C’è una fotografia che vale un intero capitolo della musica del Novecento: un uomo dal volto diafano e sguardo tagliente, braccia alzate in posa ieratica, incastonato in un bianco e nero immobile e surreale. È la copertina di Heroes, secondo atto della cosiddetta ''trilogia berlinese'' di David Bowie. Un disco pubblicato il 14 ottobre 1977 e destinato a diventare non solo un’icona del sound sperimentale, ma anche un documento emotivo e politico di un’epoca lacerata, tagliata a metà come la città che gli diede vita: Berlino.
Per comprendere Heroes bisogna affacciarsi sul bordo di quel baratro che fu la seconda metà degli anni ’70: una decade che prometteva libertà e utopia e che invece si trascinava verso la paranoia, la droga e la frammentazione. La Summer of Love era diventata un miraggio infranto, il punk un grido isterico che denunciava il tradimento della promessa hippie. David Bowie, reduce da un periodo di dissoluzione personale a Los Angeles, annichilito dalla cocaina e dal culto della propria immagine, compie allora una fuga esistenziale verso Berlino Ovest. E da lì, rinascendo tra macerie e sintetizzatori, cambia di nuovo la pelle. Ma questa volta per sempre.
Prima di Heroes c’è Low, e prima ancora c’è l’abisso.
Nel 1975, Bowie vive in California, circondato da vampiri dell’industria discografica, guru esoterici e un’ossessione crescente per l’occulto. L’uomo che aveva ucciso Ziggy Stardust e dato voce all’alieno di The Man Who Fell to Earth si sta letteralmente consumando.
Secondo il biografo David Buckley, il Bowie del periodo di Los Angeles assumeva quantità smodate di cocaina e si sosteneva con una dieta a base esclusivamente di sigarette, peperoncini e latte, trascorrendo la maggior parte del periodo 1975–76 "in uno stato di costante terrore psichico".
Alcuni resoconti dell'epoca, principalmente derivanti da un'intervista al cantante di Cameron Crowe, raccontavano di un Bowie che viveva in un appartamento pieno di antichi manufatti egizi, candele nere sempre accese, circondato da varia iconografia nazista e intento a studiare trattati di magia nera e a conservare in frigo la propria urina imbottigliata, terrorizzato dal fatto che un gruppo di streghe volesse rubare il suo sperma per qualche rito oscuro, ricevendo infine messaggi segreti da parte dei Rolling Stones e minacce da Jimmy Page dei Led Zeppelin.
In seguito Bowie avrebbe detto di Los Angeles: "Quel fottuto posto dovrebbe sparire dalla faccia della Terra". Il periodo è talmente oscuro che l’artista stesso lo definirà come un lungo blackout: ''Non ricordo quasi nulla di Station to Station (album pubblicato nel 1976)''.
Il trasferimento a Berlino, avvenuto nel 1976, non è una semplice scelta geografica: è una decisione ontologica. Bowie si rifugia nella città più scissa d’Europa con un unico obiettivo: sopravvivere a sé stesso. Con lui, un complice silenzioso e fondamentale: Brian Eno, il santone della musica ambient, ex Roxy Music, mente espansa e visionaria. Insieme, ricominciano a lavorare come se la musica non dovesse più essere un prodotto, ma un’esperienza. Il risultato è Low (1977), un album spiazzante e seminale che mescola brani strumentali, ritmiche spezzate, decostruzione pop.
È il primo passo.
Heroes arriva qualche mese dopo, e al tempo stesso è simile e diverso. Se Low era l’inverno interiore, Heroes è un lampo nel cielo plumbeo: più diretto, più esplicitamente emotivo, ma non per questo meno sperimentale.
Anzi, Heroes è il disco dove il minimalismo di Eno incontra l’energia krautrock, dove la voce di Bowie esplode finalmente senza filtri, dove Berlino entra nel suono come una ferita aperta.
La scelta di Berlino non è solo funzionale alla disintossicazione di Bowie. È simbolica, estetica e profondamente politica. Berlino Ovest è un’enclave capitalista circondata dalla DDR, una città che vive nel paradosso della libertà e del controllo. Ma è anche la patria del rock cosmico tedesco: Neu!, Faust, Kraftwerk, Can.
Un laboratorio sonoro che affascina Bowie e lo guida nella creazione di un nuovo linguaggio.
Bowie affitta un appartamento anonimo in Hauptstrasse, nel quartiere borghese di Schöneberg. Frequenta i bar squallidi, i mercati dell’Est, i musei, i quadri di Kirchner. Vive una vita da fantasma, in incognito, lontano dai riflettori. Impara la disciplina quotidiana e si nutre dell’aria di decadenza che aleggia tra le rovine ancora visibili della Seconda guerra mondiale.
In quello stesso clima si formano i tasselli di Heroes. Il disco viene registrato in gran parte presso gli Hansa Studios, situati a pochi metri dal Muro. Quella del Muro è una presenza costante, fisica, quasi mitologica.
Le finestre dello studio si affacciano sul confine tra due mondi, e la leggenda (che ha un fondo di verità) vuole che la canzone Heroes sia ispirata a una coppia che Bowie vide baciarsi proprio sotto il Muro. Solo che non erano due amanti qualunque, ma un suo collaboratore e una ragazza dell’Est.
Un gesto d’amore clandestino che diventa mito, canzone, epopea.
