venerdì 2 maggio 2025

Storia di un impiegato


Lottavano così come si gioca
i cuccioli del maggio era normale
loro avevano il tempo anche per la galera
ad aspettarli fuori rimaneva
la stessa rabbia la stessa primavera...

1973.
Il nostro protagonista è un uomo qualunque. 
Camicia stirata, cravatta sobria, abitudini precise. Ogni mattina si sveglia alle sette, beve il caffè con due zollette di zucchero, scende in strada e prende l’autobus. Lavora in un ufficio statale, scrivendo lettere che non gli appartengono, firmando decisioni che non ha preso.
Un giorno, mentre cammina verso casa, sente alla radio una canzone che parla del Maggio francese del ’68. 

E se credete ora
che tutto sia come prima
perché avete votato ancora
la sicurezza, la disciplina,
convinti di allontanare
la paura di cambiare
verremo ancora alle vostre porte
e grideremo ancora più forte
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti,
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti..

Le parole lo inquietano. Parlano di giovani, di barricate, di sogni che si ribellano alla logica del profitto. Quella notte, l’impiegato sogna.
Nel sogno, c’è lui stesso seduto alla scrivania, mentre una voce fuori campo narra il suo passato. La sua è stata una vita normale, senza scossoni, costruita sulla prudenza. Ma sotto la superficie dell’ordine, qualcosa ribolle: un’insoddisfazione sorda, una sete di giustizia mai ascoltata.
Le parole del Maggio lo travolgono. 
"Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti." 
Non è solo un refrain: è un'accusa. 
L’impiegato, nel sogno, rivede la sua passività, la sua complicità silenziosa con un sistema che opprime e sfrutta. È come se un muro invisibile, fino a quel momento accettato, si incrinasse.
Si rende conto, o così presume di sé. di non poter unirsi a quei giovani, di non poterli seguire né affiancarsi a loro in nessun modo. La realtà nella quale vive lo ha condizionato, lo ha segnato irrimediabilmente.
C'è solo posto per la vendetta e la presunzione di potercela fare da solo a risolvere con un gesto solitario tutti i problemi che lo incatenano al posto di lavoro. 
Decide così di gettare una bomba ad un ballo mascherato al quale partecipano tutti i miti, i valori della cultura e del potere borghese. E comincia a sognare.
Sogna di autoinvitarsi al ballo mascherato e di portare con sé la bomba, gettarla ed assistere agli effetti dello scoppio su coloro che per anni ha rispettato, gli hanno fatto paura, gli hanno imposto un comportamento. La sua liberazione è totale, alla fine; dopo aver assistito all'agonia di tutti, del padre e della madre, si libera anche dell'amico che gli ha insegnato il modo di ribellarsi rendendo così all'individualismo di cui è vittima, il tributo definitivo.

...e io contavo i denti ai francobolli
dicevo "grazie a dio" "buon natale"
mi sentivo normale
eppure i miei trent'anni
erano pochi più dei loro
ma non importa adesso torno al lavoro.
Cantavano il disordine dei sogni
gli ingrati del benessere francese
e non davan l'idea
di denunciare uomini al balcone
di un solo maggio, di un unico paese,
e io la faccia usata dal buonsenso
ripeto "non vogliamoci del male"
e non mi sento normale
e mi sorprendo ancora
a misurarmi su di loro
e adesso è tardi, adesso torno al lavoro.
Rischiavano la strada e per un uomo
ci vuole pure un senso a sopportare
di poter sanguinare
e il senso non dev'essere rischiare
ma forse non voler più sopportare.
Chissà cosa si prova a liberare
la fiducia nelle proprie tentazioni,
allontanare gli intrusi
dalle nostre emozioni,
allontanarli in tempo
e prima di trovarti solo
con la paura di non tornare al lavoro.
Rischiare libertà strada per strada,
scordarsi le rotaie verso casa,
io ne valgo la pena,
per arrivare ad incontrar la gente
senza dovermi fingere innocente.
Mi sforzo di ripetermi con loro
e più l'idea va dì là del vetro
più mi lasciano indietro,
per il coraggio insieme
non so le regole del gioco
senza la mia paura mi fido poco.
Ormai sono in ritardo per gli amici
per l'odio potrei farcela da solo
illuminando al tritolo
chi ha la faccia e mostra solo il viso
sempre gradevole, sempre più impreciso.
E l'esplosivo spacca, taglia, fruga
tra gli ospiti di un ballo mascherato,
io mi sono invitato
a rilevar l'impronta
dietro ogni maschera che salta
e a non aver pietà per la mia prima volta.

