per proteggere interessi interni. In quegli anni, infatti, numerose inchieste su attentati e stragi vengono sistematicamente ostacolate o deviate, e molte piste investigative conducono a gruppi neofascisti e alla connivenza di apparati istituzionali. La verità su Giuseppe Pinelli sembra essere stata volutamente nascosta, e il caso rimane uno degli esempi più eclatanti della reticenza delle istituzioni a fare luce su eventi di questo tipo.
Gli anni che seguono la morte di Pinelli furono caratterizzati da una scia di violenza e sangue, in cui lo Stato italiano sembrava diviso tra chi cercava la verità e chi tentava di insabbiare le indagini. Piazza Fontana è solo il primo di una serie di attentati che sconvolgeranno il paese, facendo decine di morti e centinaia di feriti. Tra i più noti si ricordano l’attentato alla stazione di Bologna nel 1980, l’attentato a Piazza della Loggia a Brescia nel 1974 e la strage sul treno Italicus nel 1974.

In quasi tutti questi casi, emerge la presenza di gruppi neofascisti e di un complesso intreccio di legami con i servizi segreti e le forze di sicurezza, che suggerisce l’esistenza di una rete di agenti e funzionari che agiscono autonomamente all’interno delle istituzioni, determinati a bloccare l’ascesa delle sinistre e a mantenere un controllo autoritario del paese, anche a costo di sacrificare vite umane. La strategia della tensione fu quindi una vera e propria guerra non dichiarata, combattuta nelle strade e nelle piazze italiane, con l’obiettivo di indirizzare la paura e la rabbia della popolazione verso nemici politici.

Milano, 15 maggio 1977

Oggi, ricordando la morte di Giuseppe Pinelli, non si può fare a meno di riflettere sulle responsabilità istituzionali e sulle complicità che permisero il verificarsi di simili tragedie. La mancata giustizia per Pinelli, come per le altre vittime degli attentati di quegli anni, è una ferita aperta nella memoria collettiva italiana. Le istituzioni di allora non solo fallirono nel garantire la verità e la trasparenza, ma in molti casi agirono attivamente per insabbiare e distorcere i fatti, contribuendo a creare una cultura di impunità e silenzio che persiste tutt’oggi.

L’atto d’accusa contro lo Stato si fonda su una serie di omissioni, errori e vere e proprie azioni deliberate di depistaggio, che portarono alla morte di numerosi innocenti in nome della lotta al comunismo. In nome di una supposta difesa dell’ordine democratico, lo Stato italiano accettò di adottare tattiche che contraddicevano i suoi stessi principi, sacrificando vite umane e minando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni.
La storia di Giuseppe Pinelli resta un monito per tutte le democrazie moderne: non si può difendere la libertà e la giustizia tramite la violenza, l’inganno e l’occultamento della verità. Ricordare Pinelli e gli anni della strategia della tensione significa anche riaffermare la necessità di uno Stato trasparente e responsabile, capace di fare i conti con i propri errori e di garantire che mai più si debba morire in nome della ragion di Stato.

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