C’è un’America che non si vede, ma che respira. Un’America dove le tende rosse sventolano in un vento che non esiste, dove le ragazze sorridono come angeli e poi spariscono dentro la notte, dove un orecchio marcisce tra i fili d’erba e un uomo piange davanti a una lampada. È lì che vive David Lynch: non tanto in un luogo, ma in un interstizio — tra il visibile e il sognato, tra la normalità e l’orrore, tra il silenzio e il ronzio di una corrente elettrica.
Chi era, dunque, David Lynch? Forse nessuno, forse un medium, forse un bambino che ha imparato troppo presto che il mondo è fatto di crepe, e che solo guardandoci dentro si può intuire la verità.
Lynch è cresciuto tra i boschi e i sobborghi bianchi dell’America del Nord. Non c’è infanzia più americana della sua: prati ben rasati, famiglie sorridenti, bandiere che sventolano e la promessa che tutto andrà bene. Ma da qualche parte, nel rumore di un tagliaerba o nella luce al neon di una cucina, il giovane David sente una fessura, un rumore sotterraneo, un presentimento. È l’altra faccia del sogno americano: l’incubo che si annida sotto la moquette.
Da quella crepa nascerà tutto: la bambina in lacrime di Blue Velvet, la ragazza scomparsa di Twin Peaks, la prostituta trafitta di Mulholland Drive, il viandante perduto di The Straight Story (Una storia vera). Lynch non inventa mostri: li riconosce. Li fotografa. Li ascolta respirare.
Ogni suo film è un viaggio dentro il buio con la curiosità di un bambino che non ha paura di toccare. E forse è questo che lo rende diverso da tutti: la sua innocenza.
In Lynch non c’è mai cinismo, mai distacco.
Anche quando mostra il male, lo fa con la pietà di chi sa che dietro il volto deformato di un assassino c’è un’umanità che chiede aiuto. Nei suoi sogni non c’è morale, solo empatia e disorientamento.
All’inizio fu Eraserhead.
Un film in bianco e nero, claustrofobico, impastato di rumori e silenzi. Un film che sembra venire da un altro pianeta, e invece parla del più terrestre dei terrori: la paternità, la responsabilità, la deformità del reale.
Henry Spencer, con la sua pettinatura assurda e il suo bambino mostruoso, non è un personaggio ma un simbolo: l’uomo schiacciato dal peso dell’esistenza, la creatura intrappolata nel proprio stesso sogno.
Eraserhead è il film di un uomo che non vuole interpretare il mondo, ma mostrarne la consistenza vischiosa, i rumori umidi, le pulsazioni nascoste.
È un film che non chiede di essere capito, ma respirato.
E in quel respiro, che sa di vapore e di paura, c’è tutta la poetica lynchiana: la bellezza che nasce dal disgusto, la tenerezza che si insinua nel terrore, il sacro che abita nel deforme.
Negli anni ’80, Lynch entra nel cuore del mainstream con Blue Velvet. Ma invece di adattarsi al sistema, lo scardina dall’interno.
Aprire quel film è come aprire un album di famiglia e scoprire, dietro la foto dei genitori sorridenti, una macchia di sangue. L’incipit, il prato, il cielo, l’uomo che annaffia e poi crolla, la macchina dei pompieri, il cane che morde l’acqua, è un inno alla superficie.
Poi la macchina da presa scende nell’erba, e lì, tra le radici, un orecchio in decomposizione brulica di insetti. È la visione originaria di Lynch: la verità non è sopra, ma sotto.
Ogni città, ogni casa, ogni volto ha un retro invisibile. E in quel retro si nasconde la nostra paura più grande: che la normalità sia solo una maschera.
Jeffrey Beaumont (Kyle MacLachlan) è il doppio di Lynch: un ragazzo perbene che vuole solo capire. Ma capire, nel mondo di Lynch, significa perdere l’innocenza. Blue Velvet è un rito di passaggio, un apprendistato nel male.
