mercoledì 5 novembre 2025

Anatomia dell’ascolto perduto


C’è qualcosa di commovente nel tornare a parlare di ascolto in un’epoca che sembra averne dimenticato il significato. Lo spunto, questa volta, è arrivato da una mail di Discogs, la grande piattaforma internazionale dedicata ai dischi, che invitava gli appassionati di tutto il mondo a staccare la spina per un giorno, ad allontanarsi dagli schermi e dedicarsi esclusivamente alla musica. L’iniziativa si chiama Dis/Connect e non è soltanto un’idea di marketing ben congegnata, ma un gesto simbolico: una piccola insurrezione contro l’ascolto distratto, la bulimia digitale, l’insonorizzazione permanente della nostra vita. È un invito a rientrare nel suono, a riappropriarsi del gesto, del tempo e del silenzio. 
È il punto di partenza ideale per avvicinarsi al mondo dei Jazz Kissa giapponesi, locali nati nel dopoguerra, dove si entra non per parlare, ma per ascoltare dischi jazz in religioso silenzio, davanti a impianti d’altissima fedeltà e pile di vinili selezionati con cura monastica. 
Luoghi dove l’ascolto è ancora una forma di devozione, una disciplina dello spirito.
Verso la fine di settembre ho ricevuto anche io quella mail da Discogs. 
Diceva più o meno così: “Una breve presentazione, sono Jeffrey e dirigo il team marketing di Discogs. Ma, cosa ancora più importante, sono un amante dei dischi. Sabato 18 ottobre Discogs chiede agli amanti della musica di tutto il mondo di fare qualcosa di insolito: allontanarsi dagli schermi (sì, anche da Discogs) e dedicare tutta la propria attenzione ai dischi. Lo chiamiamo Dis/Connect. 
Un giorno per oscurare gli schermi, silenziare i feed social e riconnettersi attraverso il rituale dell’ascolto dei dischi”
Ho riletto quelle righe più volte. 
Non tanto per la trovata pubblicitaria, quanto per la nostalgia che suscitavano. Nell’epoca in cui la musica è diventata un flusso continuo, un accompagnamento funzionale come la luce artificiale o il rumore del traffico, l’idea di fermarsi ad ascoltare un disco dall’inizio alla fine appare come un atto quasi sovversivo. Un gesto fuori moda, come scrivere a mano o guardare il cielo senza volerlo fotografare. Ma forse proprio per questo necessario. 
Ascoltare un disco significa tornare al gesto. 
Significa accettare il tempo che serve perché il suono prenda forma, perché la puntina scenda e il silenzio si spezzi in vibrazione. È un rito antico e fragile, una liturgia che richiede attenzione e presenza. Richiede un corpo, uno spazio, un silenzio. E ci chiede di restare. Di non saltare, non scorrere, non cambiare. 
Nel mondo delle playlist algoritmiche, l’ascolto analogico è una forma di meditazione laica. Ti costringe a scegliere, a misurarti con la durata, con la noia, con la sorpresa. Ti obbliga a riconoscere il suono come evento, non come sfondo. È in questo spazio sospeso che l’ascolto può tornare a essere un atto di conoscenza.


Pauline Oliveros lo aveva capito molto prima dell’era dello streaming. La fisarmonicista e teorica americana, pioniera dell’avanguardia elettronica e fondatrice del concetto di Deep Listening, invitava già negli anni ’80 a “ascoltare tutto ciò che c’è da ascoltare”, a espandere la percezione fino a includere i rumori involontari, i suoni interni del corpo, il respiro, i pensieri, la memoria. Nel suo recente saggio Quantum Listening (Timeo, 2023), Pauline Oliveros spinge questa idea oltre il confine dell’esperienza musicale: l’ascolto diventa coscienza, e la coscienza stessa diventa strumento di ascolto. “L’ascoltatore quantico ascolta il suo ascolto”, scrive, aprendo una prospettiva vertiginosa: ogni volta che ascoltiamo, modifichiamo ciò che percepiamo. 
Il suono non è più un oggetto esterno, ma una relazione viva tra l’ascoltatore e il mondo. 
È un flusso reciproco di energia e di senso. 
L’ascolto non è ricezione, ma creazione.
Forse è per questo che il rumore contemporaneo, quello delle notifiche, delle dirette, degli spot, dei commenti a catena, non ci ferisce solo le orecchie, ma anche la capacità di esistere. 
Viviamo in un’epoca di sovraccarico sonoro, in cui tutto parla ma nessuno ascolta. 
L’ascolto, oggi, è un lusso. 
O forse una forma di disobbedienza. 
Scollegarsi per riconnettersi, come suggerisce Discogs, non significa rifiutare la tecnologia, ma sottrarre tempo al meccanismo dell’assuefazione. Significa ricordare che la musica non è un prodotto, ma un’esperienza. Che ogni suono ha bisogno di silenzio intorno per esistere, come ogni parola ha bisogno di respiro per nascere. 
Significa riappropriarsi del tempo dell’ascolto, un tempo non misurabile in minuti ma in profondità.


