martedì 2 settembre 2025

Il silenzio è morte!

 
Ci sono momenti nella storia in cui il silenzio equivale a complicità, in cui l’indifferenza diventa la più feroce delle armi e in cui il calcolo geopolitico si trasforma in un lasciapassare per lo sterminio.
Oggi viviamo uno di quei momenti. 
Non c’è più tempo per le mezze frasi, per gli equilibrismi retorici, per la retorica ipocrita delle diplomazie occidentali: quello che sta accadendo in Palestina, sotto gli occhi di tutti, è un GENOCIDIO!
E questo genocidio porta un nome preciso: Benjamin Netanyahu. 
Un uomo che, per la brutalità delle sue scelte e per la disumanizzazione sistematica di un intero popolo, merita di essere accostato senza esitazione a quei personaggi dell’epoca nazista che resero l’Olocausto una realtà di sangue e macerie. 
Il paragone non è un esercizio retorico, è il risultato di una constatazione: l’esercito israeliano, sostenuto in maniera diretta o indiretta da potenze mondiali, sta portando avanti un’operazione pianificata e scientifica di distruzione totale. Case, scuole, ospedali, campi profughi, persino i luoghi di culto: nulla viene risparmiato. 
La logica è chiara: annientare la popolazione palestinese, ridurla a un’ombra, a un ricordo, a un numero tra le statistiche dei morti. 
Secondo le principali organizzazioni per i diritti umani, i bombardamenti israeliani hanno già causato decine di migliaia di vittime civili, con una percentuale altissima di donne e bambini. Non si tratta di ''effetti collaterali'', non è la tragica casualità della guerra. 
È la scelta deliberata di colpire la popolazione civile per terrorizzarla, per spezzarne la resistenza, per piegarla a un destino di cancellazione. Le immagini che arrivano da Gaza e dalla Cisgiordania parlano da sole: bambini sepolti sotto le macerie, ospedali bombardati, medici che operano senza anestesia, convogli umanitari colpiti. Netanyahu e i suoi generali non vogliono semplicemente combattere un nemico armato: vogliono cancellare un popolo dalla storia.


Chiunque abbia studiato la Shoah sa che i genocidi non cominciano all’improvviso: maturano nel tempo, attraverso la propaganda, la disumanizzazione dell’altro, la costruzione del nemico assoluto. È ciò che da anni Israele fa con i palestinesi. Definiti ''animali umani'', trasformati in massa indistinta e priva di diritti, privati di acqua, elettricità, libertà di movimento. 
Una gabbia a cielo aperto che si è trasformata, sotto Netanyahu, in un campo di sterminio diffuso. Benjamin Netanyahu non è un uomo solo. È il terminale di una lunga tradizione politica che ha fatto dell’espansione coloniale e dell’odio etnico la propria ragion d’essere. Ma oggi, più di chiunque altro, è lui il simbolo della brutalità assoluta. Un leader che ha trasformato Israele in una macchina bellica, che ha svuotato di senso le parole sicurezza e difesa per mascherare una guerra di aggressione totale.
I leader nazisti costruirono la loro ideologia sull’idea di una razza superiore destinata a dominare. Netanyahu costruisce la sua politica sull’idea che la vita dei palestinesi non abbia valore, che un popolo possa essere cancellato per il bene di un presunto diritto storico. 
La logica è la stessa: disumanizzare per giustificare la violenza, annientare per costruire un nuovo ordine. Ed è qui che l’analogia con il nazismo non appare più come un tabù, ma come una necessità etica. Perché se il ''mai più'' pronunciato dopo Auschwitz deve avere un senso, allora deve valere oggi per Gaza. 
Mai più significa mai più per chiunque, non solo per alcuni. 
Ma il genocidio non sarebbe possibile senza la complicità di chi guarda e tace. 