E quando Jeffrey incontra Dorothy Vallens (Isabella Rossellini), quando scopre Frank Booth (Dennis Hopper), scopre anche se stesso: la parte oscura che abita ogni essere umano.
Lynch non ci dice “attenti al male”, ci dice: “guardate il male, e riconoscetelo in voi”.
E poi arriva Twin Peaks, la serie che ha cambiato la televisione.
In apparenza è un giallo: chi ha ucciso Laura Palmer?
Ma in realtà è una meditazione sull’impossibilità di conoscere il mondo. Twin Peaks è la mappa di un universo in cui ogni cosa ha un doppio, ogni sorriso ha un’eco inquietante, ogni sogno è un messaggio.
L’agente Dale Cooper è il profeta gentile di questo mondo bifronte: un uomo che crede nel bene ma sa che il male è una forza cosmica, non un delitto da risolvere.
Quando il nano danza nella Stanza Rossa, quando Laura sussurra “I’ll see you in 25 years”, Lynch ci sta dicendo che il tempo non è lineare, che la vita è un cerchio che si chiude su se stesso.
Twin Peaks non è una serie, è un’esperienza spirituale.
È la scoperta che il mistero non va risolto, ma abitato.
In ogni opera di Lynch il suono è protagonista.
Il silenzio non è mai assenza, ma tensione. Il ronzio elettrico, il soffio del vento, il ticchettio dell’orologio sono voci del mondo invisibile. Lynch ascolta la realtà come un musicista jazz: improvvisa, cattura le dissonanze, lascia spazio all’imprevisto.
Angelo Badalamenti, il suo sodale musicale, traduce in note la nostalgia dell’ignoto. Le sue melodie sembrano venire da un jukebox dimenticato in un bar vuoto, eppure parlano di paradiso e perdizione.
Nel cinema di Lynch la musica è memoria.
Ogni canzone, da In Dreams di Roy Orbison a Crying di Rebekah Del Rio, apre una voragine temporale.
È come se la melodia ci riportasse a un punto preciso del nostro inconscio, dove tutto è già accaduto e tutto può accadere ancora.
Nel 2001, con Mulholland Drive, Lynch crea il suo testamento onirico.
Un film che inizia come una fiaba hollywoodiana e finisce come un incubo. Due donne, un sogno, un’identità frantumata. Betty e Diane sono la stessa persona, o forse due versioni dello stesso dolore. Il film non va capito, va vissuto come si vive un sogno: accettando che ogni immagine è vera solo per un istante.
Lynch ci mostra il lato oscuro del desiderio, il prezzo dell’illusione. Hollywood, la città dei sogni, diventa il teatro dell’oblio. E in quella perdita d’identità si nasconde la domanda centrale di tutta la sua opera: chi siamo, davvero, quando sogniamo di essere qualcun altro?
“Silenzio”, dice la cantante nel teatro dei sogni.
E in quel silenzio si dissolve la finzione, resta solo la vertigine dell’essere.
Nel 2017 Lynch ritorna, con Twin Peaks – The Return.
Ma non è un ritorno: è una resurrezione.
Ventisei anni dopo, l’agente Cooper esce dal limbo. Ma non è più lui. È Dougie, un fantoccio senza coscienza che vaga in un mondo assurdo, fatto di slot machine e luci al neon.
È l’America del XXI secolo: sonnambula, dimentica, intrappolata nella ripetizione.
Lynch, attraverso Cooper, ci mostra la morte della coscienza collettiva. Ma anche la speranza: l’idea che, attraverso il sogno, si possa ancora ricordare chi siamo.
The Return è un’opera-mondo, un poema sul tempo, la colpa e la redenzione. È l’opera di un uomo che non ha più bisogno di spiegare nulla, perché ha capito che il senso non sta nel rispondere, ma nel continuare a domandare.
Fuori dallo schermo, Lynch è pittore, musicista, scultore, meditatore trascendentale.
Tutto in lui obbedisce alla stessa logica: catturare il mistero, renderlo tangibile.
