mercoledì 18 giugno 2025

Robert Johnson: Il Patto Col Diavolo e l’Anima del Blues


C’è un’eco che si insinua tra i campi di cotone del Mississippi, un lamento profondo che sale dalla terra arsa e scende negli abissi dell’anima. È il suono del blues, e ha il volto misterioso di un uomo che visse poco, cantò molto e scomparve presto.
Il suo nome è Robert Johnson, nato forse l’8 maggio del 1911 a Hazlehurst, nel cuore del profondo sud americano. 
Di lui sappiamo poco con certezza. 
I documenti sono scarsi, le testimonianze confuse, le fotografie solo due. Ma la leggenda, quella sì, è viva e brucia come il fuoco.
Il blues non è mai stato un genere per benpensanti. È la musica di chi è nato con il peso del mondo sulle spalle, di chi conosce la schiavitù, l’ingiustizia, la morte. Robert Johnson fu l’incarnazione di questo dolore. Ma fu anche qualcosa di più: un alchimista della sofferenza, un poeta maledetto capace di fondere folklore, disperazione e genio in dodici battute. 
Il suo nome oggi è inciso a lettere d’oro nella storia della musica, eppure in vita fu poco più di un’ombra, un vagabondo con una chitarra e una voce che graffiava l’eternità.

Il giovane Robert crebbe tra mille difficoltà. Figlio illegittimo, portava il cognome del patrigno Charles Dodds, ma col tempo tornò a farsi chiamare col nome del vero padre, Noah Johnson. La sua infanzia fu segnata dalla povertà e dalle migrazioni. Il blues, all’epoca, non era ancora leggenda ma realtà quotidiana, un modo di sopravvivere al duro lavoro nei campi, all’umiliazione razziale, al caldo soffocante del Sud.
Johnson fu un autodidatta affamato. Era attratto dalla chitarra come un uomo assetato dall’acqua. I primi maestri furono gli stessi che formavano quella scena seminale del Delta: Charley Patton, Son House, Willie Brown. Ma quando Robert cercò di suonare per loro, fu deriso. 
Son House stesso ricordava: ''Robert faceva piangere la chitarra. Ma di dolore, non di bellezza.''
Poi accadde qualcosa. 
Robert Johnson scomparve per circa un anno. Nessuno sapeva dove fosse. Quando tornò, aveva il fuoco nelle mani. 
Suonava come nessuno aveva mai suonato. 
Le dita correvano sul manico come spiriti in fuga dall’inferno. 
La voce era roca, profonda, stregata. 
La leggenda nacque così: Johnson era sparito per vendere l’anima al diavolo.


La storia del patto col diavolo è tra le più affascinanti del folklore musicale. Si racconta che Robert, disperato dal suo fallimento come musicista, si fosse recato a mezzanotte in un crocevia, probabilmente quello tra la Highway 49 e la 61, poco fuori Clarksdale, Mississippi. 
Lì, un uomo nero alto e vestito di nero, Lucifero in persona, secondo la leggenda, gli avrebbe accordato la chitarra in cambio della sua anima.
Da quel momento, Robert Johnson divenne il più grande chitarrista blues del Delta.
È facile liquidare la leggenda come una storiella. 
Ma c’è qualcosa di profondamente inquietante in quell’improvvisa metamorfosi, in quell’inspiegabile salto di qualità. Musicisti più giovani, come Eric Clapton o Keith Richards, hanno spesso dichiarato che ascoltare Robert Johnson significa ascoltare qualcosa di ultraterreno. 
Come se non fosse un solo uomo a suonare, ma tre o quattro. Come se ci fosse davvero un demone in agguato tra le sue dita.
Robert Johnson registrò solo 29 canzoni. 
Bastarono a renderlo eterno.

Due sessioni di registrazione, una a San Antonio nel 1936 e una a Dallas nel 1937. Tutto qui. Ma quelle incisioni sono l’equivalente sonoro di un vangelo apocrifo: testi intrisi di paura, desiderio, dannazione. Canzoni come Cross Road Blues, Hellhound on My Trail, Me and the Devil Blues, Love in Vain, titoli che parlano di incubi e solitudine, di donne fatali e demoni in agguato.
In Cross Road Blues, Johnson canta della sua disperazione per essere rimasto solo all’incrocio, senza nessuno che lo salvi. In Hellhound on My Trail, l’ossessione per essere braccato da forze oscure si fa lamento universale. È il canto di chi sa che la morte è dietro l’angolo. 
E che forse, in qualche modo, se l’è anche meritata.
Musicalmente, Robert Johnson fu rivoluzionario. La sua tecnica di fingerpicking, il modo in cui utilizzava il pollice per il basso e le dita per le melodie simultaneamente, creava un effetto orchestrale. Ma fu anche un innovatore lirico. Le sue canzoni non erano semplici blues da bar, ma vere e proprie narrazioni, piccole tragedie umane in tre minuti.


