C’era una volta una bambina educata al silenzio. Cresciuta tra le fiabe del principe azzurro e le ombre che le dicevano di non parlare troppo, di non vestirsi così, di non rispondere. Di non esistere troppo. Le avevano raccontato che l’amore protegge, consola, salva. Non le avevano detto che a volte uccide. La sua favola non è mai diventata storia. Si è interrotta in un salotto, in una camera da letto, in un garage. E nessuna fata madrina è venuta a salvarla.
Questa è la favola nera, il racconto sommerso che ogni giorno si riscrive con lo stesso finale, fatto di sangue, indifferenza e rimozione. Nessun lieto fine, nessun riscatto. Solo una cronaca asciutta, una notizia che passa, un nome da aggiungere all’elenco. È la fiaba rovesciata che comincia con l’illusione e termina con il silenzio. Perché in questa storia non ci sono draghi da combattere: il mostro abita già nella casa, ha le chiavi, sa il nome della vittima, spesso la chiama ''amore''.
La favola nera si tramanda ogni giorno nelle aule scolastiche dove non si insegna il rispetto, nelle famiglie dove si ripetono copioni tossici fatti di ruoli e doveri, nelle chiese che predicano la sottomissione come virtù femminile, nelle pubblicità che riducono le donne a corpi da esporre, nei tribunali che cercano il movente nel carattere della vittima. È una narrazione perversa, normalizzata, che trasforma l’orrore in statistica e la violenza in caso isolato.
Eppure, ogni favola ha il suo linguaggio. E anche questa, la più buia di tutte, parla di valori trasmessi, di educazione mancata, di potere strutturale.
Non è follia, non è gelosia, non è raptus.
È cultura.
Una cultura che uccide a mani nude, a coltellate, a botte, a fuoco. Una cultura che insegna agli uomini a possedere e alle donne a sopportare. Una cultura che protegge il carnefice, mentre chiede conto alla vittima. Cosa indossava? Perché non se n’è andata? Non lo aveva provocato?
La favola nera ha molti complici. Non solo chi colpisce, ma chi guarda e tace.
Chi dice ''non tutti gli uomini''.
Chi minimizza, chi ride, chi cambia canale.
Chi cresce figli maschi insegnando loro a dominare, a vergognarsi delle lacrime, a vincere sempre.
Chi alle figlie insegna la modestia, la prudenza, l’obbedienza.
Chi pensa che la parità sia un fastidio.
Chi dice che il femminismo ha stancato.
Non serve un mostro nel bosco se il pericolo è dentro casa. Non serve il lupo se il male ha il volto di un marito, un fidanzato, un padre, un vicino.
Non serve l’arma se la società fornisce ogni giorno le munizioni.
E allora smettiamola di raccontarci che è una tragedia privata.
Non lo è.
È un fallimento pubblico.
È una strage annunciata, tollerata, ripetuta. Finché non ci sarà una vera rivoluzione culturale — nelle scuole, nelle famiglie, nei media, nei tribunali — questa favola nera continuerà.
E ogni ''c’era una volta'' sarà solo l’incipit di una nuova condanna.
Serve un nuovo immaginario.
Serve insegnare che l’amore non uccide, che la libertà non si punisce, che il rifiuto non è una colpa. Serve disinnescare il patriarcato che si maschera da normalità, da tradizione, da ordine naturale.
Serve riscrivere tutto da capo.
Perché finché le donne saranno costrette a morire per essere libere, la favola nera resterà il nostro unico racconto possibile.
E sarà sempre troppo tardi.
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