Ci sono opere che non invecchiano, non perché resistano alla prova del tempo, ma perché lo ignorano. Pink Floyd at Pompeii è una di queste. È un film-concerto che ha attraversato mezzo secolo come un relitto alieno, misterioso e affascinante, sopravvissuto alla mutazione delle mode, dei gusti, dei media. E oggi, con il suo ritorno nelle sale in versione restaurata, è il momento giusto per rendergli omaggio, riscoprirlo, capirlo o lasciarsi stregare di nuovo.
Corre l’anno 1971.
Corre l’anno 1971.
I Pink Floyd non sono ancora l’istituzione planetaria che diventeranno dopo la pubblicazione di The Dark Side of the Moon" (1973), ma sono già qualcosa di più di una promessa. Dopo l’addio traumatico a Syd Barrett, la band si è reinventata, scavando nell’inconscio collettivo con suoni liquidi, sperimentali, visionari. Meddle, uscito proprio in quell’autunno, è il primo vero compendio di quella transizione, di cui il brano Echoes, lungo 23 minuti, ne è il manifesto.
Ma c’è un’idea, nell’aria rarefatta di quel tempo psichedelico, che si distacca da tutto.
Ma c’è un’idea, nell’aria rarefatta di quel tempo psichedelico, che si distacca da tutto.
Adrian Maben, un giovane regista scozzese, sogna un film che non sia un semplice concerto, né un documentario, né una fiction, ma qualcosa di più evanescente: un rituale. Vuole i Pink Floyd in un luogo senza tempo, senza pubblico, senza applausi: vuole la musica nella sua forma pura, immersa in un contesto che la liberi e la contamini allo stesso tempo. E quel luogo lo trova durante una vacanza a Pompei, nella desolazione lunare dell’anfiteatro romano. Una location sepolta dal tempo, silenziosa da duemila anni, pronta ad accogliere l’urlo elettrico del XX secolo.
Il progetto è tanto ambizioso quanto improbabile. Non esistono precedenti: nessuno ha mai registrato un film-concerto in uno spazio archeologico vuoto. Ma Maben insiste. La Soprintendenza accetta, le attrezzature vengono trasportate tra rovine millenarie, la band accoglie la sfida con quell’approccio un po’ schivo e un po’ complice che ha sempre avuto con le imprese impossibili. Così, tra l’ottobre e il novembre del 1971, mentre la gran parte del mondo ignora ancora il nome di David Gilmour, a Pompei succede qualcosa.
Le riprese si svolgono in condizioni estreme: generatori portatili, caldo e freddo, problemi tecnici e logistiche complesse. Ma è proprio da quella frizione tra tecnologia e storia, tra energia e polvere, che nasce il miracolo. I Pink Floyd, in jeans e camicie a quadri, suonano davanti a un pubblico di statue e vulcani. Non c’è applauso, né respiro umano, se non quello degli stessi musicisti. Non c’è filtro, se non l’occhio mobile e inquieto della macchina da presa.
Il risultato è qualcosa di mai visto: un film che non racconta, non spiega, ma evoca. Una musica che sembra sgorgare dalle pietre, riverberare tra gli archi, dissolversi nel cielo. Il tempo, come detto, si sospende.
Il repertorio scelto per il film è un attraversamento emblematico della fase psichedelica-progressiva del gruppo. Si va dalla potenza percussiva di One of These Days, con Nick Mason che sembra invocare gli dèi pagani a colpi di tom, all’eterea malinconia di Set the Controls for the Heart of the Sun, dove Roger Waters, tra gong e sguardi lunari, diventa sacerdote di un culto indefinito.
Ma è con "Echoes" che si raggiunge il cuore del rito. Suonata integralmente, divisa in due parti nel montaggio, la suite è un viaggio cosmico e subacqueo, un’odissea senza eroi.
La chitarra di Gilmour sembra liquefarsi, l’organo di Wright intona canti di balene, le ritmiche si spezzano in sogni e incubi. È come se tutto l’universo suonasse in quel momento, tra lava pietrificata e cielo grigio.
L’assenza del pubblico, paradossalmente, amplifica la tensione. Non c’è distrazione, né intermediazione. La cinepresa è l’unico spettatore, e noi con lei. È un’esperienza quasi mistica, che oggi, in epoca di streaming compulsivo e contenuti usa-e-getta, acquista un’aura ancora più preziosa.
L’assenza del pubblico, paradossalmente, amplifica la tensione. Non c’è distrazione, né intermediazione. La cinepresa è l’unico spettatore, e noi con lei. È un’esperienza quasi mistica, che oggi, in epoca di streaming compulsivo e contenuti usa-e-getta, acquista un’aura ancora più preziosa.
