mercoledì 12 novembre 2025

Neil Young: 80 anni senza ruggine


Ottant’anni di Neil Young. 
Basta pronunciare quel nome per evocare un intero universo di suoni, ribellioni, silenzi e tempeste interiori. 
È il 12 novembre 2025, e un uomo dai capelli argentati e dallo sguardo ancora febbrile, che sembra uscito da un romanzo di Jack London, compie ottant’anni. 
Non è un compleanno qualsiasi, non è un tributo d’obbligo a un’icona della vecchia guardia: è il riconoscimento di un artista che non ha mai smesso di essere un’anomalia, una contraddizione vivente, un profeta ruvido e scomodo del rock. 
Neil Young è stato tutto e il contrario di tutto: hippie e contadino, cantautore acustico e rumorista elettrico, sognatore e cinico, folk singer e sciamano del feedback, attivista e misantropo. Ha attraversato più di mezzo secolo di storia americana cantandone la bellezza e l’inganno, i tramonti dorati e la ruggine, le illusioni infrante e le speranze ostinate. Eppure, a ottant’anni, non si ha la sensazione di assistere a una celebrazione nostalgica, ma piuttosto di trovarsi davanti a una presenza ancora viva, ingovernabile, che continua a interrogarci e a disturbare i nostri automatismi. Young non è mai stato un monumento, ma un cantiere aperto.

È nato nel 1945, a Toronto, in un mondo che stava ancora contando i morti della guerra, e fin da ragazzo ha mostrato quella febbre inquieta che lo accompagnerà per tutta la vita. 
La poliomielite lo colpì duramente da bambino, lasciandogli un’ombra di fragilità fisica che si trasformerà in forza spirituale: l’idea che la vita è un equilibrio precario, e che ogni canzone, ogni nota, può essere un modo per affermare la sopravvivenza. Dalla giovinezza canadese al trasferimento negli Stati Uniti, dal primo gruppo, i Buffalo Springfield, fino ai capolavori da solista, Neil Young ha sempre incarnato la figura dell’artista che rifiuta le regole, che sfugge a ogni etichetta. 
Non ha mai voluto piacere a tutti, anzi, ha costruito la propria grandezza proprio sulla coerenza del dispiacere: deludere chi si aspettava il prevedibile, rompere con chi voleva addomesticarlo. 
Così, dopo aver raggiunto il successo con i Buffalo Springfield – e con quel brano, “For What It’s Worth”, divenuto inno generazionale del ’68 – preferì sciogliere la band e iniziare da solo, avventurandosi in territori ancora più sinceri, più personali, più spietati.
Gli anni Settanta, per Neil Young, furono un decennio di vertigine e contraddizione. 
Da una parte la dolcezza malinconica di “After the Gold Rush”, dall’altra la rabbia elettrica di “Tonight’s the Night”; da una parte il lirismo campestre di “Harvest”, dall’altra la crudezza distorta di “Rust Never Sleeps”
Non c’è un solo Neil Young, ma decine: il giovane idealista con la chitarra acustica, l’uomo ferito che piange gli amici morti di overdose, l’agricoltore che cerca rifugio nella natura, il vecchio punk che brandisce la Gibson come un’arma. 
Nei solchi dei suoi dischi si trova un’intera filosofia dell’inquietudine: non smettere mai di cambiare, non ripetersi, non cedere al comfort. “It’s better to burn out than to fade away”, cantava in “My My, Hey Hey”, e quella frase, tatuata nella memoria collettiva del rock, è diventata il manifesto di una generazione che preferiva bruciare piuttosto che invecchiare senza senso. 
Ma Neil non si è mai bruciato: ha trovato un modo per ardere lentamente, per mantenere viva la fiamma senza consumarsi.
A differenza di molti suoi contemporanei, che hanno accettato il ruolo di leggende compiacenti, Young ha sempre resistito al proprio mito. È stato un sabotatore di se stesso, un artista che cambiava direzione proprio nel momento in cui il pubblico pensava di averlo capito. Quando tutti si aspettavano un altro “Harvest”, pubblicò “Time Fades Away”, un album dal vivo ruvido, imperfetto, disilluso. Quando l’industria discografica cercava di spingerlo verso sonorità radiofoniche, rispose con “Trans”, un disco sperimentale di musica elettronica che spiazzò chiunque. 
E quando, negli anni Ottanta, la moda era l’edonismo sintetico, lui tornò alla terra, alla polvere, alla ruggine. 
Neil Young è stato un anti-eroe della musica popolare, e proprio per questo un eroe autentico: ha incarnato la libertà artistica in un’epoca che cercava di trasformare ogni cosa in prodotto.


