Il potere odia le parole perché non può governarle.
E allora mette il bavaglio, schiaccia il respiro, trasforma la letteratura in arma e lo scrittore in bersaglio. L’ha fatto ancora una volta: Boualem Sansal, 80 anni, uno dei più grandi autori della modernità postcoloniale, è stato condannato in via definitiva a 5 anni di carcere per aver detto la verità, o almeno la sua verità, sul labirinto storico dell’Algeria.
Il reato? Pensare. Scrivere. Parlare. Avere memoria.
Il processo di appello si è svolto il 1° luglio.
Pochi minuti, nessuna possibilità reale di difesa, condanna confermata: 5 anni di reclusione e mezzo milione di dinari di multa.
Non importa se sei vecchio, se sei malato, se hai dato al mondo interi romanzi capaci di sfidare il fondamentalismo, il razzismo, il nazionalismo.
Il potere vuole il silenzio, non i maestri.
Il vero problema non sono le parole di Boualem Sansal, ma ciò che esse rappresentano: un pensiero non allineato, un sapere non omologato, una coscienza critica che rifiuta l'oblio di Stato.
I capi d’accusa sembrano usciti da un manuale della peggiore repressione anni ’70: attentato all’unità nazionale, offesa alle istituzioni, atti dannosi per l’economia nazionale, propaganda ostile, disseminazione di video.
Tutto e niente.
Un frullato ideologico per imbavagliare un uomo che non si è mai piegato.
Il casus belli? Un’intervista rilasciata nell’ottobre 2024 alla rivista Frontières, in cui Sansal metteva in discussione i confini storici tra Algeria e Marocco, accusando il regime algerino di aver creato artificialmente il Fronte Polisario (organizzazione politica e militare che lotta per l'indipendenza del Sahara Occidentale, territorio rivendicato anche dal Marocco. Fondato nel 1973, il Fronte Polisario ha combattuto contro la Spagna, poi contro il Marocco e la Mauritania per il controllo del Sahara Occidentale. Dal 1976, il Fronte Polisario ha proclamato la Repubblica Democratica Araba Sahrawi (RASD), di cui è considerato il governo in esilio) per destabilizzare il governo di Rabat.
Verità? Opinione? O semplice provocazione intellettuale?
Non importa.
L’Algeria ufficiale non ammette sfumature.
Preferisce le galere.
Per capire la violenza di questa condanna, bisogna sapere chi è Boualem Sansal.
Non uno scrittore qualsiasi. Non un oppositore qualunque. Non un dissidente da talk-show. Ma un artigiano della parola che ha costruito romanzi come barricate, memorie come armi contro l’oblio.
Ha esordito tardi, nel 1999, quando la guerra civile algerina sputava ancora sangue e silenzi. Il suo primo romanzo, Il giuramento dei barbari, era una fossa comune di corpi e coscienze. Da allora, Sansal ha attraversato l’inferno con una penna in mano: fondamentalismo, islamismo, militarismo, colonialismo, antisemitismo, rimozione, ipocrisia.
Ha detto tutto ciò che non si doveva dire.
Quando pubblicò Il villaggio del tedesco, romanzo che metteva a confronto nazismo e jihadismo islamico, lo Stato lo censurò, ma il mondo cominciò ad ascoltarlo.
Non fu una voce facile, non piacque alla sinistra francese né alla destra identitaria. Sansal è sempre stato uno straniero ovunque: in Algeria, dove lo odiano; in Francia, dove lo usano; nei salotti letterari, dove si preferisce il decoro alla verità.
Eppure i suoi libri sono stati premiati ovunque: Prix de la Paix a Francoforte, Grand Prix de l’Académie française, Prix Méditerranée.
Persino il premio mondiale Cino Del Duca nel 2025, che ha provocato l’ira fredda delle autorità algerine: “Un riconoscimento al terrorismo mediatico”, dissero.
Come se scrivere fosse un attentato.
Come se raccontare la storia significasse volerla distruggere.
In Algeria il passato è una malattia da rimuovere.
Dopo la guerra d’indipendenza del 1962, il Paese ha costruito una mitologia nazionale fatta di eroismo unilaterale, martirio selettivo, e nemici eterni: la Francia coloniale, il Marocco monarchico, gli intellettuali critici.
Chi prova a raccontare un’altra storia viene etichettato come “traditore”, “venduto all’Occidente”, “nemico interno”.
Ma la verità non ha bandiera.
Sansal lo sapeva bene. Ha sempre rifiutato la retorica dell’indipendenza assoluta, l’auto-assoluzione della Nazione, il culto dei martiri senza analisi dei carnefici.
Ha denunciato la collusione tra potere militare e fondamentalismo, l’utilizzo dell’Islam politico come strumento di controllo delle masse.
Nel suo saggio Gouverner au nom d’Allah aveva scritto:
''L’islamismo è un totalitarismo travestito da religione: un potere teocratico che soffoca l’individuo per meglio servire lo Stato.''
Un anatema. Una bestemmia. Un suicidio civile.
Nel 2024, Sansal ha ottenuto la cittadinanza francese. Non per gusto borghese, ma perché sua moglie, malata, necessitava di cure migliori. Ha diviso la sua esistenza tra due Paesi che lo hanno entrambi tradito: l’Algeria che lo imprigiona, la Francia che lo esibisce ma non lo difende.
Parigi ha espresso preoccupazione per la condanna. Macron si è limitato a dire che “la libertà di espressione deve essere rispettata”. Poi più nulla.
Nessuna pressione diplomatica.
Nessuna reale volontà di salvare l’uomo, oltre che il simbolo.
La verità è che Sansal dà fastidio anche in Europa: troppo laico per gli islamisti, troppo lucido per gli intellettuali salottieri, troppo spietato per chi ama i buoni oppressi e i cattivi oppressori.
E allora eccolo, un vecchio scrittore che nessuno vuole difendere davvero, rinchiuso in una prigione algerina perché ha osato dire che i confini sono una costruzione coloniale, che le guerre non sono mai pure, che l’islamismo e il nazionalismo sono fratelli siamesi.
Dove sono oggi gli intellettuali francesi e europei? Dove sono i premi letterari, le fondazioni per la libertà d’espressione, i festival internazionali? Dove sono gli editoriali dei quotidiani cosiddetti progressisti, le manifestazioni davanti all’ambasciata?
Il caso di Boualem Sansal non è solo una questione algerina. È un termometro geopolitico. È la prova che la libertà di parola è un lusso condizionato, non un diritto universale.
Sansal è scomodo anche in Occidente. È il tipo di autore che dice cose complicate nei tempi sbagliati. Non serve a creare consenso, non semplifica, non rassicura.
E allora è più comodo lasciarlo lì, dentro una cella, con la sua malattia e i suoi libri, in attesa che la morte risolva il problema.
Ma non morirà il suo pensiero.
Perché le parole vere hanno una memoria lunghissima.
L'Urlo è con lui.
Con i dissidenti, i poeti, i narratori dell’inferno.
Con chi si ostina a raccontare anche quando la cella è già pronta.
Con chi ha fatto della letteratura non un mestiere, ma un rischio.
Libertà per Boualem Sansal. Libertà per la verità. Libertà per le parole.
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