venerdì 5 settembre 2025

Looking back 8: Jesus and Mary Chain - Psychocandy (1985)

 


Ci sono dischi che si ricordano. 
Altri che si riconoscono. 
Poi c’è Psychocandy, che non somiglia a nulla se non a se stesso. 
Un vortice sonoro che ha aperto una ferita nella carne del pop, una mitraglia distorta sparata in pieno volto all’ordine costituito della musica degli anni ’80. 
E ancora oggi brucia, disturba, consola. 
In un certo senso, non è mai finito.

C’era qualcosa di marcio in Scozia nei primi anni Ottanta. A East Kilbride, sobborgo grigio della cintura industriale di Glasgow, due fratelli crescono nella noia tossica delle periferie, tra lettori di Nietzsche da discount, punk ormai svuotato di ogni rabbia e un clima culturale dominato da un’edonistica Thatcherland. 
William e Jim Reid non vogliono fare carriera, non vogliono diventare famosi, vogliono ''distruggere il pop''
Ma farlo con le sue stesse armi.
Il risultato si chiama Psychocandy, pubblicato il 18 novembre 1985 per la storica Blanco y Negro Records. 
È l’esordio dei Jesus and Mary Chain, ed è anche una delle più brutali dichiarazioni d’intenti della storia del rock. 
Un disco che non chiede il permesso: entra nella testa, accende cortocircuiti, seduce e ferisce.

William e Jim Reid

L'album è un manifesto: trasformare la dolcezza in veleno, la melodia in assalto, la nostalgia in catarsi. Una vendetta rumorosa contro l’estetica lisergica anni ’60, spinta in un abisso di feedback e distorsione.
A un primo ascolto, Psychocandy è quasi inascoltabile. 
Un’orgia di chitarre impazzite, riverberi che sembrano trapani, voci coperte da strati di rumore bianco. Ma sotto quella cortina di suono, sotto la superficie tagliente e inospitale, pulsa il cuore pop più puro che si possa immaginare.
Il disco è una sorta di ''guerra fredda'' tra melodia e rumore, tra il candore della forma canzone e la brutalità della sua esecuzione. Brani come Just Like Honey,The Hardest Walk, Some Candy Talking (aggiunta nella versione americana) sono piccoli inni all’adolescenza e alla disperazione sentimentale, ma annegati in una tempesta elettrica che li deforma, li rende tossici e sensuali.
Come disse William Reid: ''Suonavamo come i Beach Boys mentre prendono a calci una distorsione.”
E non era una posa. 
Era un’estetica. 
Un progetto. 
Una dichiarazione di guerra.

L’importanza di Psychocandy non è solo musicale, è culturale. Arriva in un momento in cui la musica inglese si sta dividendo tra synth-pop plastificato e residui post-punk alla frutta. 
Gli Smiths avevano da poco pubblicato Meat Is Murder, i Cure erano già passati dal gotico alla new wave, i Joy Division erano morti insieme a Ian Curtis.


I Mary Chain arrivano come un’implosione estetica, riportando in vita l’immaginario rock ’n’ roll degli anni ’50 e ’60, occhiali da sole, giacche di pelle, l’ombra di Elvis, ma trasfigurandolo in qualcosa di sinistro, violento, autodistruttivo. 
I concerti della prima ora durano venti minuti e si chiudono in risse, bottiglie rotte, strumentazione gettata sul pubblico. 
E loro sembrano divertirsi.
C’è una forma di nichilismo teatrale, ma è anche una reazione concreta: un’esplosione di disagio suburbano, di alienazione postindustriale. 
La provincia scozzese non produce sogni, ma frustrazione. E quella frustrazione trova una lingua nel rumore.