Il montaggio, curato da Maben con un occhio a Godard e l’altro a Kubrick, alterna primi piani intensi, panoramiche solenni, dettagli quasi onirici. Aggiunge sequenze girate negli studi Abbey Road, con i musicisti al lavoro su The Dark Side of the Moon, allora in fase embrionale. Sono scene rubate, frammenti di quotidianità geniale: Gilmour che accorda, Waters che discute di pulsazioni cardiache, Wright che ride tra due take. Non servono interviste, didascalie, spiegazioni. È tutto lì: la creazione, la tensione, la fratellanza, il futuro che preme alle porte.
Maben non costruisce un racconto, ma un’atmosfera. E lo fa con un linguaggio cinematografico essenziale, ma potentissimo. L’uso della luce naturale, le dissolvenze lente, i controcampi sui crateri del Vesuvio, gli inserti con i mosaici, i cani randagi, le nuvole che scorrono. Tutto contribuisce a una sinestesia che mescola epoche, suggestioni, vibrazioni.
Maben non costruisce un racconto, ma un’atmosfera. E lo fa con un linguaggio cinematografico essenziale, ma potentissimo. L’uso della luce naturale, le dissolvenze lente, i controcampi sui crateri del Vesuvio, gli inserti con i mosaici, i cani randagi, le nuvole che scorrono. Tutto contribuisce a una sinestesia che mescola epoche, suggestioni, vibrazioni.
Oggi, oltre cinquant’anni dopo, Pink Floyd at Pompeii torna al cinema in una versione restaurata che non è solo un’operazione di pulizia visiva, ma un atto di amore. Grazie al lavoro certosino dei tecnici e alla supervisione degli archivi originali, il film riacquista una limpidezza che esalta la sua dimensione pittorica. I colori si fanno più vivi, i dettagli più nitidi, e il suono, rimasterizzato in Dolby Atmos, avvolge lo spettatore in una spirale sensoriale totale.
Non è un semplice revival per nostalgici. È un’opportunità per le nuove generazioni di incontrare un’opera che parla un linguaggio universale e trasversale. Non serve essere fan dei Pink Floyd per restare incantati. Basta lasciarsi andare, farsi catturare dal flusso.
Il restauro restituisce anche il contesto: le riprese in pellicola 35mm, il fruscio dell’aria, i silenzi tra un brano e l’altro. Non c’è frenesia, non c’è montaggio rapido. È un cinema che respira, che accoglie, che ipnotizza. Un cinema che sembra appartenere più a Tarkovskij che a MTV.
.jpg)
Il film non ebbe un grande successo commerciale all’epoca. Fu distribuito a fatica, spesso solo in circuiti alternativi, proiettato in notti psichedeliche o cineclub militanti. Ma ha lasciato un’impronta sotterranea potentissima. Molti registi, da Cameron a Nolan, hanno citato l’impatto visivo del film, così come decine di band – dai Radiohead ai Sigur Rós – lo hanno indicato come ispirazione per i loro live "esperienziali".
E, soprattutto, ha contribuito a cambiare la percezione del concerto filmato. Non più solo testimonianza documentaria, ma opera d’arte a sé. Un’installazione mobile. Un’opera audiovisiva autonoma.
Nel 2016, David Gilmour è tornato a suonare a Pompei, stavolta con pubblico. Un cerchio che si è chiuso, ma senza cancellare l’aura sacrale dell’originale. Perché Pink Floyd at Pompeii non è solo musica filmata. È una forma di preghiera laica, una liturgia del suono.
Vederlo oggi al cinema – in grande, con il suono che vibra sotto la pelle – è un privilegio raro. È un ritorno al senso originario della fruizione artistica: collettiva, immersiva, rituale. È un’occasione per rallentare, ascoltare, vedere davvero. In un tempo che consuma tutto in fretta, Pink Floyd at Pompeii ci ricorda che la bellezza ha bisogno di silenzio, di tempo, di attenzione.
Non è un film da spiegare. È un film da vivere.
Una curiosità: non tutti sanno che tra i tecnici impegnati nei lavori dietro le quinte del mega concerto vi era anche un giovane bolognese che, pur facendo altro nella vita, fece di tutto per riuscire ad accedere nel retro del palco, per vedere i famosi Pink Floyd da vicino.
Quel bolognese molto giovane era proprio Lucio Dalla, all'epoca grande fan e ammiratore del gruppo inglese che, attraverso amicizie locali, riusci a mimetizzarsi, come addetto ai lavori per il controllo del cavo elettrico che portava l’elettricità dal Comune di Pompei all’Anfiteatro e alla sua troupe.
Nessun commento:
Posta un commento