Ci sono film che ti cambiano la vita, altri che te la scompigliano, ti ribaltano il sistema nervoso, ti fanno ballare nudo davanti allo schermo e ti insegnano che la vergogna è un’invenzione dei bigotti: The Rocky Horror Picture Show è tutto questo e di più, un esperimento cinematografico che nel 1975 sembrava una parodia del musical e che invece è diventato un culto, una liturgia del disordine, una celebrazione della diversità in tutte le sue forme.
Quando lo vidi la prima volta, non capii subito se fosse genio o follia, ma la verità è che erano entrambe le cose fuse insieme in un abbraccio di latex, brillantini e fluidi corporei.
Il film non si guarda, si attraversa, si vive, si subisce come una scossa elettrica, come un’orgia di immagini, suoni e pulsioni represse che finalmente esplodono in faccia al perbenismo.
È la storia di Brad e Janet, due fidanzatini modello, smarriti nella notte, costretti a chiedere aiuto a un castello gotico popolato da alieni travestiti da rockstar, guidati da un dottore androgino e demente che risponde al nome di Frank-N-Furter, “a sweet transvestite from Transsexual, Transylvania”, e già solo questo basterebbe a spiegare perché il film sia diventato un rito di iniziazione per generazioni di outsider.
Ma sotto la superficie kitsch, dietro le calze a rete e le parrucche cotonate, c’è qualcosa di più profondo, un grido liberatorio contro la normalità, una rivoluzione carnale che anticipa e ingloba tutte le successive ribellioni queer, punk, glam, goth.
Richard O’Brien, che scrisse lo spettacolo teatrale da cui nacque il film, non poteva immaginare che la sua piccola follia underground avrebbe resistito a mezzo secolo di mutazioni culturali, che ancora oggi ci sarebbero sale piene di gente in costume che recita le battute a memoria e lancia riso e giornali bagnati. Il Rocky Horror non è solo un film, è un virus, un rituale collettivo, una messa laica celebrata ogni notte di mezzanotte, una zona franca dove tutto è permesso e nulla è giudicato.
Quando Tim Curry appare in cima alle scale, avvolto nel suo corsetto nero, truccato come una Madonna del peccato, non sta solo interpretando un personaggio: sta incarnando il desiderio di libertà più puro e più perverso che il cinema abbia mai mostrato, un manifesto vivente di autodeterminazione sessuale e anarchia estetica.
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| Tim Curry/Frank - N - Furter |
Frank-N-Furter non è solo un alieno, è un profeta del piacere, un demiurgo che crea la propria creatura di carne, Rocky, come un Frankenstein erotico, e nel farlo distrugge il concetto stesso di normalità. Eppure, sotto l’esuberanza grottesca e il delirio visivo, c’è una malinconia sottile, un senso di perdita, perché in fondo il castello di Frank è un microcosmo che non può durare, un sogno destinato a sbriciolarsi davanti alla realtà, come ogni utopia libertaria che si scontra con la morale del mondo. “Don’t dream it, be it” non è solo uno slogan, è un imperativo morale, una chiamata all’azione, un invito a vivere la propria verità anche quando il mondo la rifiuta.
Io lo sentii come una rivelazione: quel film mi parlava di sesso, di identità, di alienazione, ma soprattutto mi diceva che non ero solo, che c’erano altri come me, pronti a ballare il Time Warp con le ginocchia piegate e il cuore spalancato.
Ed è proprio il Time Warp la chiave del film, la danza che annulla il tempo, che unisce pubblico e schermo, che spezza la linea tra finzione e realtà. “It’s just a jump to the left, and then a step to the right…” — e tutto diventa possibile, il confine tra i sessi si dissolve, la morale si sbriciola, il piacere diventa una forma di conoscenza.
È qui che il Rocky Horror si fa rivoluzionario: non perché predichi qualcosa, ma perché ti mostra la gioia del disordine, la vertigine del desiderio che non chiede permesso. È un film che non giudica nessuno e che per questo è stato giudicato da tutti.
