Pier Paolo Pasolini e Yukio Mishima rappresentano due delle figure più enigmatiche, controverse e affascinanti del Novecento, due intellettuali che sembrano posti agli estremi opposti dello spettro politico, culturale ed estetico, e che proprio per questa loro apparente distanza hanno attirato l’attenzione di lettori, studiosi e artisti in cerca di un punto di contatto in grado di giustificare l’imprevedibile somiglianza tra le loro traiettorie.
A prima vista, infatti, Pasolini incarna l’intellettuale marxista, anticonformista, critico feroce della società dei consumi, militante nella difesa delle minoranze e delle periferie esistenziali.
Yukio Mishima appare invece come il nazionalista estetizzante, ossessionato dall’idea di decadenza del Giappone moderno, adoratore della tradizione imperiale e della bellezza fisica portata fino all’estremo del sacrificio rituale.
Eppure, sotto la superficie, entrambi condividono un nucleo incandescente di tensioni: l’ossessione per il corpo, la percezione tragica della modernità, l’urgenza di trasformare la vita in un’opera d’arte, la consapevolezza dell’essere fuori dal tempo e dai codici dominanti, la sensualità come linguaggio politico e la morte come ultimo atto creativo. Il confronto tra Pasolini e Mishima rivela dunque un legame sotterraneo che va ben oltre le categorie politiche e ideologiche, e che affonda le radici in una medesima sensibilità tragica e visionaria.
Entrambi crescono in un secolo attraversato da totalitarismi, guerre mondiali, trasformazioni economiche e culturali che rendono instabile qualsiasi identità. E se Pasolini trova nella povertà delle borgate romane la verità perduta di un mondo che sta scomparendo, Mishima cerca nell’antico Giappone dei samurai un modello estetico e morale capace di ridare un senso alla vita.
Entrambi inseguono dunque un altrove, un passato ideale, un territorio simbolico in cui poter collocare il proprio disagio verso un presente percepito come corrotto, omologato e privo di autenticità. La loro è un’operazione simmetrica ma opposta: Pasolini si rivolge “verso il basso”, verso la marginalità sociale; Mishima “verso l’alto”, verso la tradizione aristocratica; eppure la direzione diversa conduce allo stesso scopo, ossia trovare un punto di vista radicale e non riconciliato per osservare la realtà.
Anche sul piano del corpo la loro affinità è sorprendente: Pasolini, pur non indulgendo nel culto fisico come Mishima, vive la corporeità come campo di conflitto morale e politico, come luogo in cui si manifesta il desiderio e insieme la violenza della società borghese. Mishima, al contrario, trasforma il corpo in una scultura vivente, un esercizio di disciplina e bellezza destinato a sublimarsi nell’atto finale del seppuku. Ma, se osserviamo attentamente, entrambi interpretano il corpo come l’ultimo spazio non recuperabile dalla modernità: per Pasolini esso è l’unica traccia di autenticità nel mondo omologato dei consumi; per Mishima è l’arma attraverso cui opporsi alla decadenza spirituale del Giappone postbellico.
Il loro rapporto con la modernità è segnato da una consapevolezza simile: la percepiscono come una forza distruttiva, invasiva, irreversibile, capace di annientare il sacro, il popolare, la tradizione, la differenza.
Pasolini denuncia l’espansione del capitalismo avanzato e la nascita di un nuovo fascismo tecnologico e culturale che uniforma i desideri e cancella le identità storiche; Mishima vede nella modernizzazione americana l’origine della perdita di spirito, del tradimento dell’antico Giappone e dell’oblio della bellezza tragica.
La loro critica alla modernità, pur muovendosi da posizioni diametralmente differenti, converge in una stessa diagnosi: il mondo contemporaneo ha espulso la possibilità del sacro e del mito, trasformando la vita in qualcosa di puramente funzionale, privo di quella dimensione drammatica che essi considerano essenziale. In entrambi, inoltre, la letteratura non è mai semplice rappresentazione ma gesto incarnato, drammatico, potenzialmente distruttivo.