Non esisterebbero i My Bloody Valentine, i Ride, gli Slowdive, senza Psychocandy
Il cosiddetto shoegaze nasce qui, nei solchi di questo disco. 
Non ancora pienamente codificato – mancano le texture fluttuanti, le sovraincisioni cosmiche – ma già tutto presente in embrione: l’effetto Larsen, la voce bassa e impassibile, la distorsione come linguaggio emotivo.
Kevin Shields, mente dei My Bloody Valentine, lo ha detto chiaramente: ''Psychocandy mi ha cambiato la vita. Era il disco che aspettavamo senza saperlo.”
Ma anche nel noise americano, nei Sonic Youth, nei Dinosaur Jr., nell’emo-core più melodico, l’eco dei Mary Chain risuona forte. Hanno aperto una porta: da lì sono passati in molti. E spesso senza nemmeno sapere chi l’avesse spalancata per primo.
Le canzoni:
  • Just Like Honey - Un’apertura beffarda: il brano più famoso, una ballata da sogno, viene subito inghiottita da un suono che sembra venire da un vecchio mangianastri rotto. La batteria minimale, suonata da Bobby Gillespie (futuro leader dei Primal Scream), fa da impalcatura a un amore tossico e dolcissimo. È il loro Be My Baby, ma al Valium.
  • The Living End / Taste the Floor / In a Hole - Qui il suono si fa davvero abrasivo. La chitarra è un urlo metallico, la voce è distante, quasi indifferente. Il corpo del disco si costruisce su queste trame violente, ripetitive, ossessive. Il pop viene sabotato, fatto a pezzi.
  • Some Candy Talking - Tecnicamente non presente nell’edizione originale UK, ma simbolica. Una canzone che parla di desiderio, di perversione, di labbra e tossicodipendenze emotive. “It goes deeper than words,” canta Jim Reid, e si capisce che non sta bluffando.
  • Never Understand - Il primo singolo, il primo schiaffo. Chitarre talmente distorte da diventare un muro di pietra. Nessuno aveva mai osato portare un brano così cacofonico nella top 50 britannica. Una rivoluzione nel mainstream.

Il segreto di Psychocandy è tutto in questa tensione irrisolta. Ogni canzone sembra lottare con se stessa: da una parte l’istinto pop, dall’altra la voglia di rovinare tutto. E spesso vincono entrambi. È musica adolescente nel senso più tragico e profondo: non rassegnata, non diplomatica, non matura. 
Una dichiarazione d’amore lanciata con una molotov.
In un’intervista dell’epoca, Jim Reid dichiarava: “Volevamo che il nostro disco suonasse come una carezza e un pugno in faccia allo stesso tempo.”
Missione compiuta.

Prodotto dai fratelli Reid insieme a Alan McGee, patron della Creation Records, Psychocandy è il frutto di un processo creativo tanto caotico quanto deliberato. Niente è lasciato al caso. Ogni feedback, ogni interferenza, ogni rumore è calibrato con precisione chirurgica.
I Reid registrarono il disco con un budget ridotto, ma con idee chiarissime: volevano sabotare le aspettative, annullare le regole, mostrare che la bellezza può anche ferire. La produzione grezza, quasi lo-fi, diventa parte integrante dell’opera. Non è un limite, ma un’estetica radicale.
Esteticamente, i Jesus and Mary Chain erano iconici. Tutto in loro comunicava rifiuto, distacco, provocazione: capelli scarmigliati, sguardi bassi, giacche di pelle, sigarette spente sul palco. 
Nessuna interazione col pubblico. 
Nessuna concessione. 
Solo rumore e malessere.
Il loro immaginario pescava nei Velvet Underground, nei Suicide, in Phil Spector, in Bo Diddley, ma riassemblava tutto in una icona postmoderna, gelida, tossica e seducente. 
Un culto dell’impassibilità che anticipava di anni il mood generazionale del grunge.


La critica britannica fu spiazzata. Alcuni definirono l'album un capolavoro, altri una truffa rumorosa. Ma il pubblico rispose: l’album entrò nella top 40, i concerti erano sempre più affollati e sempre più ingestibili. Il caos faceva parte del gioco.
In America, invece, Psychocandy divenne un culto underground. Troppo radicale per le radio, troppo punk per gli hipster, troppo pop per gli alternativi. 
Ma era ovunque: nei college, nei negozi di dischi indipendenti, nei primi club shoegaze.

Oggi, quarant’anni dopo, Psychocandy non ha perso nulla della sua forza. È ancora brutale, dolce, disturbante. 
È ancora un oggetto alieno. 
È ancora in anticipo.
Il disco è stato ristampato, celebrato, reinterpretato. 
I Mary Chain sono tornati, hanno suonato tutto Psychocandy dal vivo nel 2014. 
Ma nulla potrà mai replicare quella furia giovanile, quel senso di necessità. 
Era un atto d’urgenza. 
Un suicidio sonoro. 
Un amore impossibile.


“Era come se i Ronettes fossero stati prodotti dagli Einstürzende Neubauten” — Melody Maker, 1985
“Abbiamo preso il pop, lo abbiamo tenuto per la gola e ci abbiamo urlato dentro” — Jim Reid
“Psychocandy è il rumore dei sogni che si disintegrano e dei ricordi che si trasformano in vetro rotto” — Simon Reynolds


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