venerdì 14 novembre 2025

Il silenzio che suona: viaggio nell’anima di Arvo Pärt

 

Finora su queste pagine ci siamo spesso occupati di suoni più rumorosi, più elettrici, più viscerali, quelli che nascono dall’urgenza di urlare contro il mondo, di spezzare la superficie del reale a colpi di chitarra, di elettronica o di parole. 
Ma il rumore non è l’unica forma di resistenza, né il silenzio è sempre sinonimo di resa. 
Ci sono artisti che combattono in modo diverso, con la forza della sottrazione, con la purezza del suono ridotto all’essenziale.
Arvo Pärt è uno di questi. La sua musica non scuote, non aggredisce, ma scava. È un’eco che rimane, una preghiera senza dogma, una luce che filtra tra le fenditure del tempo. In lui il silenzio non è vuoto, ma spazio sacro. Per questo oggi, pur provenendo da territori sonori più inquieti, abbiamo deciso di fermarci e ascoltare quest’uomo che ha fatto del silenzio il suo strumento più potente.

Nato l’11 settembre 1935 a Paide, in Estonia, Arvo Pärt è una figura sospesa tra luce e silenzio, tra suono e preghiera. La sua vita e la sua opera costituiscono una delle avventure più singolari della musica del Novecento e del nostro tempo. Pärt non appartiene a nessuna scuola, non può essere racchiuso in una corrente: egli è una corrente a sé, un fiume sotterraneo che attraversa la storia della musica contemporanea portando con sé il mistero della semplicità, la fede nel potere salvifico del suono, la tensione verso una purezza che non è stilistica ma spirituale. 
Fin da ragazzo vive in un contesto segnato dal trauma della guerra e dall’occupazione sovietica, e in quel clima di controllo e censura il suo desiderio di esprimersi attraverso l’arte assume una forma quasi ascetica. Studia pianoforte, composizione, e ben presto rivela un talento fuori dal comune, ma anche un’inquietudine che non lo abbandonerà mai. Negli anni ’60, come molti giovani compositori europei, si avvicina alle avanguardie, sperimenta con il serialismo, con la dodecafonia, con la scomposizione del linguaggio tonale. 
Le sue prime opere sono piene di energia e rigore, di matematica e dissonanza, ma qualcosa in lui comincia a scricchiolare. Pärt sente che il linguaggio dell’avanguardia, per quanto intellettualmente stimolante, non parla più al suo cuore. Avverte che la tecnica, quando diventa fine a sé stessa, perde il contatto con il mistero. Decide di fermarsi. Si ritira in silenzio, quasi scompare. È un silenzio lungo e necessario, un deserto creativo che durerà diversi anni. In questo tempo sospeso, Pärt ascolta. Non compone, o meglio, compone dentro di sé. Rilegge la musica antica, riscopre il canto gregoriano, la polifonia rinascimentale, la purezza dei salmi ortodossi. La sua conversione all’ortodossia cristiana coincide con un ritorno all’essenziale, con la scoperta che dietro la complessità tecnica può nascondersi il vuoto, mentre nella semplicità può celarsi l’infinito. 


È da questo silenzio che nascerà il suo nuovo linguaggio, quello che egli stesso chiamerà “tintinnabuli”, dal latino “campanella”
Non un sistema teorico, ma una rivelazione. 
Pärt racconta che un giorno, suonando poche note su un pianoforte, avvertì la sensazione che ogni singolo suono avesse una vita propria, un respiro sacro. ''Ho scoperto che basta una sola nota, se è suonata con purezza, per contenere tutto l’universo'', dirà più tardi. 
Il tintinnabuli si fonda su un principio semplice e misterioso: due voci che camminano insieme, una che segue la melodia, l’altra che si muove all’interno della triade tonica come un’eco, come una campana. È la musica ridotta al suo nucleo originario, spogliata di ogni decorazione. 
L’una rappresenta l’uomo, l’altra il divino, e il loro incontro genera un equilibrio fragile e perfetto. 
In questo spazio minimo si apre un oceano di senso. 
La prima opera che segna questa rinascita è Für Alina (1976), brano per pianoforte di una semplicità disarmante. Poche note sospese, un silenzio che pesa più del suono. Chi l’ascolta per la prima volta può restare spiazzato: non c’è sviluppo, non c’è virtuosismo, non c’è tempo nel senso consueto. Eppure, più lo si ascolta, più si avverte che in quel vuoto si nasconde un mondo intero. È come se Pärt avesse trovato il modo di fermare il tempo, di rivelare il battito nascosto tra un suono e l’altro. 
La sua musica diventa così un’esperienza spirituale, un cammino interiore. 
Nelle sue opere successive -  Fratres, Cantus in Memory of Benjamin Britten, Tabula Rasa, Spiegel im Spiegel - questo linguaggio raggiunge una forma compiuta. 
In Fratres la ripetizione non è mai identica: ogni ritorno è una variazione del respiro, un passo avanti nel cerchio. In Cantus, scritto in memoria di Britten, il tempo scivola come una processione di campane funebri, e il silenzio finale è parte della composizione. Spiegel im Spiegel, con la sua linearità quasi infantile, sembra raccontare il riflettersi di un’anima nell’altra, l’infinita delicatezza del rapporto tra due voci che si specchiano senza mai confondersi. Tabula Rasa, per due violini, preparato e orchestra, è forse l’opera che meglio sintetizza il dramma e la pace, la tensione e la resa. 