Pasolini vive la poesia, il cinema e l’analisi politica come un modo di esporre se stesso, di farsi ferire dalla realtà e di ferire a sua volta le convenzioni borghesi. Mishima scrive romanzi, saggi, testi teatrali e sceneggiature con una tensione estetica e morale che vuole oltrepassare la pagina, trasformando l’esistenza in una performance. È come se entrambi rifiutassero l’idea dell’autore distaccato, scegliendo invece la via dell’intellettuale incarnato, che paga con la propria vita il prezzo della sua coerenza. E infatti sia la morte di Pasolini che quella di Mishima non possono essere interpretate come eventi isolati o casuali: sembrano, piuttosto, l’ultimo capitolo di una narrazione che entrambi hanno costruito con cura ossessiva.
Pasolini muore in circostanze oscure, in una periferia che somiglia alle tante che aveva raccontato; Mishima sceglie un gesto rituale, antico e radicale, nel cuore dell’istituzione militare che voleva risvegliare. Nel loro modo di morire si riflette la stessa scelta esistenziale: la vita come tragedia, la morte come compimento di un’estetica, la necessità di dare forma narrativa a ciò che narrabile non è. Anche sul piano dell’identità sessuale, Pasolini e Mishima rivelano un ulteriore terreno comune, seppur declinato in modi differenti. Entrambi vivono la propria omosessualità in una società incapace di accoglierla: Pasolini la affronta mettendola al centro della propria poetica, trasformandola in strumento di conoscenza del mondo socialista e sottoproletario; Mishima la avvolge nella disciplina della forma, nel culto della bellezza virile e nel simbolismo della morte. In entrambi i casi, la sessualità diventa un linguaggio attraverso cui elaborare il proprio dissenso e definire un’estetica della differenza. Infine, ciò che più li accomuna è l’idea della cultura come opposizione.
Nessuno dei due ha mai cercato il consenso: anzi, entrambi hanno abitato con consapevolezza la posizione dell’eretico, del disturbatore, del provocatore. Pasolini criticava la sinistra e la destra, il potere e gli oppositori del potere; Mishima criticava la democrazia e la tradizione, il modernismo e l’immobilismo, costruendo un pensiero che sfuggiva a qualsiasi definizione.
L’uno scelse la marginalità, l’altro la sovrabbondanza simbolica, ma entrambi rifiutarono la passività. Ogni loro gesto, dalla parola scritta al comportamento pubblico, era un atto di lotta, una richiesta di verità, una sfida al conformismo. Quando si leggono Pasolini e Mishima uno accanto all’altro, emerge una sorta di dialogo silenzioso: due voci profondamente diverse ma animate da un identico furore, due visioni del mondo che si oppongono e si riflettono, due estetiche del dissenso che cercano lo stesso punto di fuga. Il loro pensiero non è conciliabile, ma è innegabilmente parallelo: entrambi scrutano un mondo in declino, entrambi cercano un altrove, entrambi trasformano la propria vita in una forma artistica che culmina nel sacrificio. Ed è forse proprio questo il vero terreno di incontro: la convinzione che l’arte non sia un ornamento ma un destino, una ferita, un atto di verità che nessuna ideologia può addomesticare.
Pasolini che percorre le strade sterrate delle borgate e Mishima che scolpisce il proprio corpo come un tempio condividono la stessa urgenza di sottrarre qualcosa al caos della modernità, di affermare un principio irriducibile, di trovare un modo per restare umani in un secolo che tende a disumanizzare.
E proprio nella tensione tra radicalità politica, estetica della vita, ricerca del sacro, ossessione per il corpo e sfida al presente risiede l’affinità profonda che lega questi due giganti.
Non importa quanto lontani possano apparire sulla carta: entrambi hanno incarnato una forma estrema di intellettualità, un modo di essere nel mondo che non chiede compromessi, che vede nella bellezza e nella verità non valori astratti ma necessità vitali.
E in questo, forse, Pasolini e Mishima non sono affatto agli antipodi, ma due poli complementari di una stessa costellazione, due volti della tragedia contemporanea, due scrittori che hanno usato la propria vita come linguaggio e la propria morte come punto finale di un’opera che continua ancora oggi a interrogare chiunque cerchi nel pensiero un atto di libertà.





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