Le quattro stagioni interiori di giugno: tra jazz metamorfico, folk ultraterreno e punk esistenziale
Giugno 2025 si è rivelato un mese denso, stratificato, quasi terapeutico per chi ancora cerca nella musica non solo intrattenimento, ma risposte. Le nuove uscite discografiche più rilevanti non si somigliano affatto per forma, stile o intenzione, ma condividono un’ambizione rara nel panorama contemporaneo: quella di scandagliare il tempo interiore, il trauma, la memoria, la ricerca di senso. Dai Gogo Penguin ad Alan Sparhawk, dai Turnstile ai Wandering Hearts, ci troviamo di fronte a quattro opere che non si accontentano di suonare bene. Vogliono dire qualcosa. E, con ogni nota, ci riescono.
Gogo Penguin – Necessary Fictions
Con Necessary Fictions, i Gogo Penguin proseguono la loro parabola evolutiva in direzione di un jazz sempre più liquido, ipnotico, e meno vincolato alle definizioni di genere. Il titolo stesso è un ossimoro raffinato che riflette l’intero impianto concettuale dell’album: la finzione – necessaria, vitale – come unico modo di sopravvivere a una realtà che sfugge alle categorie stabili.
Il trio di Manchester abbandona qualsiasi tentazione virtuosistica per concentrarsi sull’essenziale: groove circolari, atmosfere rarefatte, silenzi che diventano protagonisti quanto le note. Il piano di Chris Illingworth non si limita a guidare le melodie, ma scolpisce lo spazio come uno scalpello invisibile, mentre basso e batteria generano un’architettura ritmica che pare fluttuare tra post-rock, ambient e minimalismo classico.
È un disco che si ascolta come si attraversa una foresta nebbiosa: a ogni passo si perde qualcosa e si scopre qualcosa d’altro. La sensazione finale non è quella di un arrivo, ma di un transito, come se la musica stessa si rifiutasse di chiudere il cerchio per permettere all’ascoltatore di completarlo da sé.
Alan Sparhawk with Trampled by Turtles – Alan Sparhawk with Trampled by Turtles
Il ritorno di Alan Sparhawk, dopo la tragica scomparsa della moglie Mimi Parker e la conseguente pausa dei Low, è uno degli eventi più emotivamente carichi dell’anno musicale. Questo nuovo progetto con i Trampled by Turtles non è solo una collaborazione, ma una sorta di rito di passaggio, una liturgia del dolore che diventa canto.
Il suono è radicalmente diverso da quello dei Low: qui si intrecciano le radici del bluegrass con un’anima folk desolata, intimista, quasi biblica. Le armonie vocali, il calore degli strumenti acustici, la forza tellurica del violino e del banjo, tutto contribuisce a creare un mondo sonoro in cui la perdita non è negata, ma accolta. È un album che non piange, medita. Che non esplode, pulsa.
Sparhawk canta come chi ha attraversato la fine del mondo e ne è uscito nudo, disilluso, ma non senza fede. Non una fede religiosa, ma una fede nell’umano, nella possibilità che la bellezza possa ancora esistere anche quando tutto il resto è crollato. È un lavoro che sussurra e non grida, che resta con te a lungo, come una conversazione che non sai dimenticare.
Turnstile – Never Enough
In un’epoca in cui molte band hardcore si rifugiano in formule nostalgiche o si disperdono in esperimenti incerti, i Turnstile alzano la posta e pubblicano un album che ha il coraggio di cambiare pelle senza perdere la propria identità. Never Enough è un titolo che suona come un grido e una confessione: l’urgenza emotiva non basta mai, l’energia non è mai sufficiente a contenere il caos interiore.
Il disco è una miscela esplosiva di hardcore, punk melodico, post-rock e perfino psichedelia. Ma la cosa più sorprendente è il controllo, la chiarezza con cui ogni elemento è orchestrato. Non c’è dispersione, non c’è decoro gratuito: ogni brano sembra essere stato limato fino all’osso per restituire solo ciò che conta.
Brendan Yates canta come chi ha trovato una nuova voce dentro un corpo che si spezza. Le chitarre non si limitano a spingere in avanti: fluttuano, costruiscono paesaggi sonori che sembrano voler contenere la furia anziché scatenarla. È un disco di crescita, di transizione, di liberazione.
I Turnstile dimostrano che si può restare fedeli alla propria anima anche cambiando tutto.
Never Enough non è solo un titolo, è una dichiarazione esistenziale: ciò che ci basta oggi, domani non basterà più.
E va bene così.
The Wandering Hearts – Déjà Vu (We Have All Been Before)
I Wandering Hearts tornano con un progetto audace e profondamente rispettoso: la reinterpretazione integrale di uno dei capisaldi del rock degli anni '70, Déjà Vu di Crosby, Stills, Nash & Young, album leggendario entrato di diritto nella storia della musica. Ma non si tratta di una semplice operazione nostalgica: Déjà Vu (We Have All Been Before) è un vero e proprio remake spirituale, che rilegge l’opera originale con sensibilità contemporanea, evitando l’insidia del tributo calligrafico.
L’intero album è costruito come un viaggio ciclico, un ritorno al punto di partenza che non è mai davvero lo stesso. Le armonie vocali – il tratto distintivo della band – raggiungono qui un equilibrio sublime: ogni voce è una sfumatura, ogni coro una rivelazione.
Tematicamente, l’album resta fedele all’originale nelle intenzioni, ma ne amplifica la dimensione onirica e sciamanica, rendendola ancora più adatta al presente. Anche nei momenti più solenni, la scrittura, arricchita da arrangiamenti che mescolano folk, country e accenni elettronici, resta asciutta, intensa, vibrante. Le ballate più lente hanno la forza magnetica di una preghiera pagana; i brani più ritmati evocano un’America immaginaria, che potrebbe esistere solo nella mente di un sognatore malinconico.
È un disco che ha il coraggio di parlare al cuore senza scorciatoie, senza ironia, senza smancerie. E per questo colpisce nel profondo. Un’opera matura, sincera, necessaria.
Un omaggio che si fa reinvenzione, e che restituisce a Déjà Vu la sua vocazione eterna: quella di un’eco che attraversa i decenni per tornare a vibrare, sempre uguale e sempre nuova.
Giugno ci consegna non una stagione discografica, ma quattro stagioni interiori. Necessary Fictions è l’inverno rarefatto della riflessione, Never Enough è l’estate esplosiva della ribellione, il lavoro di Alan Sparhawk è l’autunno del lutto e della ricostruzione, Déjà Vu è la primavera spirituale del ritorno.
Ognuno di questi dischi offre una risposta diversa alla stessa domanda: cosa resta, oggi, quando tutto sembra già stato detto? La risposta, per fortuna, è la musica stessa. Resta la possibilità di tornare a credere, anche solo per il tempo di una canzone.
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