Kid A, quarto album in studio dei Radiohead uscito il 2 ottobre 2000, rappresenta una cesura radicale rispetto al percorso della band britannica fino a quel momento, un’opera che non è solo un’evoluzione ma quasi una rinascita, un taglio netto con le aspettative maturate con OK Computer e con ciò che si pensava fosse il “rock alternativo” alla fine degli anni Novanta.
Kid A è il tentativo, riuscito, di dissolvere le forme canoniche della canzone pop/rock, di smaterializzare gli strumenti tradizionali, di lasciare spazio a texture elettroniche, minimalismo, ambientazioni sonore sospese, l’uso di sintetizzatori, beat programmati, fiati, orchestrazioni non convenzionali, pause, silenzi, rumore, tutto per creare paesaggi dell’anima che siano anche riflessi inquieti del mondo.
L'album nasce da un momento di frattura, Thom Yorke soffre di blocco creativo dopo il successo enorme ma anche gravoso di OK Computer, sente che la “mitologia del rock” ha perso senso, che gli strumenti che prima usava con naturalezza ora gli procurano nausea, che la musica è diventata un rumore di fondo (“fridge buzz”), da cui afferrare qualcosa di vivo diventa sempre più difficile. Registrato tra il 1999 e il 2000 in diversi studi, compresa una fase importante nel loro studio privato realizzato in una fattoria nella campagna inglese, il lavoro è stato prodotto con Nigel Godrich e con la partecipazione attiva di tutti i membri, pur se con una diversa struttura interna: non più solo chitarre, basso, batteria e voce, ma aggregazioni di suoni, manipolazioni, loop, sperimentazione timbrica, uso dello studio come laboratorio sonoro piuttosto che scatola per registrare performance dal vivo. Il titolo stesso, Kid A, pare ricondurre all’idea di un neonato artificiale, forse il primo essere umano clonato (secondo alcune interpretazioni), o un’entità che nasce in un mondo già tecnologico, già mediato, già invaso da rumori digitali, una creatura che deve confrontarsi fin dall’inizio con l’artificio, con l’astratto, con l’indistinto, con la perdita della purezza prima creduta intrinseca alla musica rock.
![]() |
| Radiohead |
L’artwork, curato da Stanley Donwood insieme a Thom Yorke sotto lo pseudonimo “Tchock”, è parte fondamentale dell’esperienza estetica: paesaggi ghiacciati, montagne, cieli rossi, atmosfere distorte, con un’intensa riflessione visiva sulla guerra (il conflitto in Kosovo del 1999 fu fonte diretta di ispirazione per Donwood), sulle catastrofi ambientali, su una minaccia che è al tempo stesso esteriore e interiore, e sul mutamento irreversibile; l’arte non è semplice cornice ma specchio e premonizione dell’album stesso, con il “red swimming pool”, il simbolo presente sul retro e sullo spine dei CD, che diventa tema ricorrente di pericolo imminente e di aspettative infrante.
L’esperienza di ascolto di Kid A è intensa, destabilizzante: l’apertura con “Everything in Its Right Place” – tone-pad sintetici, voce di Yorke manipolata, ripetizioni che sembrano mantra – introduce all’idea che ora la melodia non sarà protagonista da subito, che il ritmo potrà venire da altri spazi, che la struttura classica strofa-ritornello può anche non apparire.
Proseguendo, si passa attraverso tracce come la title track “Kid A”, “The National Anthem” – con bassi fuzz, fiati che invadono, quasi cacofonie orchestrate –, “How to Disappear Completely” – dove il minimalismo orchestrale, l’uso del falsetto, la dissolvenza, la sospensione, il senso di smarrimento interiore dominano.
''Treefingers'' è puro ambient, atmosfera liquida, sembra di ascoltare il Brian Eno di "Apollo".
''Optimistic'' conserva un residuo di rock ma filtrato, quasi estraneo a se stesso; “Idioteque” è forse tra le tracce più viscerali e angoscianti ma anche tra le più memorabili, con beat programmati frenetici, con percussioni che sembrano trampolini, testi che evocano catastrofi, paura, imminenza del disastro, mancanza di controllo, una danza isterica sotto la superficie della civiltà.
L'album, nel suo complesso, non cerca di accomodare le orecchie dell’ascoltatore abituato al radio friendly, ma di scuoterlo, di farlo confrontare con zone d’ombra, zone di ansia, di alienazione, di smarrimento in un mondo che sembra accelerare troppo, bombardato da stimoli, da tecnologia, da media ambivalenti.
