giovedì 14 novembre 2024

Sergio Tavčar e l'epopea di una squadra imbattibile

 
Sergio Tavčar

Per gli appassionati di basket di una certa generazione, il nome di Sergio Tavčar evoca immediatamente l’immagine di un mondo lontano, fatto di telecronache appassionate e di momenti epici di un gioco che non esiste più, soppiantato da quello attuale. 
Storico commentatore di basket per TeleCapodistria, in un’epoca in cui la televisione era per molti il solo canale di accesso agli eventi sportivi internazionali, il commento di Tavčar diventava un vero e proprio racconto epico, capace di trasmettere l’intensità e la bellezza di uno sport che in Jugoslavia era quasi una religione.
Ma parlare di Sergio Tavčar significa andare oltre la semplice figura di un cronista. Con il suo stile unico, ironico e profondo, Tavčar non si limitava a descrivere le azioni di gioco, ma riusciva a trasmettere il contesto culturale e politico in cui quella squadra giocava, regalando agli spettatori una visione più ampia della realtà che circondava quei momenti. Le sue telecronache diventavano viaggi in un paese multietnico e complesso, che attraverso il basket riusciva a esprimere un’unità che, fuori dal campo, si stava progressivamente disintegrando. La figura di Tavčar rappresenta, quindi, non solo il basket jugoslavo, ma anche la memoria di un’epoca e di un’identità collettiva ormai perduta.



La nazionale jugoslava degli anni ’80 e dei primi anni ’90 è considerata ancora oggi una delle più forti squadre mai esistite nella storia del basket internazionale. Sotto la guida di allenatori straordinari come Aleksandar Nikolić e Dušan Ivković, la Jugoslavia costruì una squadra in cui ogni giocatore portava con sé un talento naturale e un’intelligenza tattica fuori dal comune. 
Tra i protagonisti di questa straordinaria epoca ricordiamo Dražen Petrović, Vlade Divac, Toni Kukoč, Dino Rađa e Zarko Paspalj, giocatori che non solo hanno segnato un’epoca con la maglia della nazionale, ma che in molti casi hanno avuto carriere di successo anche in NBA, aprendo la strada a generazioni di talenti europei.

Il gioco della Jugoslavia era diverso da quello che si vede oggi: non era fondato sulla pura forza fisica, ma su un equilibrio perfetto tra talento individuale e intelligenza tattica. Quella squadra sapeva mescolare il gioco corale con improvvisi guizzi individuali, dimostrando una creatività e una capacità di adattamento che sconcertavano le squadre avversarie. Come Tavčar ha sempre sottolineato, la Jugoslavia non aveva bisogno di sovrastare gli avversari fisicamente; la sua vera forza stava nella capacità di leggere il gioco, nell'anticipare le mosse dell'avversario e nel fare della collettività il valore principale.
Quella Jugoslavia non era solo una squadra di basket: era una forma di espressione artistica, un modo di interpretare lo sport con uno stile unico che rifletteva lo spirito del popolo jugoslavo, con le sue contraddizioni e la sua vitalità. 
Commentare le partite di quella nazionale significava per Sergio Tavčar raccontare una storia di bellezza e di intensità, ma anche di fragilità, una fragilità che sarebbe emersa con forza durante la guerra che portò alla disgregazione del paese.
Il talento di Tavčar come telecronista era quello di saper fondere la competenza tecnica con la capacità di emozionare. In un periodo in cui le telecronache sportive erano spesso fredde e didascaliche, la voce di Tavčar emergeva per la sua intensità, per il suo tono a tratti ironico, a tratti epico, che riusciva a tenere incollati gli spettatori allo schermo. Tavčar conosceva profondamente il basket, ma sapeva anche trasmettere una visione critica e arguta del gioco, commentando senza timore le scelte degli allenatori o i momenti di difficoltà dei giocatori.
Resta epica la sua telecronaca della semifinale tra URSS e Jugoslavia ai Mondiali del 1986, al Palacio de Deportes di Madrid.


