James Senese è morto, e con lui se ne va un pezzo irripetibile dell’anima di Napoli, quella che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani, di gridare la verità, di camminare con la testa alta pur sapendo di essere nata nel fango.
Se ne va un uomo che ha vissuto la musica come una missione, una forma di resistenza e di libertà.
Non solo un sassofonista, ma un simbolo, un uomo che ha trasformato la propria storia di marginalità e appartenenza in una dichiarazione di identità collettiva. James Senese, il figlio di una donna napoletana e di un soldato afroamericano approdato in Italia durante la guerra, è stato il suono più sincero e dolente di una città che si porta dentro il blues come una ferita e come un canto.
Cresciuto a Miano, quartiere duro e popolare, James conobbe fin da bambino il peso dello sguardo degli altri, quello che giudica, quello che esclude. La pelle scura, in un tempo in cui bastava un accento diverso per essere “altro”, era una sentenza.
Ma Senese non chiese mai permesso a nessuno.
Scelse di fare della sua diversità una medaglia, una bandiera, un modo di stare al mondo. Il suo sassofono diventò presto una voce che parlava di orgoglio, di rabbia, di dignità. Da lì nacque la leggenda.
Gli anni Sessanta furono il tempo delle prime scintille: con gli Showmen, accanto a Mario Musella, portò a Napoli il linguaggio del soul e del rhythm & blues, mescolandolo con la cadenza partenopea. Era come se Ray Charles e Carosone si fossero dati appuntamento ai Quartieri Spagnoli.
Il risultato era una musica viscerale, potente, nera e mediterranea insieme, che rompeva le regole e ne inventava di nuove. Poi venne la grande stagione dei Napoli Centrale, con Franco Del Prete: un progetto che segnò per sempre la storia della musica italiana.
Niente più confini fra jazz, funk e dialetto, ma un’unica esplosione di energia che raccontava le ingiustizie sociali, la fatica del vivere, l’orgoglio del riscatto. “Campagna”, “A gente e' Bucciano”, “Sangue misto”: titoli che oggi suonano come manifesti, come pagine di una cronaca musicale della Napoli vera, quella che non arriva sulle cartoline.
Senese cantava i disoccupati, gli emarginati, i lavoratori invisibili, i ragazzi di strada, e lo faceva con una voce roca e tagliente, mentre il suo sax urlava come una sirena di fabbrica. Ogni brano era un atto politico, ma anche poetico, perché James non faceva prediche: metteva in musica la vita, nuda e cruda. Collaborò con i più grandi, certo: Pino Daniele prima di tutti, con cui condivise un’amicizia e una visione, quella di una Napoli capace di parlare il linguaggio del mondo senza tradire sé stessa. Senese era l’anima nera del “Neapolitan power”, quella corrente che dagli anni Settanta in poi cambiò per sempre la percezione della musica partenopea, portandola fuori dal folklore e dentro la modernità.
Ma a differenza di tanti, James restò sempre fedele alle origini, non inseguì mai il successo facile. Suonava perché doveva farlo, perché quella era la sua voce, il suo respiro. Non aveva bisogno di orpelli, di coreografie o di effetti speciali: bastava un palco, un microfono, un sax, e la sua presenza riempiva tutto. Era un uomo di fuoco e di silenzi, un artista che sapeva ascoltare prima di suonare, che sapeva trasformare la sofferenza in ritmo, la memoria in improvvisazione. Diceva spesso che la musica è libertà, e lui quella libertà se l’era conquistata nota dopo nota, sudore dopo sudore. Ogni volta che saliva sul palco, anche negli ultimi anni, si sentiva ancora quel ragazzo di Miano con la fame di verità e il coraggio di non piegarsi. La sua era una forma di militanza artistica, un modo per dire che Napoli non è solo la città dei cliché, ma un universo complesso, ferito e bellissimo.
Nel suo sax c’era la città intera: il suono dei motorini, i cori dei mercati, il vento del porto, le preghiere sussurrate alle finestre, il rumore dei treni che partono e non tornano. Ogni solo era un racconto, ogni frase musicale un grido di appartenenza. Eppure Senese non fu mai un monumento a sé stesso.
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| da sinistra: Tony Esposito, Joe Amoruso, Pino Daniele, Tullio de Piscopo, James Senese, Rino Zurzolo |
Nonostante l’enorme influenza sulla musica italiana, restò un uomo schivo, diretto, a volte burbero, ma sempre autentico. Non sopportava la retorica né le finzioni: preferiva parlare con il sax, perché le parole gli sembravano sempre troppo piccole per contenere la verità che aveva dentro. Diceva che suonare significava respirare, che senza musica non avrebbe potuto vivere. E davvero, la sua vita è stata un lungo respiro, un soffio continuo che ha attraversato decenni, mode, rivoluzioni sonore. Negli ultimi anni, quando la salute cominciava a vacillare, non smise di suonare. Ogni concerto era una sfida al tempo, una dimostrazione che la passione non conosce vecchiaia. Aveva ottant’anni, ma l’anima era la stessa del ragazzo che negli anni Sessanta cercava di farsi sentire in un mondo che non lo capiva. E il pubblico lo amava proprio per questo: perché non aveva mai smesso di essere vero.
La sua morte lascia un vuoto immenso, ma non una fine. Perché James Senese non muore davvero. La sua voce, il suo sax, i suoi dischi continueranno a raccontare ciò che lui ha sempre raccontato: la dignità degli ultimi, la fierezza del Sud, la bellezza della mescolanza, la potenza della musica come linguaggio universale. In un Paese che spesso dimentica i suoi poeti, James è stato uno di quelli che hanno resistito. Un poeta del suono, un ribelle gentile, un artigiano della verità. Con lui se ne va una generazione che credeva ancora nella forza della musica come strumento di coscienza.
In tempi di plastica e algoritmi, il suo sassofono resta un richiamo alla carne, al sangue, alla vita vissuta. Napoli perde un figlio, ma guadagna un mito. E quel mito continuerà a risuonare ogni volta che un ragazzo prenderà in mano uno strumento non per apparire, ma per dire qualcosa che brucia. James Senese era e resterà questo: un urlo necessario, un ponte fra culture, un musicista che ha fatto del dolore una forma d’arte e dell’arte una forma di libertà. Ora che il suo sax tace, Napoli è un po’ più silenziosa, ma anche più consapevole di quanto un solo uomo, con la forza della verità, possa cambiare per sempre il suono di una città.
Ciao James, salutaci Pino.




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