Il titolo — “tavola rasa” — allude al desiderio di ripartire da zero, di cancellare tutto per rinascere. Lì, nel lento dissolversi delle linee, nella trasparenza sonora che si alterna a momenti di esplosione, si compie il mistero della sua estetica: distruggere per purificare, semplificare per ritrovare. Ma il linguaggio tintinnabuli non è solo una scelta musicale, è una filosofia dell’essere.
È la convinzione che il suono non sia un ornamento ma una presenza. 
Nelle sue partiture la nota non è un segno ma una preghiera, il silenzio non è vuoto ma luogo dell’ascolto. Ogni composizione è un atto liturgico, anche quando non è destinata a un contesto religioso. La spiritualità di Pärt non è dogmatica, non appartiene a una confessione: è la spiritualità del respiro, della luce che filtra attraverso la materia, della voce che si spoglia per ritrovare sé stessa. Ascoltare Pärt è un esercizio di attenzione, un modo per tornare a sentire il tempo nella sua lentezza naturale, per percepire la vibrazione che ci unisce alle cose. 
Nei suoi lavori corali, come il Te Deum, il Magnificat, il Passio, l’essenzialità raggiunge una dimensione cosmica. Le voci si intrecciano in modo ipnotico, i testi sacri diventano mantra, le armonie si aprono come spazi di luce. Non c’è dramma, non c’è retorica: solo un flusso pacificato che accompagna l’ascoltatore verso l’interno di sé. 
In questi lavori Pärt compie il suo personale incontro tra Oriente e Occidente, tra la solennità bizantina e la trasparenza della tradizione europea, creando un suono che appartiene a tutti e a nessuno, un ponte tra culture e tempi. 
L’ascolto del Te Deum, con la sua calma dilatata, suggerisce una sospensione del respiro, una visione che trascende la musica stessa. Non a caso, la sua opera ha trovato un pubblico vastissimo, anche al di fuori delle cerchie accademiche. Pärt non ha mai cercato la popolarità, ma la popolarità lo ha trovato. Forse perché la sua musica risponde a un bisogno profondo, universale: quello di silenzio, di senso, di trascendenza. In un secolo dominato dal rumore e dalla velocità, egli ha scelto di rallentare, di tornare alla nota singola, alla parola unica, al suono che vibra come un respiro. È un gesto radicale, e per questo rivoluzionario. 
La sua arte non urla, non impone, non persuade: invita. 
Invita a fermarsi, ad ascoltare, a riconoscere nel suono qualcosa che ci supera. Dietro questa apparente serenità si nasconde però una storia di dolore e resistenza. L’Estonia sovietica degli anni ’60 e ’70 non era un luogo facile per un artista che cercava la libertà spirituale. Le autorità vedevano con sospetto le sue inclinazioni religiose, la sua distanza dalle linee estetiche ufficiali. Più volte le sue opere vennero censurate, rifiutate o eseguite con difficoltà. Pärt reagì con il silenzio, con la pazienza, e infine con l’esilio. Nel 1980, insieme alla famiglia, lasciò l’Estonia per Vienna, e poi per Berlino Ovest. Lontano dalla patria, trovò la libertà ma anche la malinconia del distacco. Tuttavia, la sua musica portava già dentro di sé una patria spirituale, e ovunque andasse, quella patria lo seguiva. Con il tempo è diventato il compositore vivente più eseguito al mondo, eppure continua a vivere in modo ritirato, lontano dai clamori, nella semplicità di chi considera la creazione come un servizio e non come un potere. Parlare di Arvo Pärt significa parlare anche del nostro tempo. In un’epoca che confonde la complessità con la profondità, la sua musica rappresenta un gesto di disobbedienza: non aggiungere ma togliere, non correre ma attendere, non gridare ma ascoltare. 


