lunedì 13 ottobre 2025

Magnifiche ossessioni 10: La meglio gioventù (2003)



C’è un momento, verso la fine de La meglio gioventù, in cui Nicola torna a Roma e incontra di nuovo Mirella, la donna che ha amato suo fratello Matteo. È un incontro che sembra fuori dal tempo, sospeso tra la memoria e la realtà, tra il dolore e la possibilità di perdonarsi.
Quel momento riassume in sé tutto il film di Marco Tullio Giordana, che è insieme un romanzo epico e una ballata malinconica, un affresco politico e una confessione privata, un canto d’amore e di perdita dedicato a una generazione che ha cercato di cambiare il mondo e si è trovata, infine, a fare i conti con se stessa. 
La meglio gioventù non è solo un film: è una cronaca emotiva lunga quarant’anni, una sorta di diario collettivo in cui la storia d’Italia — con le sue speranze, le sue contraddizioni, le sue tragedie — si intreccia inestricabilmente con la vita di due fratelli, Nicola e Matteo Carati, e della loro famiglia. Girato nel 2003 per la televisione e poi distribuito anche in sala, questo monumentale lavoro di sei ore rappresenta una delle vette più alte del cinema italiano contemporaneo, non solo per l’ampiezza della sua narrazione ma per la capacità, rara, di rendere la Storia un fatto intimo, di incarnarla nei corpi, nei gesti, negli sguardi dei suoi personaggi. Marco Tullio Giordana, con la collaborazione alla sceneggiatura di Sandro Petraglia e Stefano Rulli, costruisce un’opera che sfugge alle classificazioni: è un film politico, ma mai ideologico; è una saga familiare, ma mai borghese nel senso conformista del termine; è un racconto di formazione che si apre come un romanzo di Tolstoj e si chiude come una canzone di De André. Tutto comincia nel 1966, con due giovani fratelli romani, Nicola e Matteo, che attraversano il tempo delle illusioni: studiano, discutono di libri, vanno ai concerti, si sentono parte di qualcosa di più grande. In un’Italia che sta cambiando, che passa dal boom economico ai fermenti del Sessantotto, i due incarnano due anime diverse ma complementari: Nicola, interpretato da Luigi Lo Cascio, è il sognatore razionale, il ragazzo idealista che crede nella possibilità di una trasformazione sociale attraverso la comprensione, la solidarietà, la cura degli altri; Matteo, interpretato da Alessio Boni, è invece l’anima inquieta, ribelle, insofferente all’ipocrisia e al compromesso, un uomo incapace di trovare pace dentro e fuori di sé. 


Il loro incontro con Giorgia, la giovane paziente psichiatrica interpretata da Jasmine Trinca, diventa l’innesco simbolico di tutto ciò che seguirà: quel tentativo di salvarla, di strapparla alla violenza istituzionale del manicomio, è il gesto utopico di una generazione che crede ancora nella possibilità di cambiare le cose con un atto di purezza. Ma è anche l’inizio della loro separazione. Nicola, dopo quell’esperienza, decide di diventare psichiatra, ispirato dalla lezione di Basaglia e dal desiderio di abbattere i muri della follia istituzionalizzata; Matteo, invece, fugge, abbandona l’università, sceglie la divisa, l’ordine, il silenzio. I due fratelli iniziano così a incarnare le due grandi traiettorie dell’Italia repubblicana: da un lato l’utopia e la riforma, dall’altro la repressione e la solitudine. 
Il film racconta la loro vita, ma racconta anche quella di un Paese che, nel frattempo, attraversa le contestazioni del ’68, le fabbriche dell’autunno caldo, gli anni di piombo, la lotta armata, la corruzione, la mafia, Tangentopoli, la globalizzazione, fino ad arrivare agli anni Duemila. Ogni tappa della loro esistenza si intreccia con una pagina del libro della nazione, ma Giordana non fa mai del didascalismo: la storia entra nei personaggi non come sfondo, ma come carne viva. È il mondo che li plasma e li ferisce, ma è anche il loro sguardo che restituisce al mondo un senso. 
Matteo, che sceglie la divisa di poliziotto, si trova a vivere la contraddizione di un Paese che passa dal sogno della liberazione al controllo, dal desiderio di giustizia all’incubo della sorveglianza. La sua vita è un progressivo allontanamento dalla realtà, un tentativo di espiare qualcosa di inconfessabile. Matteo è il lato oscuro della meglio gioventù, quello che non trova posto nella narrazione trionfale del progresso, e il suo suicidio — una delle scene più intense e dolorose del cinema italiano — rappresenta la fine simbolica dell’innocenza. Nicola, invece, continua a credere, continua a curare, continua a inseguire un’idea di giustizia che passa attraverso l’empatia e l’ascolto. La sua parabola, pur attraversata da disillusioni e fallimenti, è quella della resistenza umana all’indifferenza del tempo. È lui, in fondo, la vera anima del film: colui che non smette mai di cercare un senso, anche quando tutto sembra perduto. L’opera di Giordana è monumentale ma mai pesante, ampia ma sempre intima. Ogni inquadratura sembra pensata per restituire la densità del tempo, la sua stratificazione emotiva. La fotografia di Roberto Forza accompagna il passaggio delle stagioni e dei decenni con una delicatezza che non ha nulla di estetizzante: la luce del Nord che avvolge le scene ambientate in Norvegia, quella calda e polverosa di Palermo, la Roma che si trasforma da capitale provinciale a città globale. Il tempo non è solo un elemento narrativo: è un personaggio. È ciò che scava i volti, consuma le relazioni, ma anche ciò che, paradossalmente, restituisce la memoria. 