Urss e Jugoslavia da anni dominavano le principali competizioni internazionali, se è vero che da quando il Brasile fece suo il Mondiale casalingo del 1963, l’una e l’altra si sono spartite le cinque edizioni successive, con il paese falce-e-martello a detenere il titolo conquistato nel 1982 in Colombia, riscattando lo smacco subito alle Olimpiadi di Mosca del 1980 quando fu l’Italia, battendo i sovietici, a favorire il successo finale degli slavi. 
Se poi, agli Europei, nel 1985 l’Urss aveva consolidato la sua leadership continentale vincendo ancora il titolo, battendo strada facendo la formazione balcanica, ecco che ai Mondiali spagnoli Urss e Jugoslavia si trovavano nuovamente l’una di fronte all’altra in semifinale, non solo per definire chi delle due era la squadra più forte, ma soprattutto in cerca di quella vittoria che avrebbe garantito l’accesso alla finale contro gli Stati Uniti.

Si affrontavano dunque due squadroni che non facevano mistero di puntare al successo pieno, e per una volta i sovietici hanno il pubblico dalla loro parte, se è vero che i sostenitori madrileni si sono lasciati affascinare dal talento di due giovani fuoriclasse, poco più che 21enni, che rispondono al nome di Arvydas Sabonis, lo “zar” del basket sovietico, e Valery Tikhonenko. 
Dall’altra parte si conta sul genio estroverso, arrogante ed anche per certi versi irritante di Drazen Petrovic, altro 21enne rampante, su cui gravavano le accuse di una violenza sessuale perpetrata assieme ad altri tre compagni di squadra ai danni di una fanciulla di Tenerife, riportata da un giornale. 
Il ragazzo che giocava all'epoca per il Cibona Zagabria tira dritto, anche perché c’è da convincere gli scouts americani, che per l’occasione gli hanno puntato gli occhi addosso.

Dunque, madrileni che parteggiano per l’Urss, e che ruggiscono di fastidio quando Zoran Cutura, con poco più di un minuto da giocare, sfrutta un passaggio di Drazen Petrovic, il “Mozart del basket”, fissando il punteggio sull’85-76. Nove punti di vantaggio, dopo che la sfida era stata in bilico per buona parte dei quaranta minuti di gioco, sembrano un bottino rassicurante per la Jugoslavia, che ha non solo Drazen a 29 punti, ma anche il fratello Aza, in regia, capace di aggiungere 15 punti. 
Ma se il talento del Cibona prova a scuotere il pubblico incitandolo con gesti plateali, e se Tavčar, nelle sue parole sembra pregustare l'imminente vittoria, i sovietici non si arrendono davvero, ed è Sabonis, con un tiro dall’arco dei tre punti, che sbatte contro il tabellone e finisce in fondo alla retina, a ridurre il margine, 79-85 a settanta secondi dalla sirena.

Drazen Petrovic

A 41 secondi dalla fine, Drazen tiene palla subendo fallo da parte di Khomicius, il coach slavo Cosic chiama time-out e cerca di tener calmi gli animi in subbuglio dei suoi giocatori.
Sulla rimessa in gioco, Zoran Radovic, pressato, perde palla e Tikhonenko, dall’angolo sinistro, con 35 secondi ancora da giocare, infila un altro tiro da tre punti, 82-85.
Drazen porta nuovamente palla, subendo ripetutamente fallo ed ogni volta, visto che il regolamento lo consente, decidendo di rimettere in gioco piuttosto che affidarsi ai tiri liberi. Khomicius commette il quinto fallo ed esce, alla nuova rimessa in gioco la palla finisce a Vlade Divac, 18enne gigante abile con le mani ma che stavolta si trova lontano dalla sua zona di competenza. Lo jugoslavo prova a portare palla ma commette infrazione di doppio palleggio ed il gioco torna in mano ai sovietici.

Mancano sette secondi alla fine, Valdis Valters si muove sulla sinistra del parquet e poco prima dell’arco dei tre punti, si alza per andare ad imbucare il tiro che vale il pareggio, 85-85. Gli jugoslavi tentano il tiro della disperazione per evitare i tempi supplementari ma non hanno fortuna, ed allora, alla sirena che sancisce la parità, alla costernazione dei giocatori in maglia bianca, e all'incredulità del nostro telecronista, fa da contraltare la gioia dei sovietici, riemersi dall’abisso e felici quasi avessero vinto.
Cosa che poi si verifica puntualmente qualche minuto dopo quando lo stesso Divac, dopo aver segnato da sotto regalando un nuovo vantaggio alla Jugoslavia, sbaglia il tiro libero aggiuntivo e commette il quinto fallo personale ostacolando Sabonis, che con ottanta secondi ancora da giocare infila dalla lunetta per un nuovo sorpasso, 91-90, segnando il suo 25esimo punto, top-scorer della sua squadra assieme a Tikhonenko autore a sua volta di 20 punti.
Il punteggio non cambierà più e Sergio Tavčar, alla sirena finale, incapace di descrivere quanto accaduto e di mascherare la sua cocente delusione, terminò la sua telecronaca limitandosi a chiedere scusa e andare via.
Sergio Tavčar non era solo un appassionato di basket, ma un fine conoscitore della cultura e della storia jugoslava, e questo traspariva in ogni sua telecronaca. Le sue descrizioni andavano oltre il semplice commento tecnico: riuscivano a dare profondità a ogni azione di gioco, a raccontare il significato che quella partita aveva per i giocatori, per i tifosi e per un’intera nazione. 
Con la sua voce, Tavčar riusciva a rendere epico anche il gesto più semplice, trasmettendo agli spettatori la passione e l’orgoglio che quel basket portava con sé.

