NAPOLI CONTRO TUTTI. UN TRICOLORE CHE BRUCIA NEI PALAZZI DEL POTERE
Hanno provato a sminuirla, hanno cercato in tutti i modi di delegittimarla, e ora che è accaduta davvero, che è reale, che è sotto gli occhi del mondo intero, fanno finta di niente o peggio, ricominciano con la solita litania, con il solito armamentario tossico di stereotipi e disprezzo malcelato.
Il Napoli è campione d’Italia.
Ancora.
Per la quarta volta.
E invece di una celebrazione corale, invece di un riconoscimento unanime a una squadra che ha compiuto un’impresa senza aiuti, senza potere politico, senza stampa compiacente, ci ritroviamo a fare da scudo, ancora una volta, alla dignità di un popolo intero.
Ci ritroviamo a denunciare una narrazione mediatica indegna, marcia, costruita pezzo dopo pezzo da un sistema che ancora oggi, nel 2025, non accetta che una squadra del Sud possa dominare il campionato, spazzare via le favorite, vincere con merito, lavoro e sudore.
Basta leggere i titoli nei giorni successivi alla vittoria: pochi elogi sinceri, pochi approfondimenti, pochi editoriali che riconoscano davvero la grandezza di ciò che è accaduto. Molti invece gli articoli che cercano già di destabilizzare, di ridurre tutto a una parentesi emotiva, di suggerire che il ciclo è finito ancora prima che possa iniziare. È un’abitudine tossica, antica, radicata in quel sottobosco redazionale che da decenni campa vendendo spazzatura e pregiudizi.
È una vendetta silenziosa contro una città che non ha mai chiesto il permesso.
È l’ennesimo tentativo di riportare Napoli nel recinto dell’eccezione folkloristica, di spogliarla della sua lucidità strategica, della sua forza organizzativa, della sua visione.
Ma stavolta non ci riusciranno. Perché il Napoli ha vinto contro tutto: contro un sistema economico sbilanciato, contro bilanci fuori controllo, contro dirigenti impresentabili, le cui "aderenze" con ambienti malavitosi sono ormai diventate palesi, contro i padrini dell’informazione sportiva, contro presidenti che si nascondono dietro le plusvalenze truccate, contro un arbitro designato sempre a ridosso di una polemica.
E soprattutto contro una stampa che, per mesi, ha cercato di affossare questo gruppo e questa città, costruendo una narrativa tesa a demolire, a ridicolizzare, a minimizzare.
Hanno detto che Conte era un sergente di ferro superato.
Che Lukaku era bollito.
Hanno deriso i nuovi acquisti, ignorato le prestazioni, negato l’evidenza. Ogni vittoria era fortunosa, ogni sconfitta era la prova della fragilità di un gruppo che, in realtà, è stato l’unico a reggere l’urto di un campionato lunghissimo, durissimo, segnato da pressioni e ostilità inimmaginabili.
E ora, mentre Napoli esplode di gioia, mentre il popolo scende in strada, mentre il Vesuvio si accende di fuochi e cori, c’è chi ancora scrive paginate di veleno, chi ironizza, chi cita Gomorra, chi pubblica foto di cassonetti bruciati, chi insinua che tutto sia fumo, confusione, euforia senza sostanza.
È il vecchio vizio colonialista dell’Italia benpensante: il Sud non può vincere, o se vince è per caso, per fortuna, per sbaglio. Non può essere merito. Non può essere sistema. Non può essere futuro. In prima linea, come sempre, ci sono loro, i sacerdoti decadenti del giornalismo sportivo italiano. Giornali che una volta facevano opinione, oggi ridotti a bollettini di propaganda milanese e torinese. Direttori che si vantano della propria sincerità ma scrivono con la bile.
Uno su tutti: il campione dell'ottusità settentrionale, emblema del cinismo travestito da franchezza, magistralmente imitato da Maurizio Crozza, giornalista forse solo nell'accezione napoletana del termine, cioè di colui che si occupa della vendita al dettaglio dei giornali, visto che risulta arduo pensare che costui, visto il tenore delle cazzate che spara a ripetizione, possa aver mai esercitato questa professione.
