mercoledì 30 aprile 2025

Looking back 4: Bauhaus "In the flat field" (1980)

 

Buio in sala.
Scorrono i titoli di testa del film "The Hunger" (uscito in Italia con il ridicolo titolo "Miriam si sveglia a mezzanotte"!!) di Tony Scott, e dal nulla, su uno sfondo di luci in stile anni '80, dietro una rete metallica, una batteria inizia un ritmo incalzante, seguita da un giro di basso cavernoso e poi dalle note sferraglianti di una chitarra.
Poi la chitarra tace, e una sorta di alieno, agitandosi dietro la rete metallica, sotto gli sguardi di una splendida Catherine Deneuve in versione dark lady, e del "thin white duke" David Bowie, inizia una declamazione raggelante: "White on white, translucent black capes, back on the rack...Bela Lugosi's dead".
E il brano si snoda via via in modo più sinistro e sfibrante, con un'andatura selvaggia, quasi reggae, tra un giro di basso ossessivo ed echi lontani di chitarra.
Ladies and gentlemen...i Bauhaus.


Quando nel 1980 i Bauhaus pubblicarono In the Flat Field, la scena musicale britannica stava attraversando una delle sue fasi più turbolente e fertili: il punk si era appena disintegrato nel proprio caos, e dalle sue ceneri stavano nascendo nuove forme espressive più cupe, introspettive e sperimentali. In questo contesto, l’album d’esordio dei Bauhaus si staglia come una dichiarazione d’intenti radicale, ruvida e profondamente teatrale. 
Con i Bauhaus la musica si trasformò in un cabaret dell'orrore, con tanto di maschere e trucchi, nel solco tracciato dal glam e dal leggendario "Rocky Horror Picture Show"
I toni macabri e dissonanti del dark-punk e l'atteggiamento teatrale del glam-rock diventarono con i Bauhaus una cosa sola: lontano dalle depressioni esistenziali di certo rock gotico, il sound della band dipinge sì incubi lugubri e incalzanti danze orrorifiche, ma li carica di un'enfasi esagerata e grottesca.
Il singolo Bela Lugosi's dead, pubblicato dall'etichetta Small Wonder Records dopo i rifiuti di EMI, Virgin e Beggars Banquet, venne prodotto in sole cinquemila copie nell'agosto del 1979 su vinile bianco, copie che andarono esaurite in poche settimane e mai incluso in alcun album dei Bauhaus.
Il titolo fa riferimento all'attore horror Bela Lugosi (1882-1956), che interpretò il Conte Dracula in vari film. Il testo della canzone parla di pipistrelli, un campanile, il velluto rosso di una bara nera, le spose virginali che sfilano accanto alla tomba di Bela Lugosi e gettano fiori "morti". La voce di Peter Murphy, tra una strofa e l'altra, ripete "Undead, undead, undead" (non-morto).

Bela Lugosi

I Bauhaus si formano a Northampton nel 1978, con Peter Murphy (voce), Daniel Ash (chitarra), David J (basso) e Kevin Haskins (batteria) dimostrando, sin dall'inizio, di voler rompere con le convenzioni del rock tradizionale. Dopo il fulminante esordio con il singolo Bela Lugosi's dead del 1979, già di culto prima ancora della pubblicazione di un album, il quartetto si chiude in studio per registrare un’opera prima che sia riflesso diretto della loro urgenza espressiva.
Registrato in pochi giorni con un approccio quasi live, In the Flat Field cattura l’immediatezza della band e la traduce in un sound claustrofobico, ipnotico e viscerale. 
Il disco è un monolite nero di rumore controllato e poesia decadente. Il sound è crudo, essenziale, eppure ricercato: una tensione continua tra l’espressività teatrale di Murphy e la sezione ritmica ossessiva e tribale, su cui si innestano le chitarre lancinanti di Ash. 
Non c’è spazio per la melodia convenzionale: i Bauhaus costruiscono ambienti sonori che sembrano usciti da un’esposizione di Francis Bacon o da un racconto di Franz Kafka.

L’uso del delay, del riverbero e della distorsione è centrale: tutto sembra avvenire in una cattedrale vuota, in un teatro dell’assurdo dove il corpo è smembrato e il desiderio si fa angoscia. È un suono che non cerca la bellezza, ma l’attraversa contorcendola.

L'apertura dell'album è quantomeno esplosiva: un basso martellante introduce Double Dare, un brano che è più uno sfogo rituale che una canzone. Peter Murphy urla, sussurra, declama con una teatralità alienante un testo che evoca una sfida interiore e sociale, con versi come "I dare you to be real" che suonano come una condanna al conformismo.
La title track In the Flat Field è un’esplosione di tensione, una corsa frenetica verso l’ignoto, un flusso di coscienza allucinato, un incubo erotico e viscerale. Le chitarre squarciano lo spazio come lame, mentre Murphy invoca "I get bored, I do get bored / In the flat field", esprimendo un nichilismo esasperato.
Col seguente A God in an Alcove, abbiamo uno dei brani più melodici (relativamente parlando), con un basso pulsante e un’aria decadente. Il testo gioca con l’immagine del dio rinchiuso, impotente e distante: metafora del potere vuoto, ma anche della condizione dell’artista.
The Spy in the Cab, atmosferico, notturno, quasi cinematografico, con la voce di Peter Murphy ridotta a un sussurro paranoico, sembra trasportarci nella Praga del 1913, dove possiamo immaginare Franz Kafka che dà voce alle sue angosce con i suoi racconti.

Franz Kafka

Stigmata Martyr è uno dei momenti più intensi e sacrileghi: la voce si fa mantra oscuro, quasi una messa nera, con Murphy che invoca il sangue e le stigmate in un climax devastante. Il tema del martirio religioso si fonde con la sessualità e la sofferenza.
L'album si chiude con Nerves: sette minuti di tensione crescente che esplodono in una catarsi controllata, una discesa nei meandri dell’ansia, in cui ogni strumento contribuisce a costruire un’atmosfera sospesa e opprimente. 

Al momento della sua uscita, In the Flat Field fu accolto con perplessità e spesso con ostilità. New Musical Express lo bollò come "un disastro artistico", giudizio che il tempo ha completamente ribaltato. 
Tuutavia anche se inizialmente la critica musicale si mostrò non pronta ad accogliere il tono eccessivo, espressionista e oscuro dell’album, il pubblico alternativo lo accolse come una rivelazione.
Con gli anni, In the Flat Field è stato riconosciuto come uno degli album fondamentali per la nascita del gothic rock.
Senza di esso, band come Sisters of Mercy, Nine Inch Nails, Marilyn Manson o perfino i Radiohead più oscuri non sarebbero esistiti nella stessa forma. È un album che ha codificato un’estetica, non solo musicale, ma anche visiva e performativa, fatta di nero, di romanticismo decadente, di alienazione e introspezione.

Peter Murphy

In the Flat Field non è un disco "facile", né vuole esserlo. 
È un’opera d’arte totale, un manifesto sonoro e visivo che ancora oggi conserva una forza disturbante e ipnotica. I Bauhaus non volevano piacere, volevano colpire, destabilizzare, far pensare. E ci sono riusciti.
In un’epoca in cui il mainstream cerca continuamente di addomesticare il diverso, riscoprire un album come questo è un atto di resistenza culturale. Ascoltarlo oggi, con le sue urla e i suoi silenzi, è come entrare in un quadro di Egon Schiele o assistere a un dramma beckettiano in una cattedrale in rovina.
E forse, proprio per questo, non è mai stato così necessario.

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