Non si limitava a descrivere, ma si lasciava andare a considerazioni filosofiche, aneddoti storici e riflessioni culturali, che arricchivano la visione dello spettatore e lo portavano a vedere il basket sotto una luce nuova. 
Per lui, il basket era un’arte, e la nazionale jugoslava ne era la massima espressione, un mix perfetto di tecnica impeccabile, visione di gioco superiore e intelligenza tattica affinata. 
Tavčar amava sottolineare come quella squadra fosse capace di competere senza mai rinunciare al proprio stile, fatto di gioco di squadra, creatività e disciplina tattica.

La differenza con il basket attuale è evidente: oggi il gioco è molto più fisico e veloce, e spesso si punta sulla forza e sull’atletismo più che sull’intelligenza tattica e sul talento puro. Un concetto che egli ama ripetere è il seguente: "Se una volta, quando il basket era ancora un gioco logico per gente intelligente, quando cioè era il classico sport da college, i criteri di selezione prevedevano che, intanto, uno sapesse giocare a basket e poi se aveva anche il fisico tanto meglio; ovviamente, oggidì i criteri, da quando il basket professionistico è diventato la proiezione diretta del gioco da campetto, la selezione viene effettuata al contrario, cioè uno deve avere il fisico e poi in qualche modo qualcuno gli insegnerà a giocare (non certamente il college, perché oggigiorno essere buzzurro senza educazione formale sembra un motivo di vanto e, prima ci si libera della fastidiosa formalità dell’anno obbligatorio di college, meglio è)"

Larry Bird

La nazionale jugoslava di basket non fu solo una squadra vincente: rappresentava un modello di integrazione e collaborazione tra giocatori di diverse etnie e culture, un’unità che andava oltre le differenze e che trovava nella comune passione per il gioco un terreno di incontro. Tavčar sottolineava spesso questo aspetto, ricordando come il basket jugoslavo fosse un esempio di coesione in un paese in cui le tensioni tra le diverse repubbliche erano già palpabili.

Quando la Jugoslavia si sciolse e la guerra travolse il paese, quella squadra fu uno dei simboli più dolorosi di ciò che si stava perdendo. I giocatori, che fino a poco tempo prima avevano lottato insieme per la stessa maglia, si trovarono improvvisamente divisi da confini e nazionalismi. Per Tavčar, raccontare quel basket significava anche ricordare un ideale di unità e di pace che, nonostante le tragedie, rimaneva vivo nel cuore di molti.
L’eredità della nazionale jugoslava è quindi qualcosa di molto più grande del semplice risultato sportivo: è un simbolo di un’epoca e di un’idea di convivenza, una dimostrazione di come il talento e la passione possano unire le persone anche di fronte alle divisioni più profonde.

Celebrando Sergio Tavčar e la nazionale jugoslava, celebriamo un'epoca di basket che è diventata leggenda, un modello di gioco che oggi appare lontano, ma che rimane un esempio di bellezza e di intelligenza. Le parole di Tavčar e il ricordo di quella squadra ci ricordano che il vero valore dello sport sta nell'umanità, nell’impegno e nella capacità di superare le differenze per raggiungere un obiettivo comune. E così, nel cuore degli appassionati, quella voce inconfondibile e quella squadra straordinaria continueranno a vivere, come un richiamo a ciò che di meglio il basket, e la vita, può offrire.


Nessun commento:

Posta un commento

Life

  Lunedì una nave della Guardia costiera spagnola ha soccorso un gommone in difficoltà pieno di migranti a circa 180 chilometri da Lanzarote...