Ebbene costui, anche dopo la vittoria ha trovato il modo di riesumare luoghi comuni stantii, puzza di razzismo travestita da ironia.
Napoli, secondo lui, è e resta una città di rumore, di disordine, di sceneggiate. Non importa che il Napoli abbia appena dimostrato di avere una società seria, un progetto tecnico preciso, un allenatore vincente, un gruppo compatto. Per questa gente, la città resta quella delle cartoline sbiadite, della retorica spiccia, del pregiudizio a buon mercato.
E allora è giusto rispondere, con forza. Non con la violenza, ma con la verità.
Con la lucidità dei fatti.
Napoli ha vinto con il bilancio in ordine, con uno stadio sempre pieno, con giocatori scelti con criterio. Ha vinto con una difesa di ferro, con un centrocampo intelligente, con un attacco che ha segnato senza bisogno di superstar. Ha vinto con il lavoro. Ha vinto con la testa. Ha vinto perché ha avuto il coraggio di ripartire dopo lo scudetto del 2023 senza dormire sugli allori, cambiando guida tecnica, rinnovando uomini e metodi.
Ha vinto contro squadre che spendono il doppio, che godono di una stampa favorevole, che possono permettersi di sbagliare stagione dopo stagione senza mai essere messe davvero in discussione. Ha vinto perché ha un pubblico che non abbandona mai, che canta anche quando perde, che trasforma ogni trasferta in una prova d’amore. Ha vinto perché ha una città che si stringe attorno alla squadra, non per idolatria, ma per identità.
E questo fa paura.
Fa paura a chi vive in un Paese che ha fatto del centralismo sportivo una religione.
Fa paura a chi non sa raccontare Napoli se non attraverso le categorie del folklore o del delitto.
Fa paura a chi non capisce che qui, dietro ogni vittoria, c’è anche una lezione civile, un grido sociale, un’alternativa al potere opaco che governa il calcio italiano.
Napoli ha dimostrato che si può vincere anche senza appartenere ai salotti buoni.
Senza cene di rappresentanza.
Senza amici nelle redazioni.
Senza protettori nei palazzi FIGC.
E ora, mentre da Milano e Torino si affrettano a parlare di casi arbitrali, di anomalie tattiche, di ''squadra già al massimo'', la città ride.
Ma non per vendetta.
Ride perché è consapevole della propria forza.
Perché sa che questa non è una favola, ma l’inizio di una nuova epoca.
Un’epoca in cui il Sud può essere modello, può essere traino, può essere guida. Questa vittoria non è solo sport.
È politica, nel senso più alto del termine.
È un rifiuto netto del racconto dominante.
È un riscatto culturale.
È una proposta di futuro.
Per il calcio italiano, che boccheggia da anni, potrebbe essere un’occasione irripetibile. Un segnale da ascoltare. Un invito a cambiare rotta. A guardare al merito, non al pedigree. A investire nei vivai, nelle città vere, nei progetti seri. Ma purtroppo, la sensazione è che chi detiene il potere continuerà a ignorare, a minimizzare, a ridicolizzare.
Continueranno a parlare di ''Napoli come eccezione'', mai come regola. Continueranno a vendere la narrativa tossica della città isterica, del tifoso esagerato, del gol come raptus. Continueranno a scrivere pensando che, a sud di Roma, tutto il resto d’Italia sia margine.
Eppure, c’è qualcosa che stavolta non potranno toccare: la memoria.
La memoria di un popolo che ha visto con i propri occhi una squadra vincere con lealtà, con fatica, con orgoglio.
La memoria di una città che si è riconosciuta in undici uomini e in una maglia. La memoria di una notte che ha spazzato via i sospetti, le insinuazioni, le bugie.
E allora non c’è niente da spiegare, niente da giustificare.
Napoli è campione.
Anzi C4MPIONE.
Nonostante tutto. E proprio per questo, più forte che mai.
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