lunedì 23 giugno 2025

La grande illusione

 

''Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare…''

Ma non è il ricordo delle navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione, nè il balenare nel buio di raggi B vicino alle porte di Tannhäuser.
Sono i volti scomparsi dei miei amici, le marce studentesche che oggi sembrano folklore, le speranze incise su vinile e finite nell’armadio insieme alla giacca di pelle. Sono nato nel 1960, ma potrei essere nato nel ’63, o nel ’66. Quelli come me sono figli di un sogno e orfani di una fine.
Ricordo tutto. Troppo.
E non riesco a dimenticare.

Quando aprii gli occhi per la prima volta, il mondo era un luogo in bianco e nero che si colorava a poco a poco. La televisione raccontava l’allunaggio, gli uomini parevano capaci di volare e le strade delle città respiravano un’aria nuova. C’erano ancora gli strascichi del boom economico, ma si cominciava a percepire che il benessere non bastava più. Noi bambini osservavamo gli adulti mentre parlavano di rivoluzione, di Vietnam, di Che Guevara, come si guarda un fiume in piena.


Fu in quegli anni che cominciai a sentire una promessa sussurrata ovunque, una promessa che non veniva da Dio né dallo Stato, ma da qualcosa che abitava le canzoni, i libri, i muri imbrattati delle scuole. La promessa che il mondo si poteva cambiare.

“There must be some way out of here, said the joker to the thief”

(Bob Dylan, “All Along the Watchtower”)

Gli anni ’70 furono selvaggi e dolcissimi. A quindici anni scrivevo poesie su quaderni che non sarebbero mai stati letti, fumavo le prime sigarette guardando Jesus Christ Superstar con gli occhi pieni di commozione e rabbia. Poi arrivarono le assemblee, i collettivi, le manifestazioni con le facce coperte e il cuore scoperto.

Credevamo in tutto. Nella liberazione sessuale, nella pace, nella rivoluzione proletaria, nella musica come strumento di lotta. E soprattutto credevamo nella parola “futuro”.

“Siamo stanchi di essere giovani per sempre, ma non vogliamo diventare come voi”

(Pier Paolo Pasolini, intervista del 1975)

Eravamo ancora vivi il giorno in cui Pasolini venne ammazzato. Una parte di me, forse, morì quella notte. Gli altri continuarono a gridare, a sperare. Gli anni ’80, per quanto abbiano cercato di lavarli via con l’edonismo e i paninari, per noi non furono solo yuppies e consumismo.
Per chi veniva dalla lotta, l’utopia si faceva introspezione.
Ascoltavamo David Bowie e pensavamo che “Heroes” fosse una preghiera laica.
Leggevamo Calvino e Tondelli, e il nostro cuore cercava ancora una via.
Lavoravamo, spesso precari, ma con l’idea che “qualcosa” sarebbe comunque successo.


Il muro di Berlino cadde con un boato che non sapevamo se festeggiare o temere. La Storia era finita, dissero. Ma finì anche qualcosa in noi.

Negli anni ’90 cominciammo a sentire un vuoto strisciante. Il lavoro diventava sempre più flessibile, cioè instabile. 
La politica si trasformava in marketing. 
La televisione iniziava a parlare da sola, senza bisogno di ascolto. 
Ci vendettero l’idea che la libertà fosse scegliere tra dieci marche di detersivo.
Era come se tutto ciò che avevamo amato, l’arte, la musica, le parole, venisse digerito, sterilizzato, rimesso in vendita. 
Le canzoni dei nostri vent’anni diventavano jingle pubblicitari. I nostri idoli morivano di overdose, o finivano in talk show con i botulini in faccia.
E noi? Noi invecchiavamo, spesso senza accorgercene, sperando che almeno i nostri figli potessero raccogliere qualche frammento.
Ma i nostri figli ascoltavano la techno e si fotografavano con i cellulari.


Il 2001 fu una cesura. Le Torri Gemelle cadevano, e insieme a loro cadeva la nostra illusione che il mondo, dopotutto, potesse essere un posto giusto. Tornarono le parole “guerra”, “nemico”, “patria”. Ma in versione digitale, in alta definizione, in diretta TV.
Dalla mia TV vidi le immagini di Baghdad bombardata come un videogioco. 
Le bombe intelligenti, gli attacchi preventivi. 
E di nuovo i bambini sotto le macerie. 
Di nuovo le lacrime. 
Di nuovo l’orrore.

''La guerra non è che la continuazione della politica con altri mezzi''
                                                                                                            (Carl von Clausewitz)

Ma questa non era nemmeno più politica. Era pura manifestazione  potere. Era un algoritmo. Era una narrazione totalitaria.
Cominciai a disconnettermi. 
A spegnere la televisione. 
A riascoltare The Wall.
A riprendere in mano L’uomo in rivolta di Camus.

Ma intanto fuori, la società diventava una giungla. Chi perdeva il lavoro era colpevole. Chi emigrava era nemico. Chi parlava di pace era considerato un debole.


Oggi ho sessantacinque anni. 
E ho paura.
Perché sento nelle parole dei giovani l’eco delle frasi che ascoltavo dai fascisti ai tempi del liceo.
Perché vedo nel linguaggio del potere i germi del totalitarismo.
Perché la guerra è tornata, come una malattia che non si riesce mai a debellare.
E nessuno si indigna più.
Quello attuale è un fascismo tiepido, elegante, senza divise né manganelli: è un algoritmo che decide cosa pensi, è un meme che trasforma il dolore in risata, è un’app che ti insegna ad avere paura di chi è diverso.

''Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario''
                                                                                        (Primo Levi)

E allora cerco di ricordare, scrivere, parlare. 
Ma chi ascolta? I miei coetanei sono stanchi, presi dal mutuo o dalla prostata. 
I ragazzi guardano gli influencer e ridono di tutto.
Resta la musica.
La musica, almeno, non mente mai.


Non sono un eroe. Non sono un reduce. Sono solo uno che ha visto passare le stagioni e ha amato l’idea di un mondo migliore.

Mi illusi, sì. Ma che vita sarebbe stata senza quelle illusioni?
Oggi, quando cammino per strada e vedo un bambino che gioca, penso ancora che forse valeva la pena.
Che forse il nostro compito non era vincere, ma resistere.
E tramandare il sogno, come una fiaba che nessuno racconta più.
Scrivo queste righe con la voce spezzata e il cuore gonfio.
Chi vuole capire, capirà. Gli altri continueranno a scrollare.
E io me ne andrò, lentamente, con Lou Reed nelle orecchie.

''You're gonna reap just what you sow''

                                                (Lou Reed, “Perfect Day”)

 

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