martedì 10 settembre 2024

La guerra di Wim Van Hanegem

 


"Avrei voluto anche spezzare una gamba a Berti Vogts perché era un bastardo arrogante come tutti i tedeschi e sono ancora convinto che avessimo ragione noi. I nazisti hanno sterminato la mia famiglia e finché respiro avrò un conto in sospeso con loro" (Wim van Hanegem)

Era l'estate del 1974, un'epoca nella quale era davvero molto raro poter vedere trasmesse in tv partite di calcio internazionali, e quindi ero impaziente di potermi godere le dirette delle partite dei Mondiali, che in quell'anno si tenevano in Germania.
Sarà forse perchè si tende a mitizzare i momenti vissuti nell'età dell'adolescenza ma ancora oggi, mi entusiasma pensare al fatto di aver assistito a qualcosa di veramente rivoluzionario.
Una nazionale composta da giovani dai capelli lunghi che vestiva maglie arancioni (questo aspetto fu scoperto solo grazie alle riviste visto che la tv trasmetteva in bianco e nero), definita l'"Arancia Meccanica", e che con il suo gioco così nuovo e diverso rispetto a quello sino a quel momento conosciuto, rispecchiava pienamente le istanze libertarie del periodo.
Ricordo soprattutto una gara in particolare, quella contro l'Argentina, con i calciatori di quest'ultima che, nell'arco degli interi novanta minuti, non riuscirono in alcun modo a fermare gli olandesi.
Detto che l'Olanda, come Narciso, forse specchiandosi troppo nella propria bellezza, perse la finale contro la Germania, voglio raccontare la storia di uno dei suoi giocatori più forti, Willem "Wim" Van Hanegem.


1944. Siamo a Breskens, un villaggio di pescatori nel sudovest dell'Olanda, affacciato sulla Schelda, il fiume che nasce in Francia entra in Belgio e trova il Mare del Nord scorrendo a ovest dei Paesi Bassi,in quella parte d’Europa che tiene dentro tutto, Olanda, Belgio, Francia, e che ha pagato la sua collocazione con i peggiori massacri delle due guerre mondiali.
Ad accompagnare il percorso del fiume con un dito troviamo la linea Sigfrido, quello che nei termini calcistici di una volta chiameremmo l’estremo baluardo di Hitler contro l’avanzata degli Alleati dopo lo sbarco in Normandia. 
La conquista del porto di Anversa è una delle necessità assolute delle forze che combattono nel Terzo Reich. Un compito che viene affidato all’armata canadese. La battaglia della Schelda dura oltre un mese ma, come spesso accade nella seconda guerra mondiale, è una resa dei conti, un atto finale preceduto da settimane di bombardamenti a tappeto che hanno il solo obiettivo di fare terra bruciata al nemico e l’effetto collaterale di uccidere decine, centinaia, migliaia di civili.
E' la notte dell’11 settembre 1944. 
Gli aerei della Luftwaffe partono direttamente dalla Germania. 
Non è un bombardamento come gli altri. 
Non finisce più, i caccia passano una due tre volte su Breskens, che ha il solo torto di stare su quel fiume così importante perché risale fino ad Anversa.
I Van Hanegem sono una piccola impresa a conduzione familiare. Sono arrivati alla terza generazione; significa che sono lì da sempre, da quando quella terra venne strappata al mare; sono tanti e vivono in due casolari affacciati sul porto. 
Il 20 febbraio di quell’anno hanno festeggiato la nascita insperata e quasi fuori tempo massimo dell’ultimo di sette figli. Si chiama Willem.
Le bombe non lasciano scampo quasi a nessuno e alla fine si conteranno 199 vittime, un quinto della popolazione dell’epoca. 
I Van Hanegem muoiono quasi tutti. 
Muore il padre che ha dato il suo nome a quell’ultimo arrivato. Muoiono i tre figli grandi, uno zio e altri cugini. Otto membri della famiglia in tutto. 
Si fa prima a dire chi si salva: la madre, il piccolo Willem, i suoi fratelli che vengono portati via e messi in salvo in una casa colonica abbandonata appena fuori dal villaggio mentre i grandi della famiglia muoiono cercando di salvare le loro attrezzature.
Al mattino arriva la Wehrmacht. I corpi delle vittime vengono seppelliti frettolosamente in una fossa comune. L’ultimo dei Van Hanegem non avrà mai una tomba dove piangere suo padre e i suoi fratelli maggiori.