Luigi Lo Cascio

La meglio gioventù è un film sulla memoria collettiva, su come la Storia — quella con la S maiuscola — sia fatta di vite minuscole, di momenti apparentemente insignificanti, di scelte private che finiscono per cambiare il corso delle cose. Giordana, del resto, aveva già mostrato la sua sensibilità politica e civile in film come I cento passi e Pasolini, un delitto italiano, ma qui raggiunge una maturità diversa: il suo sguardo non è più quello dell’accusa o della denuncia, ma quello della comprensione. Non ci sono eroi né colpevoli, ma solo esseri umani travolti dal fluire del tempo. Ed è proprio questa capacità di abbracciare la complessità del reale che rende La meglio gioventù un’opera universale. 
Il titolo, tratto da un verso di Pasolini, evoca la “meglio gioventù” perduta, quella che avrebbe dovuto cambiare il mondo e invece è stata cambiata dal mondo stesso. Ma Giordana non indulge mai nella nostalgia sterile. La sua è una malinconia attiva, che cerca di capire piuttosto che rimpiangere. È la malinconia di chi sa che ogni generazione è costretta a fare i conti con le proprie illusioni, ma che in quella sconfitta si nasconde anche una forma di bellezza. L’ampiezza del racconto consente al film di toccare quasi tutti i nodi irrisolti della nostra storia recente: la violenza politica, la corruzione del potere, l’ipocrisia istituzionale, la crisi della famiglia, la trasformazione del lavoro, la perdita delle ideologie. Eppure tutto passa attraverso lo sguardo dei personaggi, mai ridotti a simboli ma sempre vivi, imperfetti, contraddittori. Mirella (Maya Sansa), con il suo amore tenace e la sua dignità silenziosa, è forse il personaggio più bello del film, quello che lega i due fratelli e ne raccoglie l’eredità morale. Giorgia, l’anima fragile che sopravvive ai manicomi e trova finalmente la libertà, incarna la possibilità di una redenzione. E poi ci sono i genitori, interpretati da Adriana Asti e Andrea Tidona, che rappresentano un’Italia più antica, quella che guarda ai propri figli con amore e incomprensione, come se non sapesse più quale lingua parlano. Tutto nel film è costruito per restituire la complessità di un tempo che cambia senza sosta, ma Giordana non si limita a mostrare: interpreta. 