Il sogno prosegue: la voce di un giudice lo informa che il potere borghese era al corrente dei suoi atti, addirittura lo stava seguendo dalla nascita così come segue tutti i suoi sudditi.
L'accusa di omicidio, di strage, si trasforma in ringraziamento per aver eliminato vecchi residui che davano fastidio al potere stesso, che ormai ha trovato altri modi per governare. Il giudice lo informa che ha usato correttamente gli strumenti della legge e che il suo gesto non è altro che la ricerca di potere personale. Così lo accoglie tra coloro che contano, tra coloro che decidono, tra coloro che governano e dispongono della altrui e della propria libertà.

Ascolta
una volta un giudice come me
giudicò chi gli aveva dettato la legge:
prima cambiarono il giudice
e subito dopo
la legge.
Oggi, un giudice come me,
lo chiede al potere se può giudicare.
Tu sei il potere.
Vuoi essere giudicato?
Vuoi essere assolto o condannato?

L'impiegato prende il posto del padre da lui stesso sacrificato alla ricerca di spazio personale. Rivive una vita lancinante, fatta di illusioni e relative delusioni, di difese disperate della propria integrità, del proprio denaro, delle proprietà. Non è più un sogno, ma un incubo e l'impiegato si sveglia.
Ha capito che in qualunque modo è ormai un uomo finito, senza nessuna possibilità di ricupero, che i suoi gesti saranno sempre individualisti, tesi al proprio bisogno personale, e che salendo la scala del potere non si sfugge comunque alla propria condizione di isolamento, d'angoscia. 
La bomba che nel sogno era stata gettata con forza, con rabbia, per vendetta, ora, nella realtà, diventa un momento di ebbrezza e, ovviamente, di lucidità.

Potere troppe volte
delegato ad altre mani,
sganciato e restituitoci
dai tuoi aeroplani,
io vengo a restituirti
un po' del tuo terrore
del tuo disordine
del tuo rumore.
Così pensava forte
un trentenne disperato,
se non del tutto giusto
quasi niente sbagliato,
cercando il luogo idoneo
adatto al suo tritolo,
insomma il posto degno
d'un bombarolo.
C'è chi lo vide ridere
davanti al Parlamento
aspettando l'esplosione
che provasse il suo talento,
c'è chi lo vide piangere
un torrente di vocali
vedendo esplodere
un chiosco di giornali.
Ma ciò che lo ferì
profondamente nell'orgoglio
fu l'immagine di lei
che si sporgeva da ogni foglio
lontana dal ridicolo
in cui lo lasciò solo,
ma in prima pagina
col bombarolo.

L'impiegato sa cosa fare, sa dove andare, sa chi deve colpire e perché. Va dritto al Parlamento a gettare una bomba vera per ammazzare gente vera, ma la sua abilità era soltanto un sogno: fa esplodere la bomba nel posto sbagliato, colpendo un'edicola e lasciando intatto il potere. Le autorità lo cercano, i giornali lo condannano. Il suo gesto è stato frainteso, distorto, ridotto a criminalità, e l'unica cosa che lo colpisce è la faccia della sua fidanzata che è su tutte le prime pagine dei giornali.


Dietro le sbarre di una prigione, l’impiegato pensa alla donna che ha lasciato. Alla vita che ha perso. Le scrive una lettera. È l’unico momento in cui la sua voce si fa tenera, vulnerabile. 
Le chiede di non dimenticare il significato del loro amore, anche se lui ha fallito. 
È una preghiera disperata: che almeno il sentimento non venga corrotto dalla logica del potere.

Quando in anticipo sul tuo stupore
verranno a chiederti del nostro amore
a quella gente consumata nel farsi dar retta
un amore così lungo
tu non darglielo in fretta,
non spalancare le labbra ad un ingorgo di parole
le tue labbra così frenate nelle fantasie dell'amore
dopo l'amore così sicure
a rifugiarsi nei "sempre"
nell'ipocrisia dei "mai"
non son riuscito a cambiarti
non mi hai cambiato lo sai.