Ma Neil non è solo un musicista: è un testimone della storia americana. Le sue canzoni hanno attraversato decenni di disillusioni e rivoluzioni, raccontando il sogno americano e la sua lenta agonia. “Ohio”, scritta in risposta alla strage di studenti a Kent State nel 1970, resta una delle più potenti canzoni di protesta mai scritte: quattro minuti di rabbia pura, un urlo contro la violenza del potere. “Southern Man” e “Alabama” denunciarono il razzismo radicato negli Stati del Sud, e aprirono una ferita nel cuore del rock, al punto da spingere i Lynyrd Skynyrd a rispondere con “Sweet Home Alabama”. Ma Neil non voleva guerre di bandiere: voleva solo la verità, anche quando era scomoda. “Rockin’ in the Free World”, negli anni Ottanta, suonava come un inno, ma era in realtà una feroce denuncia della povertà e dell’ipocrisia dell’America reaganiana. 
Le sue parole non si sono mai adagiate sul patriottismo di maniera: erano fango, sangue, elettricità, compassione e collera.
Nel tempo, il suo rapporto con la natura è diventato quasi mistico. Young non è mai stato un ecologista di facciata, ma un uomo che ha fatto della terra una religione. 
Il suo ranch, Broken Arrow, in California, non è soltanto una casa: è un luogo di resistenza contro la disumanizzazione tecnologica, un rifugio in cui la musica e la vita si fondono. Le sue battaglie per l’ambiente e contro le multinazionali del petrolio, i suoi progetti per la sostenibilità (come la vettura elettrica “LincVolt”) non sono semplici dichiarazioni d’intenti, ma il prolungamento coerente della sua arte. 
Neil Young è sempre stato un dissidente del progresso: un uomo che ama la tecnologia ma diffida del potere che la gestisce, che canta la modernità ma si schiera con la natura. In questo, ricorda Thoreau o Emerson, i grandi trascendentalisti americani: l’idea che la libertà individuale nasce solo dal contatto diretto con la realtà, non dalle sue simulazioni.
Eppure, sarebbe riduttivo leggere Neil solo come un moralista o un profeta. La sua forza sta nella contraddizione, nel continuo oscillare tra luce e ombra, idealismo e disincanto. La sua voce, quella voce spigolosa, a volte lamentosa, altre volte dolcissima, è lo specchio di questa complessità. Non è una voce “bella”, non è addomesticata, ma proprio per questo arriva dritta all’anima. 
Quando canta “Heart of Gold”, sembra che stia parlando a ciascuno di noi, confessando la fragilità universale della ricerca di qualcosa di puro in un mondo corrotto. Quando invece affonda nella distorsione di “Cortez the Killer”, la sua chitarra diventa un urlo primordiale contro la violenza della storia, contro il colonialismo, contro il mito della conquista. Ogni nota di Neil Young contiene una crepa, e in quella crepa abita la verità.


Forse è questo il segreto della sua longevità artistica: non aver mai cercato la perfezione, ma l’autenticità. Neil non suona per piacere, suona per dire qualcosa. Anche oggi, a ottant’anni, i suoi concerti con i Crazy Horse non sono revival malinconici, ma cerimonie tribali in cui il tempo si annulla. Le chitarre si fondono in un muro di suono che è allo stesso tempo catartico e fragile, come se ogni brano fosse un esorcismo contro la morte. “Ragged Glory”, “Sleeps with Angels”, “Greendale”, “Psychedelic Pill”: ogni fase della sua carriera ha avuto un senso preciso, una necessità. 
Non si tratta di mantenere viva la carriera, ma di continuare a cercare un senso in mezzo al rumore del mondo.

Neil Young ha influenzato generazioni di musicisti in modo trasversale, dai Pearl Jam a Sonic Youth, da Wilco a Radiohead, da Nirvana a Father John Misty. 
Kurt Cobain citò la sua frase “It’s better to burn out than to fade away” nel suo biglietto d’addio, ma Neil, sconvolto, dichiarò che quella frase non era un invito alla morte, bensì un monito alla coerenza. Il peso simbolico di quella citazione ha mostrato quanto Young fosse radicato nell’immaginario del rock: un faro per chi cercava autenticità in un mondo di falsi idoli. Eddie Vedder lo chiamava “il nonno del grunge”, e in effetti il suono sporco e viscerale dei Crazy Horse anticipò di decenni l’estetica del rock alternativo. 
Ma Neil non ha mai voluto essere un padre nobile di nulla: preferiva essere un fratello maggiore che ti spinge a disobbedire.
Negli ultimi anni, mentre molti suoi coetanei si ritiravano o si limitavano a riproporre vecchi successi, Young ha continuato a incidere dischi, spesso autoprodotti, spesso fuori dai circuiti tradizionali. “Le Noise”, “Earth”, “The Monsanto Years”, “Colorado”, “Barn”: titoli che raccontano una coerenza ostinata, una rabbia ancora viva, una poesia che non invecchia. Non c’è compiacimento, non c’è autocelebrazione: c’è un uomo che guarda il mondo con occhi stanchi ma ancora lucidi, che canta la follia della modernità digitale, la devastazione ecologica, la perdita di empatia. 
Neil Young, oggi, è una sorta di testimone morale dell’Occidente: un vecchio lupo che continua a ululare nella notte, ricordandoci che la libertà non è mai gratuita.