Quando uscì, fu un flop, massacrato dalla critica, ignorato dal pubblico, ma trovò rifugio nelle proiezioni notturne, tra i reietti e gli eccentrici, e lì, nel buio delle sale di provincia, divenne leggenda. La gente iniziò a partecipare, a rispondere alle battute, a vestirsi come i personaggi, a fare del cinema un atto performativo. Era la nascita del midnight movie, del culto partecipativo, della comunità che si riconosce in un film e lo trasforma in un’esperienza collettiva.
E così, nel corso dei decenni, The Rocky Horror Picture Show ha continuato a vivere, immune al tempo, alle mode, ai moralismi di ritorno. Ogni generazione lo riscopre e lo reinventa, perché la sua essenza è eterna: la libertà. Non quella astratta, politica o ideologica, ma quella carnale, istintiva, corporea, la libertà di essere sé stessi anche quando il mondo ride o condanna.
C’è chi lo considera solo una farsa camp, una parodia del cinema horror anni ’50, ma è molto di più: è una seduta di psicoterapia collettiva, un’orgia di simboli e desideri repressi. Il castello di Frank è un labirinto psichico dove ogni stanza rappresenta una deviazione, un vizio, una scoperta, e quando Brad e Janet vi entrano, stanno in realtà entrando nel loro inconscio. Lui, il maschio medio, perde la sua mascolinità borghese; lei, la fidanzatina pudica, scopre il piacere e si emancipa dalla paura. Tutto il film è una danza tra istinto e controllo, tra corpo e mente, tra il bisogno di appartenere e quello di evadere.
Jim Sharman, il regista, costruisce una messa in scena volutamente teatrale, claustrofobica, piena di eccessi e di ironia, come se volesse dirci che il vero spettacolo non è sullo schermo ma dentro di noi. Tim Curry domina ogni scena, trasforma ogni battuta in un doppio senso, ogni gesto in una provocazione. Susan Sarandon e Barry Bostwick, nei ruoli dei due innocenti fidanzatini, incarnano l’America puritana che implode davanti all’irrazionale. E poi ci sono Riff Raff, Magenta e Columbia, fantasmi di un’epoca che non c’è più, creature ambigue e tristi, come se anche loro sapessero che quella festa non durerà per sempre.
Il finale è tragico, eppure liberatorio: Frank viene ucciso, il castello si solleva verso il cielo, la fantasia si dissolve, ma l’esperienza resta. “Lost in time, and lost in space, and meaning”, dice la voce narrante, e noi restiamo lì, sospesi, consapevoli che non potremo più tornare alla normalità.
Ed è proprio questo il dono del Rocky Horror: ti mostra che la normalità è una prigione, che la decenza è solo un’altra maschera, e che sotto la superficie di ogni Brad e Janet si nasconde un Frank-N-Furter pronto a esplodere. Io credo che il segreto del suo fascino immortale stia nel suo essere al tempo stesso liberatorio e malinconico, carnale e cerebrale, osceno e poetico.
È un film sull’eccesso, ma anche sulla sua fine inevitabile.
Il desiderio non può durare per sempre, ma può illuminare la notte.
Forse è per questo che ogni volta che lo rivedo sento una nostalgia dolce, come per una festa che non finirà mai ma di cui già conosco l’epilogo. Eppure continuo a guardarlo, a cantare, a ridere, perché in fondo la vita è proprio questo: un Time Warp infinito tra l’illusione e la verità.
The Rocky Horror Picture Show è la prova che il cinema può essere una forma di ribellione e di appartenenza, che può creare comunità, che può salvare chi non si riconosce in nessun modello. È un film per i freak, gli esclusi, i curiosi, i romantici degenerati che ancora credono che il desiderio sia un atto politico. Ed è anche un monito contro la repressione: ogni volta che la società prova a normalizzare tutto, il Rocky Horror risorge, come un demone che ride, pronto a ricordarci che il piacere è un diritto, non un peccato.
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| Richard O' Brien/Riff Raff |
Nel suo caos scintillante, il film anticipa il punk, la fluidità di genere, la cultura drag, il postmodernismo. È un collage di stili, di citazioni, di riferimenti pop e gotici, un Frankenstein cinematografico come la creatura che ne porta il nome. Ma a differenza del mostro classico, questo film non chiede di essere accettato: pretende di essere amato per la sua devianza.