E' un'opera che chiede un ascolto attivo, multiplo, che rivela dettagli nuovi ogni volta, che più che raccontare storie lineari suggerisce sensazioni, immagini interiori, stati di coscienza più che narrazioni, e lo fa con paure e speranze confuse insieme. La ricezione all’epoca fu inevitabilmente divisa: ci furono critici e ascoltatori che rimasero spaesati, che mal sopportarono la scomparsa delle hit, della chitarra protagonista, di quei momenti di stop-and-go melodico ai quali il pubblico era ormai abituato, venne considerato da alcuni un suicidio commerciale o un azzardo insensato; altri videro invece un coraggio, una visione, un’innovazione radicale, e con il passare del tempo su Kid A si compì una rivalutazione pressoché universale: è ora spesso considerato un capolavoro, uno spartiacque, uno di quegli album che non soltanto rappresentano una band che cambierà se stessa, ma un punto di riferimento per generazioni successive, per il “post-rock”, l’elettronica, la musica sperimentale all’interno del mainstream, per la fusione tra generi e per la capacità di una band rock di reinventarsi fino quasi a dissolversi per ricomparire in forma nuova.
Dal punto di vista tematico, Kid A parla della dislocazione, della perdita del centro, della difficoltà a riconoscersi in un mondo iperconnesso ma alienante, del rapporto fra individuo e tecnologia, fra natura e artificio, delle paure atomiche (nuclearità latente, disastri, catastrofi ambientali), ma anche della fugacità, del desiderio di dissolversi o uscire dal corpo, del non-essere presente (“How to Disappear Completely”), della memoria che si scioglie, dei sogni che perdono nitidezza, della necessità di cercare nuove forme di sincerità sonora in mezzo al rumore mediatico.
Questi temi sono veicolati non solo dai testi ma anche dalle scelte sonore: silenzi, riverberi, disturbi, filtri, voce trattata, sovrapposizioni, dissolvenze, ritmi non sempre regolari, linee di basso scure, scanalature ritmiche irregolari, paesaggi sonori che sembrano tanto naturali quanto alieni, e un senso continuo di sospensione temporale che rende l’ascolto più simile a un viaggio interiore che a una sequenza di canzoni destinate al singolo successo commerciale.
Kid A ha anche anticipato la centralità della rete, del passaparola, dell’immagine digitale, dei “blips” promozionali (brevi video, arte visuale diffusa online), è uscito con pochissima promozione tradizionale, senza singoli convenzionali (o con singoli poco espliciti come “Idioteque”) e questo ha contribuito al suo aura di mistero e al suo fascino duraturo.
L’influenza di Kid A è vasta: ha reinventato quello che un grande nome nel rock poteva permettersi di fare, ha aperto la strada a band che mescolano elettronica, sperimentazione sonora, ambient, glitch, che trattano l’album come opera d’arte totale piuttosto che raccolta di singoli; ha sfidato i limiti del mainstream, ha cambiato le aspettative del pubblico, ha ridefinito cosa potesse essere un successo commerciale nella musica alternativa senza per forza aderire alle formule più semplici; ed è stato ripensato anche come “disco visionario” in retrospettiva, uno di quelli che con il tempo solo cresce, che aggiunge nuove prospettive ad ogni ascolto.
Kid A rimane un monumento non solo per i fan dei Radiohead, ma per chiunque sia interessato a vedere fin dove la musica possa spingersi quando rifiuta compromessi, quando accetta l’incertezza, quando il rischio non è uno svantaggio ma il terreno stesso della creazione, un punto oltre cui il passato della band, il rock tradizionale, il concetto stesso di canzone popolare cedono il posto all’idea che la musica è prima di tutto atmosfera, esperienza, memoria, eco del futuro.
E in questo senso Kid A non è solo un lavoro di passaggio nella carriera dei Radiohead ma una pietra miliare nella storia della musica contemporanea, un disco che ancora oggi sfida, ispira, spaventa, consola, che si rifiuta di “inserirsi” ma che si inserisce invece nella coscienza di chi ascolta ‒ e forse è questo il segreto del suo perdurare, la sua potenza che non si smorza, che non si esaurisce: non un album a cui tornare per nostalgia, ma un album che continua a parlare, a rispondere, a sussurrare e urlare nel presente come se fosse stato appena scritto.


Nessun commento:
Posta un commento