''How does it feel?''
Come ci si sente, Bob, a essere ancora il segreto meglio custodito del mondo, e al tempo stesso l'urlo più famoso mai inciso su un nastro magnetico? Come ci si sente, a sessant’anni esatti da quel 20 luglio 1965, quando per la prima volta tu e la tua Fender Stratocaster avete bruciato il palco del Newport Folk Festival e "Like a Rolling Stone" ha preso vita tra fischi, applausi, sbigottimento, rabbia, estasi, rivoluzione?
Ti scrivo oggi, nel 2025, con la distanza che offre la storia e la tenerezza che solo il tempo sa cucire tra le pieghe del mito. Ti scrivo, come si scrive a un vecchio amico che forse non risponderà mai, ma di cui abbiamo imparato a decifrare i silenzi, le rughe sulla voce, i versi spezzati, le fughe ostinate e le improvvise apparizioni nei luoghi più inattesi della memoria collettiva.
Ecco, allora: come ci si sente, Bob, a sapere che siamo ancora tutti qui? A sentirci come quella ''Miss Lonely'' della tua canzone, come vagabondi che non trovano casa, come funamboli caduti nel vuoto, come individui che non appartengono più a niente, ma che in quella perdita trovano, da sessant’anni, la più potente forma di verità musicale mai scritta?
Era il 20 luglio 1965. C’era il caldo dell’estate americana, c’era il pubblico del Newport Folk Festival, c’erano i puristi con le barbe lunghe e i dischi di Woody Guthrie sotto braccio, e c’eri tu, Bob, con la tua giacca nera, la chitarra elettrica e una band che sembrava pronta a scatenare l’inferno.
Non era solo una canzone nuova, quella che avevi in mente. Era un’altra epoca che stava nascendo, e tu lo sapevi. Lo sapevi dal momento in cui, qualche settimana prima, avevi inciso quello che ''non era mai stato inciso prima''.
''Like a Rolling Stone'' non era solo una canzone.
Era una deflagrazione, un terremoto in sei minuti e sei secondi.
Troppo lunga per la radio, troppo aspra per i folkettari, troppo colta per il rock, troppo rock per la poesia, troppo vera per lasciar passare il tempo senza farsi sentire. Era, ed è ancora oggi, l’atto di nascita di una modernità che fa male.
Una modernità dove l’io narrante diventa l’altro, dove la canzone non consola ma urla, e dove il linguaggio si fa coltello affilato.
In quei sei minuti c’è tutta la forza di una gioventù che smette di credere ai padri, che rompe le liturgie della protesta, che mette in crisi persino se stessa.
Tu non stavi solo tradendo il folk, Bob. Tu stavi tradendo l’illusione che la musica potesse essere innocua. E lo facevi con un organo che stride, una batteria incalzante, una voce spezzata, un testo che è poesia visionaria e freccia diretta al cuore.
''How does it feel, to be on your own, with no direction home, like a complete unknown, like a rolling stone?''
![]() |
Bob Dylan Newport Folk Festival 20 luglio 1965 |
Sessant’anni dopo, quella domanda non ha perso nulla della sua forza. Anzi, se possibile, ne ha acquistata.
Perché oggi, nel 2025, viviamo immersi in un mondo che ha fatto del disorientamento una regola. Siamo diventati tutti, nostro malgrado, ''rolling stones''. Vaghiamo in una società che promette connessione e regala solitudine, che esibisce certezze ma si regge sull’ansia, che moltiplica i linguaggi e svuota le parole.
Tu ci avevi avvertiti, Bob. E lo avevi fatto senza predicare, senza alzare la voce, senza chiedere applausi. Avevi scritto una canzone che era una lama, e avevi lasciato che sanguinassimo.
Ma in quel sangue c’era la verità.
E la verità, anche quando fa male, ci fa sentire vivi.
''Like a Rolling Stone'' non è mai stata solo una canzone.
È stata una domanda esistenziale, una sfida alla coscienza, una forma di resistenza. E in un’epoca come la nostra, dove tutto viene ridotto a contenuto da consumare, dove la musica è spesso sottofondo e mai centro, sapere che esiste ancora quella canzone, e che milioni di persone continuano ad ascoltarla come fosse la prima volta, è un miracolo.
O forse no: è semplicemente arte.
Ci sono canzoni che invecchiano con i loro autori. Ce ne sono altre che restano incastonate in un tempo preciso, e non ne escono più. Poi ci sono quelle che sfidano la cronologia, che si rigenerano a ogni ascolto, che parlano lingue sempre nuove. ''Like a Rolling Stone'' appartiene a questa terza categoria.
È un organismo vivente.
Cambia con noi.
E noi cambiamo con lei.
Ma torniamo a te, Bob. A te che allora avevi 24 anni, e ora ne hai 84. A te che hai attraversato ogni stagione musicale come un clandestino, sempre dentro e sempre fuori, sempre oltre. A te che hai visto il folk morire e rinascere, il rock esplodere e implodere, l’America illudersi e fallire.
A te che hai ricevuto il Nobel per la Letteratura e non hai nemmeno ritirato il premio subito.