Maya Sansa

C’è in ogni scena un’idea di Paese, di comunità, di destino condiviso. Quando Nicola visita gli ex manicomi dopo la legge Basaglia, o quando lavora con i giovani tossicodipendenti, non è solo un medico ma il testimone di un’epoca che tenta di rimettere insieme i pezzi della propria umanità. Quando Matteo si arruola, o quando osserva in silenzio la Roma violenta degli anni Settanta, non è solo un uomo in fuga, ma il simbolo di un Paese incapace di perdonarsi. Eppure Giordana evita la trappola della retorica. Non c’è mai un tono moralistico, mai una voce che spiega o giudica: tutto si affida alla forza della narrazione, al potere del tempo. Sei ore di cinema che scorrono senza mai annoiare, come un romanzo che non si vuole chiudere, perché ogni pagina sembra aprirne un’altra. 
La struttura del film, divisa in due parti ma pensata come un continuum, è un modello di equilibrio narrativo. Ogni episodio si chiude su un’immagine che non è mai conclusiva, ma aperta: la vita, come la Storia, non si ferma mai. Quando, nell’ultima parte, Nicola si ritrova con la figlia di Matteo — la nuova generazione — e la porta a vedere le lucciole in campagna, il cerchio si chiude poeticamente. Le lucciole, scomparse con l’inquinamento e poi tornate, diventano la metafora di una speranza fragile ma resistente. È come se Giordana dicesse: qualcosa si perde, ma qualcosa sopravvive sempre. La meglio gioventù è anche un film sull’eredità: non solo quella familiare, ma quella morale e civile. Ogni generazione riceve dal passato un fardello e un sogno, e deve decidere cosa farne. Nicola e Matteo sono due risposte diverse alla stessa domanda: come vivere in un mondo che tradisce le proprie promesse? 
Il primo sceglie di continuare a credere, il secondo di rinunciare. 
Ma in entrambi c’è un residuo di purezza, un desiderio di verità che li rende fratelli anche nella distanza. La grandezza del film sta proprio qui: nel non scegliere, nel non giudicare, ma nel mostrare. E in questo modo, il film diventa un atto d’amore verso un Paese ferito ma ancora capace di bellezza. C’è qualcosa di profondamente italiano nel modo in cui Giordana racconta la Storia attraverso le emozioni, i silenzi, le famiglie, le cene, i volti. 

Jasmine Trinca

È un cinema che guarda alla tradizione di Rosi e Visconti, ma che la rinnova con una leggerezza moderna. Non c’è compiacimento estetico, ma un continuo senso di movimento, di ricerca, di vita che preme per uscire dallo schermo. È per questo che, a distanza di vent’anni, La meglio gioventù resta un’opera viva, ancora capace di commuovere e interrogare. Forse perché, in fondo, parla di tutti noi: di ciò che abbiamo sognato e di ciò che abbiamo perso, di ciò che resta quando il tempo passa e la Storia sembra non avere più senso. È un film che ci obbliga a guardarci dentro, a chiederci chi siamo stati e chi vogliamo essere. 
Non è solo la storia di due fratelli, ma di un Paese intero che, tra errori e risvegli, tra violenze e rinascite, cerca ancora una direzione. E in questo senso, la frase di Pasolini che dà il titolo all’opera — “La meglio gioventù che va via come un colpo di vento” — non suona come un rimpianto, ma come un monito: ricordare per non dimenticare, amare per non perdere se stessi. 
In un’epoca come la nostra, dove tutto è frammento, velocità e oblio, un film come questo appare quasi rivoluzionario nella sua lentezza, nella sua attenzione ai dettagli, nella sua fede nella narrazione come strumento di verità. 
È un’opera che invita a resistere, a credere ancora nella possibilità del racconto, nel potere delle immagini di dare forma alla memoria. 
La meglio gioventù ci dice che la Storia non è mai finita, che ogni vita, anche la più silenziosa, contribuisce a scriverla. E che, forse, la “meglio gioventù” non è solo quella che ha sognato di cambiare il mondo, ma anche quella che ha saputo sopravvivere senza smettere di cercare un senso, quella che, nonostante tutto, continua a guardare le lucciole.





Nessun commento:

Posta un commento

2025 Musical box

Quello che sta per finire è stato un anno in cui la musica ha mostrato una tensione sotterranea verso l’ambiguità emotiva. Dopo stagioni imp...

Archivio