Johnson era un uomo inquieto. Viaggiava di città in città, suonando nei juke joint, dormendo per strada, vivendo di espedienti. Era noto per il suo fascino sulle donne, che spesso lo ospitavano e lo proteggevano. Ma questo talento per la seduzione fu anche la sua rovina.
Morì il 16 agosto 1938, a Greenwood, Mississippi. 
Aveva solo 27 anni. 
Le circostanze della sua morte restano avvolte nel mistero. La versione più accreditata vuole che fosse stato avvelenato da un marito geloso, che gli avrebbe servito una bottiglia di whisky corretta con stricnina. Robert si sentì male, si contorse per giorni, e alla fine spirò. Non ci fu autopsia, né funerale ufficiale. Fu sepolto in una fossa senza nome.
È da allora che il numero 27 ha cominciato a circolare come cifra maledetta, preludio di una fine precoce. Johnson fu il primo del cosiddetto “Club dei 27”, cui si sarebbero poi uniti Brian Jones, Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison, Kurt Cobain, Amy Winehouse.
Tutti morti alla stessa età. 
Tutti artisti che, come lui, avevano bruciato la vita a ritmo di musica.

Per decenni, nessuno si ricordò di Robert Johnson. I suoi dischi andarono perduti, le sue registrazioni dimenticate. Fu solo negli anni ’60 che il suo nome riemerse, grazie alla riscoperta del blues da parte del movimento folk e rock.
Bob Dylan, che nel 1961 trovò una copia di King of the Delta Blues Singers in un negozio di dischi, raccontò che fu una folgorazione. ''Sembrava suonasse per me, e solo per me.'' I Rolling Stones resero celebre Love in Vain, mentre Eric Clapton costruì un’intera carriera sull’imitazione reverente di Johnson, definendolo ''il più importante musicista blues mai esistito''.
Nel 1990, la Columbia pubblicò il cofanetto The Complete Recordings, che raccolse tutti i 29 brani noti e 12 alternate takes. 
Fu un successo inaspettato: vinse un Grammy e vendette oltre un milione di copie. Il fantasma di Johnson era tornato a camminare tra noi.


Ma cos’è che rende Robert Johnson così magnetico? Non solo la tecnica, non solo la voce. È il modo in cui i suoi testi scivolano nell’archetipo, nella mitologia. Johnson non scriveva canzoni, evocava incubi.
Nei suoi brani troviamo elementi pagani, cristiani, demoniaci. L’incrocio diventa simbolo di scelta e dannazione. Il treno, che attraversa molte canzoni, è veicolo di salvezza o perdizione. La figura femminile è sia madre che tentatrice. Il diavolo è sempre dietro l’angolo, ma non come figura caricaturale: è il riflesso della colpa, del desiderio, del dubbio.
Nel linguaggio del Delta, il blues è spesso criptico. I doppi sensi, le allusioni, le metafore sono armi poetiche. 
Robert Johnson le padroneggia tutte. È come se fosse stato, a sua insaputa, un Rimbaud afroamericano: un veggente autodidatta che ha toccato il fondo per cantarlo meglio.
Ad oggi, non sappiamo dove sia sepolto davvero Robert Johnson. Ci sono almeno tre lapidi, sparse in differenti contee del Mississippi, ognuna delle quali rivendica il diritto di ospitare le sue ossa. È come se anche la sua morte fosse destinata a restare ambigua, irreperibile, sfuggente.

Anche la sua identità è ancora oggetto di studi. Alcuni musicologi si sono spinti a sostenere che in alcune registrazioni Johnson abbia alterato intenzionalmente il timbro della voce per apparire più giovane o più vecchio. Altri avanzano teorie secondo cui alcune sue composizioni siano in realtà arrangiamenti di brani popolari mai registrati. La verità, come sempre con Johnson, è avvolta nella nebbia.

Nel 2025, parlare di Robert Johnson significa parlare del cuore oscuro dell’America. La sua figura rimane scomoda, irrisolta, incendiaria. È stato afroamericano in un’epoca in cui esserlo significava spesso essere invisibili. Ha parlato con la voce dei dannati e ci ricorda che la musica vera nasce dall’imperfezione, dal dolore, dalla carne. Non c’è trucco, non c’è filtro, solo un uomo, una chitarra e una voce che grida contro il buio.
E forse è proprio questo che lo rende eterno. Non il mito del diavolo, non il romanticismo della morte giovane, ma la verità bruciante della sua arte. Un’arte che ci costringe a guardare dentro di noi, dove si annidano i nostri demoni.
A distanza di quasi un secolo, la chitarra di Robert Johnson continua a suonare. Lo fa nelle corde di chiunque abbia mai provato a cantare il blues. Lo fa nei locali di New Orleans e nelle stanze d’albergo di Memphis. Lo fa nei giradischi impolverati dei collezionisti, nei festival rock, nei documentari, nei meme.

Ma soprattutto lo fa in quel crocevia. Sempre lì, tra la Highway 49 e la 61. 
Dove un ragazzo con la chitarra forse vendette l’anima per diventare leggenda. O forse no. Forse era solo troppo bravo per essere capito. 
E allora, come spesso accade, si preferì dire che aveva fatto un patto col diavolo.
Perché è più facile credere nel diavolo che nel talento puro.



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