lunedì 7 luglio 2025

God only knows: il genio fragile di Brian Wilson


“God only knows what I’d be without you.”
 Questa frase, tanto semplice quanto vertiginosa, racchiude in sé il mistero di Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys, recentemente scomparso all’età di 82 anni. E non è solo una dichiarazione d’amore: è una formula musicale, un’architettura acustica, un testamento sonoro di ciò che Wilson ha regalato al mondo. La sua musica, e in particolare l'album "Pet Sounds", ha ridefinito per sempre i confini della pop music, affermandosi come una delle più grandi conquiste artistiche del Novecento.

Nato a Inglewood, California, nel 1942, Brian Wilson crebbe in una casa piena di contraddizioni: da un lato il padre Murry, uomo severo e manipolatore ma anche produttore musicale, dall’altro un ambiente immerso nella spensieratezza del sogno americano postbellico. 
La spiaggia, il sole, il surf: erano questi gli elementi che avrebbero reso i Beach Boys un’icona della cultura pop statunitense degli anni ’60. 
Ma dentro Brian c’era molto più che sabbia e onde. 
C’era Bach, c’era Gershwin, c’erano i suoni della mente e del cuore, i rumori dell’anima.
Quando i Beach Boys iniziarono a emergere nel panorama discografico, la loro immagine era legata a hit spensierate come "Surfin' Safari" e "California Girls"
Eppure, anche allora, dietro quella facciata solare si nascondeva la tensione tra la leggerezza apparente e la profondità emotiva che solo Wilson riusciva a infondere con le sue armonie vocali stratificate e i suoi arrangiamenti complessi.

Beach Boys

L’incontro con la marijuana, l'LSD e le prime crisi psicotiche cambiarono radicalmente il corso della sua esistenza. Brian smise di esibirsi dal vivo e si ritirò nel suo mondo interiore: uno spazio fragile, caotico, ma anche meravigliosamente fertile. 
Fu in quel limbo tra genio e follia che nacque "Pet Sounds", pubblicato nel 1966.
"Pet Sounds" non è semplicemente un disco: è un’opera d’arte totale, un concept album prima che il concetto stesso fosse sdoganato, un diario intimo che parla di amore, disillusione, speranza e perdita. 
È anche un miracolo tecnico: registrato con i migliori session man dell’epoca, e costruito con un lavoro maniacale di sovraincisioni, orchestrazioni raffinatissime e sperimentazioni pionieristiche (campanelli per biciclette, bicchieri di Coca Cola, Theremin e l'abbaiare dei cani tra cui Banana, quello di Wilson).
Tra le sue tracce, "Wouldn’t It Be Nice" apre le danze con una gioia malinconica, "Don’t Talk (Put Your Head on My Shoulder)" commuove con una delicatezza silenziosa, mentre "God Only Knows", che  Paul McCartney definì "la più bella canzone d’amore mai scritta", sfida le convenzioni tonali e strutturali del pop, abbracciando il barocco e l’imprevedibile.
"Pet Sounds" fu accolto in modo tiepido dal pubblico americano, troppo abituato ai ritornelli da spiaggia per comprendere quella nuova direzione. 
Ma nel Regno Unito fu un evento. 
I Beatles lo ascoltarono in loop, e fu proprio "Pet Sounds" a spingere McCartney e compagni a comporre il loro capolavoro "Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band"
Era una sfida reciproca tra giganti, ma anche un atto d’amore: Brian Wilson stava mostrando un altro possibile futuro per la musica pop.


Dopo "Pet Sounds" e il singolo "Good Vibrations", un brano-monolite costato mesi di lavoro e centinaia di migliaia di dollari, la psicologia fragile di Wilson iniziò a crollare sotto il peso del perfezionismo e della pressione commerciale. Il progetto successivo, ''Smile'', venne abbandonato nel caos. 
Brian si ritirò progressivamente, tra dipendenze, psicosi e un controllo medico che confinava con l’abuso.
Per decenni visse come un recluso, obeso, sedato, dimenticato da molti e venerato in silenzio da chi ancora ricordava la sua luce. Eppure, a partire dagli anni ’90, un lento ma tenace processo di resurrezione ebbe inizio: prima il riconoscimento critico, poi la pubblicazione della versione definitiva di ''Smile'' nel 2004, e infine una lunga serie di concerti, collaborazioni e premi che riportarono Brian Wilson al centro del palcoscenico.
Che cos’era, in fondo, il suono di Brian Wilson? Una combinazione irripetibile di innovazione armonica, sensibilità melodica e intuizione emotiva. La sua musica riusciva a raccontare il dolore con la voce dell’innocenza, la solitudine con cori celestiali, il desiderio con strumenti giocattolo.
Non scriveva per stupire, ma per sopravvivere. 
Ogni canzone era un rifugio, un tentativo di dare ordine al caos, di trovare bellezza nel disordine dell’essere. 
In un'epoca in cui il rock cercava la ribellione, Wilson cercava la consolazione.


Brian Wilson ha influenzato generazioni intere di musicisti: dai Beatles ai Radiohead, da Sufjan Stevens ai Flaming Lips. 
Ma la sua eredità più profonda è forse l’idea che la musica pop possa essere arte alta, che la leggerezza non escluda la complessità, che un ragazzo con la mente spezzata possa costruire cattedrali di suono.
La sua scomparsa lascia un vuoto difficile da colmare, ma anche un patrimonio inestimabile. Ascoltare oggi "Pet Sounds" significa entrare in contatto con un’altra dimensione, dove la vulnerabilità è forza, e la bellezza una forma di resistenza.

Quando Paul McCartney lo chiamò "il Mozart del pop", non stava esagerando. Ma forse è ancora più giusto dire che Brian Wilson è stato il Van Gogh della musica: un visionario tormentato, incompreso dai suoi contemporanei, che ha dipinto paesaggi sonori dove nessuno aveva mai osato andare.
La sua voce ci ha insegnato che anche chi non riesce a camminare nel mondo può volare. E che un cuore spezzato, se sa cantare, può guarire anche il nostro.
''Wouldn’t it be nice if we were older?''

Ora che sei altrove, caro Brian, sappiamo che il tempo finalmente ti è amico.
Riposa in pace, genio fragile. La tua musica continua a parlarci.



In memoria di Brian Wilson (1942–2025)



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