Stati Uniti, Unione Europea, governi che si riempiono la bocca di diritti umani e democrazia: tutti loro hanno scelto da che parte stare. Non con le vittime, ma con il carnefice. Washington continua a fornire armi e sostegno politico incondizionato a Israele, mentre Bruxelles si limita a qualche dichiarazione di facciata, temendo più le ritorsioni economiche e diplomatiche che il giudizio della storia. 
L’Italia, con il suo governo inginocchiato davanti alla geopolitica atlantica, non fa eccezione: condanna generica della violenza, ma nessuna reale presa di posizione contro Netanyahu. 
Questa ipocrisia è veleno. 
È la stessa ipocrisia che negli anni ’30 permise a Hitler di crescere indisturbato, tra accordi economici e pacificazioni illusorie. Oggi, come allora, il mondo cosiddetto civile preferisce voltarsi dall’altra parte. Eppure, nonostante tutto, il popolo palestinese resiste. 
Resiste nei campi profughi, resiste nelle macerie, resiste nel ricordo dei martiri, resiste con la cultura, con la poesia, con i segni di vita che ancora spuntano in mezzo al cemento bombardato. È questa resistenza che Netanyahu vuole spegnere, perché ogni bambino palestinese che cresce è la smentita vivente della sua ideologia di annientamento. Il linguaggio della resistenza è universale. Non è solo un grido palestinese: è il grido di chiunque, ovunque, rifiuti di accettare il genocidio come normalità. È il grido che attraversa le piazze di Londra, Parigi, Roma, New York, Berlino, dove migliaia di persone manifestano contro la guerra e contro l’ipocrisia dei governi. 
Questa voce deve diventare assordante. 
Deve spaccare il muro della propaganda, deve imporre alla politica di fermare l’orrore. 
Uno degli strumenti più potenti di questo genocidio è il silenzio mediatico. I grandi media occidentali continuano a presentare la questione come un conflitto ''tra due parti'', cancellando la sproporzione abissale tra un esercito iper-armato e una popolazione intrappolata senza possibilità di difesa. Il linguaggio è l’arma più subdola. Non si parla di bambini uccisi, ma di ''danni collaterali''. Non si parla di bombardamenti deliberati, ma di ''incursioni mirate''
Non si parla di genocidio, ma di ''crisi umanitaria''. È così che si costruisce la normalizzazione dell’orrore. Chi scrive, chi racconta, chi testimonia ha oggi una responsabilità immensa: rompere il velo della propaganda, mostrare la realtà, chiamare le cose con il loro nome. La domanda non è più se ci sia un genocidio in corso. 
La domanda è: cosa facciamo noi, oggi, per fermarlo? 
Mobilitarsi significa scendere in piazza, certo. Ma significa anche boicottare, disinvestire, esercitare pressione politica e sociale. Significa denunciare i crimini di Netanyahu nei tribunali internazionali, chiedere sanzioni reali contro Israele, imporre un embargo sulle armi. 
Mobilitarsi significa anche educare, parlare, scrivere, rompere il silenzio. 
Perché il genocidio si nutre non solo delle bombe, ma anche del vuoto delle coscienze. C’è un’ultima ferita che questo genocidio infligge al mondo: la memoria tradita dell’Olocausto. 


Dopo Auschwitz, l’umanità aveva promesso che mai più avrebbe permesso lo sterminio sistematico di un popolo. Oggi, nel silenzio complice di troppi, quella promessa viene infranta. Non si tratta di stabilire un macabro primato tra genocidi. Ogni sterminio ha la sua unicità, il suo orrore irripetibile. Ma il senso del ''mai più'' sta proprio nel riconoscere le dinamiche che conducono al genocidio e fermarle prima che sia troppo tardi. Oggi quelle dinamiche sono sotto i nostri occhi, incarnate da Netanyahu e dalla macchina militare israeliana. Se non agiamo, se non ci mobilitiamo, allora diventiamo complici non solo di questo genocidio, ma della cancellazione stessa della memoria storica. Il genocidio non è mai una questione lontana. Ci riguarda sempre, ovunque. Riguarda l’idea stessa di umanità, la possibilità di un futuro in cui la vita valga più delle strategie geopolitiche. Oggi, davanti alle macerie di Gaza, non possiamo permetterci di restare neutrali. Non possiamo rifugiarci nelle sfumature diplomatiche. O si sta con il popolo palestinese o si sta con Netanyahu. O si sceglie la vita o si sceglie il genocidio. E allora l’urgenza è una sola: gridare, mobilitarsi, resistere. Perché ogni giorno che passa, ogni ora di silenzio, è una nuova tomba scavata. 
E la storia, ancora una volta, ci giudicherà.

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