Hansa Studios |
L’apertura del disco è un pugno in faccia: Beauty and the Beast è una canzone disturbata e disturbante, tra funky e paranoia, che introduce immediatamente il tono schizofrenico dell’album. Il testo è un gioco di specchi tra bene e male, lacerazione dell’identità e tensione erotica: ''Thank God Heaven left us standing on our feet''.
La voce di Bowie è viscerale, carnale, come se si fosse finalmente scrollato di dosso tutte le maschere.
Segue Joe the Lion, omaggio criptico a Chris Burden, artista performativo noto per le sue azioni estreme. Il brano è costruito su chitarre stridenti (quelle di Robert Fripp, fondamentale in tutto il disco) e batteria spezzata. È un Bowie che guarda l’arte come atto di ferocia, una riflessione sulla performance e sull’autodistruzione. Il Bowie che si inchiodava a croci sonore per sopravvivere.
Heroes, il terzo brano, è la vetta assoluta.
La canzone nasce quasi per caso: un riff di Fripp, un loop elettronico, una linea di basso pulsante. Il testo, scritto di getto, è uno dei più belli mai composti da Bowie. È una ballata tragica e grandiosa, che trasforma un momento privato in una dichiarazione universale. L’uso della voce è rivoluzionario: la registrazione avviene con microfoni posti a varie distanze, attivati man mano che la voce cresce. Bowie urla, si contorce, si spinge ai limiti della laringe. È un canto di resistenza, una preghiera per gli amanti separati dal mondo: ''We can be heroes, just for one day''.
Son of the Silent Age è un intermezzo surreale, tra spoken word e psichedelia obliqua. È la canzone più ''zittita'' del disco, eppure nasconde una riflessione profonda sull’incomunicabilità e sul mutismo dell’anima.
''They never die, they just go to sleep one day'', canta Bowie come un profeta stanco.
Poi arriva Blackout, altro momento di tensione pura. Qui il suono si fa aggressivo, la voce isterica. È una traccia che anticipa certe derive post-punk, una visione apocalittica del collasso nervoso. Bowie ha detto che il titolo si riferisce sia ai blackout elettrici, sia a quelli mentali. Entrambi lo avevano accompagnato troppo a lungo.
La seconda parte del disco si muove nel territorio ambient e strumentale già esplorato in Low, ma con maggiore maturità. V-2 Schneider è un brano omaggio al co-fondatore dei Kraftwerk, Florian Schneider, ma anche un riferimento al razzo nazista V-2, un paradosso tutto berlinese.
Sense of Doubt è puro Eno: un pianoforte dissonante ripetuto ossessivamente, su cui si innestano onde sonore cupe, quasi un requiem industriale. Moss Garden apre invece a un paesaggio zen: Bowie suona il koto giapponese, e la traccia evoca un giardino di Kyoto visto da un finestrino del treno interstellare. Infine, Neuköln è un omaggio malinconico al quartiere turco di Berlino, una visione straziante di solitudine urbana, con il sax che piange come un’anima senza patria. The Secret Life of Arabia chiude il disco come un enigma: groove orientale, testo criptico, ritorno al canto dopo la catarsi del silenzio.
Heroes costituirà il secondo tassello di una trilogia non pensata come tale, ma divenuta tale per coerenza sonora e visiva: Low, Heroes e Lodger (1979).
Con questi dischi, Bowie non solo anticipa molte delle tendenze future (new wave, industrial, ambient pop), ma infrange definitivamente l’idea di ''album pop'' come oggetto rassicurante. I brani sono spezzati, i testi criptici, l’umore instabile. È la musica come specchio della psiche.
La figura dell’eroe, nel disco, è tutto fuorché celebrata. È un eroe tragico, effimero, che vince solo per un giorno. È un anti-eroe romantico, figlio di una generazione disillusa, ma che ancora osa amare sotto le torrette del Muro.
La canzone Heroes diventò col tempo un inno, usato in mille contesti, da commemorazioni pubbliche a spot pubblicitari. Ma il suo senso originario resta drammatico: la possibilità di essere liberi solo nel tempo sospeso dell’amore.
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Robert Fripp, David Bowie, Brian Eno |
Dopo Heroes, Bowie non tornerà più lo stesso. Lodger chiude il cerchio berlinese, ma è meno coeso. Negli anni ’80 Bowie entrerà nell’epoca commerciale, da Let’s Dance (1983) alle grandi tournée, ma l’anima inquieta, quella vera, resterà inchiodata a Berlino.
Non è un caso che, anni dopo, quando il Muro cadrà, molti fan si ricorderanno delle sue parole come di una profezia.
E che, nel 2016, a pochi giorni dalla morte dell’artista, centinaia di berlinesi si riuniranno davanti agli Hansa Studios per cantare Heroes come preghiera laica.
Heroes non è solo un disco. È una soglia. È un atto di resistenza personale e collettivo. È la prova che si può fare arte anche dal fondo dell’abisso. È il canto di un uomo che ha rinunciato alle maschere solo per trovare una voce più vera. È la cronaca in musica di una città lacerata e di un tempo storico sospeso, in cui si poteva ancora credere – almeno per un giorno – che l’amore potesse vincere sulle divisioni.
Nella rubrica ''Looking back'' è forse questo l’album che più di ogni altro ci costringe a non guardare solo indietro, ma anche dentro. E a chiederci: chi sono oggi i nostri ''Heroes''?
E soprattutto, siamo ancora capaci di esserlo, anche solo per un giorno?
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