John Cage, con il suo celebre 4’33”, aveva già demolito l’idea che la musica coincida con la produzione del suono. Il suo brano fatto di silenzio obbligava il pubblico a fare ciò che oggi ci riesce sempre più difficile: ascoltare il mondo. 
I rumori della sala, i respiri, i movimenti, i colpi di tosse diventavano la composizione stessa. Cage voleva ricordarci che “il silenzio non esiste”: anche quando crediamo di non sentire nulla, qualcosa vibra, dentro o fuori di noi. 
E quella vibrazione è già musica. 
Brian Eno, invece, ha costruito un’intera estetica sull’ascolto ambientale, immaginando un suono che non invade ma accompagna, che non pretende ma accoglie. I suoi dischi – Music for Airports, Thursday Afternoon, Reflection – sono inviti a un ascolto orizzontale, contemplativo, quasi geografico. La musica come paesaggio, non come evento. Ma persino in Eno si avverte l’eco di una nostalgia: quella per un’attenzione che si è dissolta, per un orecchio che non sa più restare fermo. 
E poi c’è Glenn Gould, che abbandonò i concerti dal vivo per rinchiudersi in studio, alla ricerca del suono perfetto, di un ascolto assoluto. 
Un gesto radicale e visionario, che oggi può apparire ossessivo, ma che in realtà anticipava la domanda essenziale: dove si trova davvero la musica? 
Nel gesto, nella mente, nella memoria? Gould ascoltava se stesso ascoltare, come un monaco dell’orecchio. 
Forse era già un ascoltatore quantico ante litteram.

C’è qualcosa di profondamente politico in tutto questo. Ascoltare in profondità significa opporsi alla velocità. Significa rifiutare l’immediatezza come valore. Significa reclamare la possibilità di scegliere cosa entra nella nostra mente, nel nostro corpo, nella nostra coscienza. Nell’era della sorveglianza digitale e della distrazione permanente, ogni atto di attenzione è un atto di libertà. Siamo circondati da suoni progettati per conquistarci: jingle, notifiche, pubblicità sonore, colonne sonore emozionali. Ogni suono è un comando. 
L’ascolto profondo è la risposta più sovversiva: ascoltare senza lasciarsi catturare, ascoltare per capire, non per reagire.
Dis/Connect, nel suo piccolo, ci invita a questo. A staccare la spina e tornare al vinile, al gesto materiale, all’oggetto che pesa e che occupa spazio. A un suono che non si può “skippare”
È un’idea romantica, forse. 
Ma ogni rivoluzione comincia da un gesto inutile. E mettere un disco, in questo tempo senza pause, è un gesto meravigliosamente inutile. Significa dire: adesso no. Adesso ascolto. Ascolto il fruscio, la puntina, la voce che emerge, la vibrazione che attraversa la stanza. Ascolto anche ciò che non è registrato: il mio respiro, il mio pensiero, il silenzio che segue. È un modo per tornare a sé, per sentire che si è ancora parte di qualcosa.



Forse l’ascolto profondo non salverà il mondo, ma può salvarci dal suo rumore. Può insegnarci che la presenza non si misura in connessioni, ma in vibrazioni. Che il silenzio non è assenza, ma spazio d’ascolto. Che il suono, se lo ascolti davvero, ti cambia. L’ascoltatore quantico di Oliveros non cerca l’armonia, ma la consapevolezza. Non ascolta per capire, ma per esserci. E in questo “esserci” si racchiude tutta la rivoluzione che ci resta da compiere. Ecco perché l'esistenza dei Jazz Kissa giapponesi, sembra arrivare come risposta naturale a questa riflessione: in quei piccoli templi del suono, dove il jazz vibra attraverso valvole incandescenti e dischi consumati, il tempo si ferma e l’ascolto torna ad essere sacro. 
Luoghi dove il rumore del mondo si dissolve e il silenzio diventa parte integrante della musica. Forse, in fondo, non c’è differenza tra un Jazz Kissa di Tokyo e un salotto di provincia dove qualcuno mette un vinile e chiude gli occhi: in entrambi i casi, si celebra lo stesso rito. 
Il miracolo fragile dell’ascolto.







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