È anche un uomo che non ha paura di cambiare idea, di essere incoerente, di ammettere le proprie contraddizioni. Ha sostenuto e poi criticato vari presidenti americani, si è schierato per cause impopolari, ha attaccato le piattaforme di streaming come Spotify per la bassa qualità audio e per la disinformazione sanitaria diffusa da Joe Rogan, togliendo la sua musica in segno di protesta, salvo poi tornare sui suoi passi.
Pochi, a quell’età, avrebbero il coraggio di rinunciare a milioni di ascolti per un principio. 
Ma Neil Young non ha mai cercato l’approvazione: ha sempre cercato la verità. Ed è per questo che, ancora oggi, la sua voce ha peso, anche quando non si è d’accordo con lui.
Neil Young non è soltanto il passato glorioso di un’epoca che non c’è più. È una bussola morale e artistica in un tempo confuso. Le sue canzoni ci ricordano che la musica può ancora essere un atto politico, un gesto di libertà, una forma di resistenza. In un mondo in cui tutto è programmato, filtrato, ottimizzato, lui resta un corpo vivo, imperfetto, che non ha paura di sbagliare. E forse è proprio questo il suo dono più grande: aver dimostrato che la sincerità è più importante della precisione, che la ruggine non dorme mai, che la fragilità può essere forza.

A ottant’anni, Neil Young non è un santino del rock, ma un uomo che continua a camminare nel vento, con la chitarra a tracolla e la testa piena di canzoni. Ci ha insegnato che la musica non serve solo a intrattenere, ma a sopravvivere. Che ogni canzone è una mappa dell’anima, un tentativo di orientarsi in un mondo che cambia troppo in fretta. Ci ha insegnato che la coerenza non è rigidità, ma capacità di restare fedeli a se stessi anche mentre tutto intorno crolla. E ci ha insegnato che, anche quando tutto sembra perduto, una melodia può ancora salvarci.

Quando Neil sale sul palco, ancora oggi, e attacca le prime note di “Like a Hurricane”, si ha la sensazione di assistere a qualcosa di più di un concerto: è un rito, una tempesta, una confessione collettiva. Le sue dita, segnate dagli anni, trovano ancora la strada tra le corde; la sua voce, incrinata dal tempo, risuona più vera che mai. Non importa se le luci sono spente o se la folla non è più quella delle grandi arene: ciò che conta è la fiamma. Perché Neil Young non ha mai cantato per essere ricordato, ma per restare vivo. E ottant’anni dopo, è ancora qui, a ricordarci che la libertà è un dovere, che la musica può essere un’arma, che la sincerità è rivoluzionaria.
Se esiste un’eredità di Neil Young, non è fatta solo di dischi o canzoni, ma di un modo di stare al mondo. È l’idea che l’arte non deve mai smettere di disturbare, che la bellezza nasce dal conflitto, che il tempo può corrodere tutto tranne l’integrità. In un’epoca come quella attuale, fatta di plastica e algoritmi, Neil è rimasto un uomo di legno e ferro, di terra e vento, di carne e anima. 
Il ragazzo che cercava un “cuore d’oro” non l’ha forse mai trovato, ma nella sua ricerca infinita ha lasciato a tutti noi la mappa di un tesoro: la capacità di restare umani, di guardare in faccia la verità, di cantare anche quando la voce trema.


Ottant’anni, dunque, e ancora in cammino. 
Neil Young è l’ultimo dei Mohicani, il cantore delle faglie, il guardiano della ruggine. Il suo sguardo attraversa il tempo come una lama di luce tra le nuvole. Le sue canzoni, ascoltate oggi, non suonano vecchie: suonano necessarie. In un mondo che dimentica in fretta, lui ci ricorda che la memoria è un atto politico. In un’epoca di finzioni, lui ci ricorda che la verità è spesso stonata. In un tempo di paura, lui ci insegna che la fragilità è la forma più pura del coraggio.

E così, mentre il vento del nord soffia e la luna risale dietro le colline, Neil Young compie ottant’anni. Da qualche parte, forse su un palco, forse nel silenzio del suo ranch, accorderà la chitarra e canterà ancora una volta, per sé e per noi. 
Perché la musica, quando è vera, non invecchia mai. Perché la ruggine, come diceva lui, non dorme mai. E perché in ogni cuore che continua a cercare, c’è un po’ di Neil Young.
 



Nessun commento:

Posta un commento

Ottobre

DISCO DEL MESE  The Necks - Disquiet Con Disquiet, i The Necks tornano a esplorare quella sottile linea di confine tra improvvisazione e com...

Archivio