lunedì 9 giugno 2025

California Dreamin'


In questi primi giorni del giugno 2025, la California si è trasformata nel fulcro di una crisi politica e sociale senza precedenti. 
Le retate dell'ICE (Immigration and Customs Enforcement, ovvero l'Agenzia per l'Immigrazione e le Dogane degli Stati Uniti) a Los Angeles, culminate con oltre cento arresti nei quartieri popolari e a maggioranza ispanica come Compton, Paramount e il Fashion District, hanno scatenato proteste di massa. 
In una città già segnata da profonde diseguaglianze e tensioni razziali, l'operazione condotta con brutalità e senza alcun preavviso ha rappresentato la scintilla. Il giorno successivo, migliaia di persone sono scese in strada. Le proteste sono esplose anche a San Francisco, con centinaia di manifestanti che hanno bloccato l'accesso agli uffici dell'ICE e si sono poi riversati nel cuore finanziario della città. 
In entrambi i casi, l'intervento delle forze dell'ordine non ha fatto che alimentare la rabbia: gas lacrimogeni, proiettili di gomma e cariche indiscriminate hanno causato decine di feriti, inclusa una giornalista australiana colpita in diretta televisiva alla gamba da un proiettile di gomma.

Il presidente Trump, ignorando le richieste del governatore Gavin Newsom di mantenere la calma e rispettare l'autonomia statale, ha ordinato il dispiegamento unilaterale della Guardia Nazionale. Più di duemila militari sono stati dislocati nei punti strategici di Los Angeles, in particolare nella zona sud, mentre cinquecento marines sono stati posti in stato di allerta a Camp Pendleton. 
La sindaca Karen Bass ha definito l'intervento una "dichiarazione di guerra" contro la città. 
L'8 giugno, all'alba, i primi contingenti della Guardia Nazionale hanno preso posizione lungo le arterie principali. Il loro arrivo ha segnato un punto di non ritorno. Scontri violenti si sono verificati a Downtown, Echo Park, Boyle Heights. Manifestanti mascherati hanno eretto barricate, dato fuoco a veicoli e lanciato oggetti contundenti contro le forze dell'ordine. I militari hanno risposto con la forza: oltre 100 arresti, numerosi feriti tra civili, poliziotti e soldati. Scene simili a San Francisco, dove l'intervento dell'ICE ha innescato una guerriglia urbana nelle zone di SoMa e Mission District.


La situazione ha portato a una crisi istituzionale senza precedenti. Il governatore Newsom ha annunciato un'azione legale contro l'amministrazione federale, invocando il Posse Comitatus Act e accusando Trump di violazione della Costituzione. La Guardia Nazionale, teoricamente al servizio degli stati, è stata impiegata in modo coatto, trasformando le città in zone militarizzate. 
Intanto il segretario alla Difesa Pete Hegseth ha dichiarato che l'esercito è pronto a intervenire in caso di ulteriore escalation. Trump, dal canto suo, ha definito i manifestanti "criminali mascherati" e ha chiesto arresti indiscriminati, con il sostegno dei media conservatori che hanno descritto la situazione come un tentativo della sinistra radicale di sovvertire l'ordine.
Lo scenario che si profila è catastrofico. 
La militarizzazione delle strade, la sospensione dei diritti civili di fatto, l'erosione della sovranità statale e la delegittimazione delle autorità locali configurano un quadro da stato d'eccezione permanente. Le proteste, inizialmente pacifiche, stanno virando verso forme di resistenza organizzata. 
Gruppi di autodifesa stanno nascendo nei quartieri colpiti dalle retate, mentre circolano voci di armi acquistate per "difesa personale"
L'ombra della guerra civile aleggia sulla nazione. Se a questo si aggiunge il blocco delle infrastrutture, la fuga degli investitori, il crollo del turismo e l'esodo delle comunità più vulnerabili, il rischio è di un collasso sistemico.