Quando Wim, questo il suo soprannome, ha due anni, la madre si trasferisce a Utrecht. I Van Hanegem superstiti sono poveri. Il più piccolo va poco a scuola, fa mille lavoretti e gioca a pallone in una squadra di quartiere. 
Fa provini ovunque, anche all’Ajax, dove Rinus Michels, l’inventore del calcio globale che diventerà suo allenatore in Nazionale del 1974, lo boccia giudicandolo molto lento e altrettanto sgraziato. 
A 16 anni è ancora lì, nella periferia del calcio che conta. 
Un giorno l’allenatore del Velox, la terza squadra di Utrecht, sta allenando i portieri. Accanto alla porta c’è Wim che osserva e intanto stoppa e rilancia tutti i palloni che gli passano intorno.
“Sembrava che avesse un piede radiocomandato“, racconterà poi il suo scopritore. 
La sua carriera comincia in ritardo ma decolla subito: promozione in serie B olandese, cessione in Eredivisie, gol decisivo nel dicembre del 1967 che spezza l’imbattibilità del Feyenoord che durava dal campionato precedente e conseguente acquisto pressoché immediato del reprobo da parte del club di Rotterdam.
Sta nascendo il calcio totale olandese figlio del ’68 e di una anarchia destinata a diventare sistema. In lingua calcistica si può tradurre così: una generazione di fuoriclasse quasi irripetibile guidata dai due Johann, il primo e più importante è Cruyff, il secondo corre per tutti e si chiama Neeskens. 
Giocatori tecnici, raffinati, addirittura troppo al punto da specchiarsi spesso nella loro bellezza, che sanno fare tutto a cominciare dal controllo di palla e che ben presto verranno chiamati i brasiliani d’Europa.
Wim Van Hanegem è diverso. Non è bello, anzi.
I giornalisti gli daranno un soprannome che gli resterà attaccato per sempre: il gobbo. Van Hanegem ha le spalle ricurve e le gambe storte, litiga con tutti i suoi allenatori, ha un carattere feroce, sta sempre sulle sue e quando parla è sarcastico, fa battute cattivissime, con l'espressione del viso quasi sempre segnata dall’incazzatura, un po’ come il cielo di Rotterdam sopra il De Kuip, quando il Feyenoord entra in campo sotto il canto rabbioso dei portuali; il padre e tre fratelli uccisi dai tedeschi.
Nel vocabolario dell’anima, bastardo, nazista e tedesco sono per lui sinonimi, come se la Storia sovrappostasi alla Seconda Guerra mondiale non fosse mai esistita. 
Quando colpisce il pallone con l’esterno del piede sinistro è come se Rotterdam riuscisse a rubare ad Amsterdam qualche tela di Van Gogh. 
Perché se è vero che sarà l’Ajax a caratterizzare gli anni settanta dominando il decennio in Europa come in patria, bisogna sempre ricordarsi che la prima Coppa dei Campioni in Olanda ce la porta il Feijenoord nel 1970, battendo il Celtic a San Siro.
Apre il gioco con parabole arcuate, van Hanegem, imprevedibili quando nascono e precise per il punto previsto all’arrivo; fa rinascere l’azione dopo averla ricollocata prima nella sua mente. 
È un giocatore concettuale, anche se picchia come un fabbro; cerebrale nel capire il gioco ancora prima di impostarlo. A questa evidenza si arrende persino Rinus Michels, che forse all’inizio della sua esperienza da commissario tecnico non lo considera imprescindibile per la sua Olanda, imperniata sul blocco dell'Ajax.


1974, Finale dei Mondiali di Calcio.
30 anni dopo il bombardamento di Breskens, i tedeschi sono ancora lì: sempre i più adatti per farsi odiare; sempre bastardi e nazisti per Wim, tutti; dal primo all’ultimo. 
Stavolta però se li trova davanti sul loro suolo; stavolta il mondo da conquistare è soltanto inciso nell’oro di una coppa. Soltanto? 
Forse per gli altri, per ogni suo compagno di squadra; per lui è come se quei trent’anni non fossero mai trascorsi, per quel pezzo di vita che gli avevano estirpato quando aveva dieci mesi di vita. Non è un modo di dire: se potesse li ucciderebbe tutti, da Beckenbauer fino all’ultimo tifoso seduto nel punto più lontano dal terreno di gioco. 
Anche se la partita con la Germania è tutto, fuorché un gioco, per Wim van Hanegem, che a un certo punto, dopo il vantaggio firmato da Neeskens, si ferma a palleggiare a centrocampo, per irridere tutta la Germania.
Sappiamo poi come andò a finire:alla fine anche il mondiale più arancione della storia lo vinsero i tedeschi, anche se tutti continueranno a parlare dell’Olanda, che dopo aver annichilito la partita non l’ha saputa uccidere, perché quello lo fanno loro, i nazisti: per la seconda volta nei suoi trent’anni di vita Willem van Hanegem subisce questo verdetto, senza vittime da piangere per fortuna, ma con una delusione che ricorda le bombe, il suolo occupato, i morti pianti in ogni casa. 
Altrimenti il telecronista olandese,  Herman Kuiphof, non direbbe “Ci hanno fregati ancora!”, col tono dolente di un popolo intero, che ha arginato il mare ma non la frustrazione di trovarsi davanti quelli là, che siano in uniforme o con i tacchetti sotto le suole.
Wim non ha medaglie da ritirare, non cerimonie da rispettare. 
Wim quando l’inglese fischia svanisce nel sottopassaggio, con la testa incassata nelle spalle, le gambe arcuate e possenti, nel cuore qualcosa che solo lui potrebbe raccontare, senza sapersela strappare di dosso, finché avrà vita.
Al banchetto celebrativo della Coppa del mondo, dove dovrebbero presenziare le due nazionali al completo, l’Olanda conta un posto vuoto; un bambino di Breskens è ancora in fuga dai bastardi.
Ancora oggi, quando si spendono aggettivi per un centrocampista e lo si definisce “completo”, bisognerebbe prima ricordarsi ciò che di van Hanegem disse Dick Advocaat, quando definì un incubo giocarci contro: “Ti insultava dal primo all’ultimo minuto, dava calci e gomitate, ti graffiava sulla schiena“
E subito dopo ricordare cosa di lui disse Mario Corso, indimenticata ala sinistra dell'Inter: “Gli altri lanciavano nello spazio; lui, gli spazi li creava”.


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