A te che sei stato il più grande menestrello del Novecento e il più silenzioso tra gli uomini famosi.
Come ci si sente a essere diventato un classico contro la tua stessa volontà?
Come ci si sente a sapere che la tua canzone, scritta in un impeto di rabbia, in uno stato quasi febbrile, continua a essere studiata nei corsi universitari, citata nei romanzi, campionata nei dischi hip-hop, reinterpretata dai nuovi profeti della disperazione globale?
Forse ti fa sorridere. O forse no.
Forse, come ci hai insegnato, non c’è niente da dire.
Forse la vera risposta è nel vento.
Ma noi, Bob, abbiamo bisogno di chiedertelo ancora.
How does it feel?
Una volta, in un’intervista del 1966, ti chiesero cosa volesse dire quella canzone.
Tu rispondesti: ''È difficile da spiegare. È solo ciò che succede quando si scrive qualcosa senza pensare troppo''.
Eppure, quella canzone è stata pensata dal mondo intero. È diventata simbolo di ogni caduta, di ogni risveglio amaro, di ogni trasformazione. È diventata la colonna sonora di chi perde tutto e in quella perdita trova un’identità nuova.
E noi, Bob, noi che siamo cresciuti in epoche diverse, in paesi lontani, in contesti che nemmeno potevi immaginare, continuiamo a trovarci lì, in quel ritornello che non smette mai di riverberare nella testa: ''How does it feel?''
Oggi siamo in balia di nuove inquietudini. L’algoritmo ha sostituito la Musa. Le canzoni vengono scelte da una macchina, non da un’anima. La ribellione è diventata estetica, l’anticonformismo una moda, la protesta un hashtag.
Ma quella tua canzone, quella lunga sei minuti e sei secondi, rimane lì, non addomesticabile, non catalogabile.
C’è qualcosa di sacro in tutto questo. E forse per questo continuiamo a celebrarla.
Non come si celebra un cimelio da museo, ma come si celebra un atto di fede.
Ti immagini, Bob, se oggi un artista uscisse con una canzone del genere? Una canzone così spietata, così lunga, così tagliente? Probabilmente verrebbe ignorata. O bollata come ''troppo intellettuale''.
O giudicata fuori mercato.
Ma tu non hai mai scritto per il mercato.
E forse è per questo che il mercato ha finito per piegarsi a te.
Cosa sarebbe successo se quella sera del luglio 1965 non avessi deciso di “tradire” il folk?
Cosa sarebbe successo se ti fossi piegato ai custodi dell’ortodossia, a quelli che volevano un Dylan acustico e rassicurante? Non lo sapremo mai. Ma possiamo dire con certezza che il mondo della musica, dopo ''Like a Rolling Stone'', non è stato più lo stesso.
Hai insegnato che una canzone può essere romanzo, sentenza, viaggio, sberleffo, epifania. Hai mostrato che scrivere una canzone è come lanciare un sasso nello stagno dell’anima collettiva.
E quel sasso, Bob, continua a generare cerchi.
Oggi, mentre ti scrivo questa lettera, immagino un ragazzo di diciassette anni che per la prima volta ascolta ''Like a Rolling Stone''.
Non sa nulla di Newport, non conosce i nomi dei membri della band, non ha mai visto un vinile. Eppure sente qualcosa. Sente che c’è vita vera, dolore vero, rabbia vera in quelle parole. Sente che quella voce, anche se lontana, gli parla. Gli dice: ''Anche tu sei solo. Anche tu sei senza direzione. Ma proprio per questo, sei libero''.
Cosa ci hai dato, Bob, con quella canzone? Forse ci hai dato la possibilità di naufragare. Ma un naufragio consapevole. Un naufragio che è inizio, non fine. Perché ogni volta che la ascoltiamo, ''Like a Rolling Stone'' ci rimette al mondo.
E allora, forse, non ha nemmeno più senso chiederti come ci si sente.
Forse la vera domanda è: come ci sentiamo noi, a sessant’anni di distanza, a essere ancora sotto il fuoco di quella canzone?
Ci sentiamo smarriti, sì. Ma anche riconosciuti.
Ci sentiamo rotti, ma interi.
Ci sentiamo fragili, ma irriducibili.
Ci sentiamo, insomma, vivi.
E questo, Bob, lo dobbiamo a te.
Con gratitudine eterna,
uno dei tanti che ancora si commuovono al suono di quella batteria che entra dopo il primo colpo d’organo.
Nota dell’autore:
Questa è una lettera immaginaria indirizzata a Bob Dylan in occasione del sessantesimo anniversario della prima esecuzione pubblica di ''Like a Rolling Stone'', avvenuta il 20 luglio 1965. È un omaggio al potere trasformativo della musica, alla potenza della parola e alla capacità dell’arte di resistere al tempo. Bob Dylan, che probabilmente non risponderà mai, ci ha già dato tutto ciò che poteva: una domanda che ci riguarda tutti.
Una domanda a cui, forse, non si può rispondere, ma che ci costringe ancora oggi a guardarci dentro.
How does it feel?
Nessun commento:
Posta un commento