La crisi investe anche il piano legale. I tribunali locali sono intasati da procedimenti legati agli arresti di massa. Gli avvocati per i diritti civili denunciano abusi sistematici, trattenimenti illegali, sparizioni temporanee. L'ACLU e Human Rights Watch hanno chiesto l'intervento dell'ONU. 
Il Dipartimento di Giustizia ha aperto un'inchiesta formale, ma i vertici sono spaccati tra chi sostiene la linea dura di Trump e chi teme derive autoritarie. 
Intanto, a Sacramento, il Parlamento statale ha approvato una risoluzione simbolica che dichiara la California "sotto assedio federale", con una maggioranza bipartisan.


Lo scontro tra poteri sta facendo emergere faglie profonde. Da un lato, un'autorità federale che si arroga il diritto di intervenire militarmente in uno stato senza consenso. Dall'altro, un governo locale che si oppone strenuamente, appellandosi a Costituzione, diritto internazionale e opinione pubblica. La frattura ricorda scenari da America pre-guerra civile, con milizie al posto dei cortei, sentenze in luogo di negoziati, eserciti schierati nei viali cittadini.
A tutto ciò si somma l'effetto mediatico: le immagini dei soldati in assetto da guerra, dei feriti, dei quartieri ridotti a macerie circolano sui social e in diretta, polarizzando ulteriormente l'opinione pubblica. Le reti progressiste denunciano "fascismo in diretta", mentre i media conservatori invocano il pugno di ferro contro "anarchici e illegali"
Lo stesso Trump ha rilanciato in diretta alcuni filmati distorti, alimentando la narrativa del caos.

Il parallelo con gli anni Settanta è inevitabile. I più anziani ricordano le proteste contro la guerra in Vietnam, le cariche, i morti tra gli studenti. Altri evocano i riot del '92 a Los Angeles dopo il pestaggio di Rodney King. 
Ma la novità di oggi è l'assenza di freni: una tecnologia che moltiplica l'impatto, un presidente che sfida apertamente la legalità e un'opinione pubblica stanca, divisa, radicalizzata.
Guardando alle immagini che giungono da Los Angeles e San Francisco, è impossibile non pensare al film Civil War di Alex Garland, di cui scrivevo solo un anno fa, opera da molti accolta come una provocazione visionaria. 
In quell’opera disturbante gli Stati Uniti, lacerati in una guerra interna che ha perso ogni connotato ideologico, sono ridotti a un teatro di violenza, paura e macerie, in cui il giornalismo diventa l’ultima testimonianza possibile della verità. 


Alex Garland immaginava un’America dove la frattura tra centro e periferia, tra potere e resistenza, esplodeva in conflitto aperto. Oggi quella finzione sembra sempre meno ipotetica. Strade militarizzate, città sotto assedio, leader politici che ignorano i limiti della legge e cittadini spinti a forme estreme di disobbedienza: tutto ciò che sembrava relegato al cinema di anticipazione si sta riversando nella realtà con una velocità allarmante.
Il paradosso è che a rendere credibile un film del genere non è stato l'eccesso di fantasia, ma il suo rigore quasi documentaristico. In Civil War, l’orrore non viene dalla catastrofe spettacolare, ma dall’assuefazione: la guerra civile americana non arriva con una deflagrazione, ma si insinua lentamente nel quotidiano, fino a renderla normale. Così anche oggi: la presenza di soldati nelle strade di Los Angeles non ha suscitato lo sdegno unanime che ci si sarebbe aspettati in un paese democratico. 
I proclami presidenziali che evocano il pugno di ferro contro i propri cittadini trovano ampio spazio mediatico e consensi. 
Le proteste vengono ridotte a ''minacce all’ordine pubblico'', e le città ribelli descritte come ''zone da pacificare''.
Se Civil War è stato un monito, è chiaro che in troppi lo hanno frainteso. 


E se la storia ci insegna qualcosa, è che le guerre civili non iniziano mai con dichiarazioni ufficiali, ma con gesti, decreti, silenzi e repressioni che si accumulano fino al punto di non ritorno.
 Forse quel punto è già stato superato. 
Forse stiamo assistendo non più alla cronaca di un'escalation, ma ai titoli di testa di un film che, stavolta, nessuno potrà più spegnere.



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