È un’arte della sottrazione, ma di una sottrazione che arricchisce. Ogni suo brano è un invito alla concentrazione, un piccolo monastero sonoro in cui il rumore del mondo resta fuori. E forse è proprio questa la sua rivoluzione: proporre, in piena era del consumo, un’esperienza di vuoto fertile, di silenzio che parla. 
L’ascolto della musica di Arvo Pärt è un rito. 
Si entra in una stanza silenziosa, si preme “play”, e subito si avverte che qualcosa cambia nell’aria. Non succede molto, apparentemente, ma dentro accade tutto. 
Le note si ripetono, si rispondono, si spogliano del tempo. 
È come se la musica non scorresse ma respirasse, come se ci costringesse a misurare la distanza tra un suono e l’altro, tra noi e noi stessi. È musica che non accompagna, ma conduce. 
In Spiegel im Spiegel si avverte la delicatezza di un respiro condiviso, la lentezza che si fa luce; in Fratres la ripetizione è un rosario, una spirale che ci avvolge; in Tabula Rasa l’orchestra diventa un organismo vivente che geme, prega, scompare. Ogni nota è una domanda, ogni pausa una risposta. 
Arvo Pärt non scrive per stupire, scrive per ricordare. 
Ricordare che l’arte nasce dal silenzio, che la bellezza non è nel decoro ma nella verità. La sua musica non consola, ma disarma. Non offre spiegazioni, ma presenza. Chi la ascolta si trova improvvisamente di fronte a sé stesso, come se un muro fosse caduto. 
È per questo che tanti registi, da Tarkovskij a Malick, hanno scelto i suoi brani per accompagnare immagini di contemplazione e perdita: perché la musica di Pärt non illustra, ma rivela. In essa non c’è tempo storico, c’è tempo interiore. Non c’è progresso, ma rotazione. È un’arte che non racconta ma prega, che non avanza ma respira. Il suo rapporto con il silenzio è quasi fisico. 
Il silenzio non è assenza ma sostanza, il luogo in cui il suono nasce e ritorna. Ogni composizione di Pärt è costruita come una tensione verso quel ritorno. È un modo di dire che tutto ciò che è creato tende alla quiete, che ogni rumore cerca la pace, che anche il dolore ha bisogno di essere accolto nel silenzio. C’è qualcosa di profondamente umano in questa visione: l’idea che la musica non debba riempire ma aprire, non possedere ma liberare. 
Nel mondo di Pärt, la bellezza non è un lusso ma una necessità, non è estetica ma etica. 
Egli ci ricorda che il suono, come la parola, può essere preghiera o menzogna, e che il compito dell’artista è di restare fedele alla verità del suono, come un monaco fedele alla sua ora di preghiera. Anche la sua figura pubblica riflette questa coerenza. Non concede interviste, non frequenta salotti, non si presta al gioco mediatico. 
Vive appartato, in ascolto. 


Le sue rare parole sono sempre misurate, e quando parla della musica sembra parlare della vita. Dice che ogni nota deve essere amata, che non esiste una gerarchia tra suono e silenzio, che la musica è come una candela: non brucia per sé stessa ma per la luce che emana. In un certo senso, Arvo Pärt è il compositore del XXI secolo proprio perché è fuori dal tempo. 
Mentre la cultura dominante celebra la velocità, lui insegna la lentezza. 
Mentre la società accumula, lui toglie. 
Mentre tutto si misura in quantità, lui cerca la qualità dell’attimo.
La sua musica non è nostalgia di un passato ideale, ma visione di un futuro più umano, dove l’arte torna ad essere linguaggio dell’anima. 
Ascoltare Für Alina oggi, nel frastuono digitale, è ricordarsi che esiste un ritmo più lento, più profondo, che ci abita e che abbiamo dimenticato. 
È riscoprire il valore della semplicità, dell’attesa, della presenza. 
In questo senso, Pärt non è solo un compositore: è un maestro spirituale del suono, un poeta del silenzio, un artigiano del tempo. 
La sua opera, nella sua apparente immobilità, è un invito a cambiare sguardo sul mondo. Perché nel suono più piccolo, nella pausa più lieve, si nasconde l’infinito. Forse il suo più grande merito è averci restituito la fiducia nel silenzio, nel fatto che non tutto deve essere detto, che a volte basta una sola nota per capire. 
La musica di Arvo Pärt è una porta. 
Chi ha il coraggio di attraversarla scopre che dall’altra parte non c’è il nulla, ma la vita stessa, nella sua essenza più limpida. 
E allora il silenzio che segue l’ultima nota non è una fine, ma un inizio.
 



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