Ogni fotogramma trasuda libertà, ogni canzone è un invito alla disobbedienza. “Touch-a, touch-a, touch me”, canta Janet, e in quella frase c’è tutto: la scoperta, la paura, la liberazione. È il momento in cui il corpo diventa parola, il desiderio prende voce. E poi c’è il genio musicale di Richard O’Brien, che compone una colonna sonora in cui il rock si mescola al cabaret, al glam e al doo-wop, creando un suono sospeso tra passato e futuro. Non è un caso che molti musicisti, da Bowie a Marilyn Manson, abbiano riconosciuto il debito verso il Rocky Horror.
In fondo, Frank-N-Furter è il fratello oscuro di Ziggy Stardust, l’incarnazione del sesso e della teatralità come forme di resistenza. Guardando oggi il film, dopo cinquant’anni di rivoluzioni e restaurazioni, si capisce quanto fosse avanti, quanto fosse sincero nella sua provocazione. In un’epoca in cui tutto sembra filtrato, corretto, sterilizzato, The Rocky Horror Picture Show è ancora scandaloso perché è vero, perché non ha paura di mostrare il desiderio nella sua forma più pura e ridicola, perché ride di sé stesso e di noi.
È un inno al corpo, ma anche al teatro, alla finzione, alla maschera come verità. “Give yourself over to absolute pleasure” dice Frank, e noi lo facciamo, ogni volta, perché il piacere assoluto non è solo sessuale: è esistenziale.
È accettarsi, spogliarsi, ballare nel buio sapendo che la luce arriverà solo dal riflesso dei lustrini. Ci sono momenti in cui, guardando il film, si ha la sensazione che tutto il mondo sia racchiuso lì dentro, in quel castello, tra un colpo di bacchetta e una risata isterica. È come se O’Brien avesse distillato l’essenza della cultura pop occidentale e l’avesse fatta esplodere in un delirio di piume e rossetto. Ogni epoca ha i suoi miti, ma pochi resistono come questo, forse perché non si lascia possedere: il Rocky Horror cambia con noi, cresce, si rinnova.
Negli anni ’80 era simbolo di trasgressione sessuale, negli anni ’90 di cultura alternativa, oggi è un ponte tra generazioni, un luogo sicuro per chi cerca di capire chi è. E anche se ormai lo proiettano nei teatri, nei cinema d’essai, perfino nei festival universitari, resta intatto il suo spirito sovversivo, la sua energia da spettacolo off-off-Broadway che non chiede permesso.
Ogni volta che vedo il pubblico ballare, cantare, urlare “asshole!” a Brad o “slut!” a Janet, penso che nessun film abbia mai ottenuto tanto amore e tanta partecipazione. È come se ognuno di noi, almeno una volta nella vita, avesse bisogno di travestirsi, di dire “I see you shiver with antici... pation!” e sentirsi libero, almeno per un istante.
E allora sì, il Rocky Horror Picture Show è una magnifica ossessione, una malattia benigna che ti entra nel sangue e non ti lascia più. Ti insegna a ridere di tutto, anche della tragedia, anche della morte, anche della vergogna. Ti insegna che il corpo è un campo di battaglia ma anche un terreno di gioco. Ti insegna che l’amore, il sesso, la follia e l’arte sono la stessa cosa: pura energia vitale. E forse è per questo che, dopo cinquant’anni, non ha perso nulla della sua potenza.
In un mondo che censura, che teme il desiderio, che ricade in moralismi travestiti da progresso, il Rocky Horror resta un faro di anarchia gioiosa, una dichiarazione di indipendenza personale. Chi lo ama lo porta dentro come una religione segreta, come una preghiera laica contro l’omologazione: “Don’t dream it, be it”.
Non sognarlo, vivilo.
Perché, in fondo, il messaggio è semplice: la vita è troppo breve per non essere straordinaria. E allora che suoni ancora il Time Warp, che il castello si illumini di nuovo, che Frank torni a cantare dal buio. Noi saremo lì, a ballare, a ridere, a gridare, a essere liberi per un’ora e mezza, e forse per sempre.

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