mercoledì 1 ottobre 2025

Ridere pensando


Giorgio Gaber non è stato un cantautore. 
O almeno, non è stato solo questo. 
Definirlo in questo modo sarebbe come dire che Pasolini è stato un regista o un poeta, ma non un pensatore. Eppure, per lungo tempo, l’opera di Gaber è stata relegata a quella nicchia rassicurante in cui si confinano gli artisti che hanno avuto successo senza fare troppo rumore. Gaber è stato molto più di un musicista: è stato un intellettuale nel senso più alto e nobile del termine, uno di quelli che non predicano da un pulpito ma che si immergono nella carne viva del loro tempo per restituirne contraddizioni, ipocrisie, trasformazioni. Proprio come Pasolini, Gaber ha denunciato il vuoto crescente della modernità, l’erosione dei valori, la disintegrazione dell’etica pubblica, la morte della coscienza collettiva. Ma a differenza di Pasolini, Gaber ha scelto il teatro, non la pagina; la canzone, non il saggio; la voce, non il giornale. Questa scelta non lo rende meno incisivo: al contrario, lo rende più diretto, più universale, più pericoloso.
La nascita del Teatro-Canzone è stata una rivoluzione silenziosa ma dirompente. Insieme al pittore e amico Sandro Luporini, Gaber ha dato forma a uno spazio scenico che non aveva precedenti: non uno spettacolo musicale, non una serie di monologhi, ma un campo di battaglia tra l’io e il mondo. Ogni serata diventava un esercizio di coscienza, un processo alla società e insieme un processo a sé stessi. Gaber non si è mai nascosto dietro maschere ideologiche. Non ha mai usato la satira per compiacere il pubblico, ma per metterlo in crisi. Le sue canzoni sono piene di dubbi, di paradossi, di contraddizioni volutamente lasciate aperte. Gaber non cercava consensi, ma inquietudine. E in questa inquietudine risiede la sua grandezza.


Come Pasolini, Gaber ha osservato con lucidità spietata la mutazione antropologica dell’Italia. Ha smascherato la falsa libertà del consumo, la nuova morale imposta dalla televisione, la sparizione del senso critico travolto dalla spettacolarizzazione della vita. Ma se Pasolini denunciava tutto ciò con la furia della penna e della cinepresa, Gaber lo faceva con il corpo, con la voce, con l’ironia tagliente. I suoi spettacoli sono dei trattati filosofici in forma popolare, dei dialoghi socratici travestiti da cabaret. Eppure, dietro ogni battuta, c’è la consapevolezza tragica che qualcosa è andato perduto per sempre. Gaber non era un nostalgico: era un uomo ferito. Ferito dalla superficialità dei costumi, dalla volgarità mascherata da libertà, dalla svendita dell’intelligenza al marketing politico e culturale.

Quando Gaber canta "La libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione" sta affermando qualcosa che va ben oltre la retorica democratica. Sta dicendo che la libertà è responsabilità, è fatica, è consapevolezza del limite, è rinuncia all’egoismo. Sta dicendo che una società in cui tutti fanno quello che vogliono è una società senza legami, senza etica, senza futuro. Sta dicendo, in definitiva, che la libertà come ci è stata venduta è una menzogna, una forma raffinata di schiavitù. Gaber non si limita a criticare: mette in crisi il linguaggio stesso della critica. E lo fa senza mai salire in cattedra, ma accettando il rischio del fallimento, dell’incomprensione, del rifiuto.

Uno degli aspetti più potenti del suo pensiero è la riflessione sul corpo. In un monologo struggente, Gaber dice di avere paura del corpo degli altri, di non sapere più cosa sia il proprio. È un grido disperato contro la disumanizzazione del desiderio, contro la pornografia dell’apparire, contro la riduzione della carne a immagine. Esattamente come Pasolini, Gaber coglie prima degli altri l’emergere di una nuova forma di potere: non più repressivo, ma permissivo; non più fondato sul divieto, ma sull’esibizione. Un potere che ti invita a mostrare tutto, a dire tutto, a consumare tutto, e che in questo modo annienta ogni mistero, ogni profondità, ogni verità.
Nel brano "Destra-Sinistra" Gaber ridicolizza le etichette politiche. Ma non lo fa per qualunquismo: lo fa per disperazione. 
La sua è una critica alla deriva simbolica della politica, alla sua riduzione a spettacolo, a marchio, a lifestyle. Gaber denuncia la fine del conflitto ideale, la trasformazione della partecipazione in tifoseria, la morte della dialettica. In questo senso è più radicale di molti rivoluzionari da salotto: non si accontenta di una bandiera, vuole un pensiero. E se la sinistra è diventata destra nei fatti, se la libertà è diventata consumo, se la cultura è diventata intrattenimento, allora non resta che il silenzio, o il grido. Gaber ha scelto il grido. 
Ma un grido articolato, lucido, composito. 
Un grido che non chiede aiuto, ma comprensione.


In questo senso, uno dei vertici assoluti della sua opera è "Qualcuno era comunista"
Più che una canzone, è un poema civile, una confessione collettiva, un'autopsia sull'anima di un'intera generazione. Gaber non si limita a raccontare la fine di un'ideologia: racconta la fine di un orizzonte, la perdita di un sogno, il tramonto di una tensione etica. 
In quelle parole si condensano la disillusione, il tradimento, l'ironia tragica di chi ha visto svanire la possibilità di un mondo diverso. Il verso "eravamo gabbiani... senza nemmeno più l'intenzione del volo" è tra i più agghiaccianti della canzone italiana contemporanea. 
Non solo perché denuncia la caduta di ogni ideale, ma perché mostra la trasformazione dell'utopia in rassegnazione, della speranza in apatia. 
Siamo diventati animali da costa, incapaci di prendere il largo, addomesticati dal benessere, paralizzati dalla paura. 
Gaber, qui, non giudica: descrive. 
E nella sua descrizione c'è la condanna più profonda.

Oggi Gaber viene spesso celebrato con affetto, ma in modo superficiale. Le sue frasi più celebri vengono stampate su magliette, ma il suo pensiero rimane ai margini. Non ha avuto eredi perché nessuno ha voluto raccogliere davvero la sua sfida: quella di mettere in discussione tutto, a partire da se stessi. Gaber è stato un intellettuale anomalo, scomodo, inclassificabile. 
Come Pasolini, ha vissuto una solitudine scelta e subita, una marginalità che era insieme testimonianza e condanna. Ma la sua voce, come quella di Pasolini, continua a parlare a chi sa ascoltare.
Non è con la nostalgia che si rende giustizia a Gaber, ma con l’approfondimento. Non con le commemorazioni, ma con il pensiero critico. Gaber non è un ricordo, è un'urgenza. In un tempo in cui tutto viene semplificato, mercificato, normalizzato, Gaber ci insegna ancora a pensare in modo complesso, a dubitare, a resistere. La sua eredità non è un repertorio di canzoni, ma un modo di stare al mondo. 
Un modo scomodo, inquieto, necessario.

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