Le sue tele grondano materia e sogno, i suoi dischi mescolano blues e rumori industriali, le sue interviste sono parabole zen.
“Le idee sono come pesci”, dice.
“Per prendere i pesci grandi, devi andare in acque profonde”.
Ecco la sua filosofia: non controllare, ma accogliere. Non forzare la logica, ma lasciare che l’immagine arrivi da sola.
Lynch medita due volte al giorno, e lo dice con la semplicità di chi ha trovato una verità personale. Ma la sua non è una fuga dal mondo: è un modo per restarci dentro, più lucidamente.
La meditazione, per lui, è come il cinema: un tuffo nell’ignoto.
Chi era, dunque, David Lynch?
Un sognatore lucido. Un artigiano dell’assurdo. Un uomo che ha trasformato la paura in poesia.
Dietro il mistero c’era un uomo dolce, ironico, appassionato di torte e caffè, innamorato del quotidiano. Ma anche un uomo che ha visto il male e non ha distolto lo sguardo.
Lynch non ha mai raccontato il mondo com’è, ma come ci appare nei momenti in cui la realtà si incrina. È il regista del crepuscolo, dell’istante in cui la luce cambia e tutto sembra possibile.
Forse non voleva spiegarci il mondo, ma restituirci la possibilità di stupirci di nuovo.
Oggi il suo nome è leggenda, ma anche un enigma.
I registi che lo imitano spesso dimenticano il cuore che batte sotto le sue ombre. Lynch non è solo il maestro del surreale: è il custode dell’empatia.
I suoi personaggi, Laura Palmer, Betty Elms, Sailor e Lula, Henry Spencer, non sono freaks, ma anime ferite in cerca di salvezza.
E forse è qui la chiave: Lynch non ci spinge verso il buio per spaventarci, ma per mostrarci che anche lì, nel buio più fitto, pulsa una scintilla di luce.
Lynch non ha mai smesso di cercare quella luce. Forse è l’eco di un’infanzia perduta, forse è la voce del sogno che chiama da un’altra stanza.
Nel suo universo, ogni tenda rossa è una soglia, ogni lampo un segnale, ogni sorriso una promessa che si spezza. Ma dietro tutto ciò, dietro il terrore e la bellezza, rimane una domanda sospesa: che cos’è la realtà?
In fondo, David Lynch non appartiene al cinema, ma al sogno.
I suoi film sono finestre aperte sull’inconscio collettivo, specchi deformanti che ci rimandano la nostra stessa immagine.
Non importa se li capiamo o no: l’importante è che ci restino dentro, come un profumo, come un suono che non riusciamo più a dimenticare.
Forse Lynch era solo questo: un uomo che sognava a rovescio, che entrava nel buio per ritrovare la luce, che filmava il silenzio per farci sentire il rumore del nostro stesso cuore.
Un uomo che ha insegnato al cinema a guardare di nuovo.
Chi era, dunque, David Lynch?
Un artista o un profeta? Un alchimista o un narratore? Forse tutto questo, e forse nessuno di questi.
Era un uomo che guardava il mondo con occhi spalancati, come se lo vedesse per la prima volta.
Un uomo che non ha mai smesso di credere che dietro il rumore di un neon, dietro un sorriso, dietro un sogno, potesse esserci qualcosa di più grande.
Il suo cinema non è un tentativo di spiegare la realtà, ma di ascoltarla.
In un’epoca che teme il silenzio, Lynch ci ha insegnato ad abitare il silenzio.
In un tempo che odia la lentezza, ci ha costretto a rallentare.
In un mondo che vuole certezze, ci ha ricordato la bellezza del mistero.
Forse questa è la risposta più onesta:
David Lynch era, ed è, l’uomo che ha trasformato il sogno americano nel suo rovescio, e nel rovescio ha trovato la verità.
Un uomo che ha osato guardare dove nessuno voleva guardare, e che da quel buio ha tirato fuori la luce.




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