Alla fine l’impiegato, proprio in carcere, trova un embrione di comunità, e con altri detenuti, progetta una ribellione. 
Non più da solo, non più cieco. 
In quella cella nasce un altro sogno: la possibilità di una lotta collettiva, fondata sulla solidarietà e sulla consapevolezza. Nella sua ora di libertà, l’impiegato ha finalmente capito che la giustizia non si costruisce con la vendetta individuale, ma con l’unione dei reietti.

Certo bisogna farne di strada
da una ginnastica d'obbedienza
fino ad un gesto molto più umano
che ti dia il senso della violenza
però bisogna farne altrettanta
per diventare così coglioni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni
da non riuscire più a capire
che non ci sono poteri buoni.
E adesso imparo un sacco di cose
in mezzo agli altri vestiti uguali
tranne qual'è il crimine giusto
per non passare da criminali.
Ci hanno insegnato la meraviglia
verso la gente che ruba il pane
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame
ora sappiamo che è un delitto
il non rubare quando si ha fame.
Di respirare la stessa aria
dei secondini non ci va
e abbiam deciso di imprigionarli
durante l'ora di libertà
venite adesso alla prigione
state a sentire sulla porta
la nostra ultima canzone
che vi ripete un'altra volta
per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.
Per quanto voi vi crediate assolti
siete per sempre coinvolti.

Storia di un impiegato non è solo un album. 
È un pamphlet poetico, un teatro civile in musica, un viaggio psichico nel cuore della coscienza borghese. 


Pubblicato nel 1973, arriva in un’Italia segnata da tensioni politiche estreme: il post-’68, le lotte operaie e studentesche, la repressione, le bombe di Milano e di Brescia, la nascita della lotta armata. 
Il sogno rivoluzionario conviveva con la violenza reale, e De André si muove su questo crinale con lucida ambiguità.
Il protagonista non è un eroe. È un uomo smarrito, che cerca la giustizia ma inciampa nella solitudine e nell’errore. De André mette in scena il fallimento della ribellione individuale, ma non rinuncia alla speranza. Il carcere finale non è solo prigionia: è luogo di presa di coscienza politica, di organizzazione, di possibile riscatto.

L’album fu accolto in modo controverso. Troppo politico per alcuni, troppo critico per altri. Ma oggi, a distanza di oltre cinquant’anni, appare come una delle opere più lungimiranti e radicali della musica italiana. 
Non indica soluzioni, ma solleva domande fondamentali: che cos’è la libertà? Come si trasforma un sistema? La violenza è mai giustificata? E soprattutto: siamo davvero liberi quando ci conformiamo?
In un’epoca come la nostra, dove l’individualismo torna a essere la forma dominante di disillusione, Storia di un impiegato rimane una lezione feroce e necessaria. Ci ricorda che il cambiamento non è mai un atto solitario, ma un coro, spesso stonato, di voci che cercano giustizia.
Il confronto tra Storia di un impiegato e il nostro presente apre riflessioni profonde su come è cambiato (o non è cambiato) il modo in cui individui e collettività cercano giustizia, libertà e significato in un mondo sempre più complesso.


Nel 1973, l’impiegato di De André sognava la bomba come simbolo di ribellione. È un gesto impulsivo, solitario, disperato. L’atto violento non è esaltato anzi, è decostruito con lucidità: fallisce, ferisce, viene manipolato dal potere. Tuttavia, quella bomba ha un significato che oggi ritroviamo in altre forme di dissenso: è la manifestazione estrema dell’impossibilità di essere ascoltati.
Oggi, l’azione individuale si è spostata dal gesto materiale a quello digitale. 
Il dissenso si è smaterializzato, vive nei social network, nelle campagne virali, nei meme politici, nelle azioni simboliche globali. 
È una protesta più estetica che distruttiva, spesso performativa, ma non per questo meno carica di significato.
Come l’impiegato, anche oggi molti vivono un’ansia di giustizia che non trova un luogo reale in cui esprimersi. Le piazze sono sempre meno frequentate rispetto ai feed digitali, e il rischio è lo stesso di allora: il gesto isolato viene neutralizzato, consumato, trasformato in spettacolo. 
Dove l’impiegato sbagliava palazzo, oggi si sbaglia target: si denuncia il sintomo, ma raramente si scalfisce la struttura.

Il cuore dell’album è la presa di coscienza finale: solo l’unione con gli altri può dare senso alla ribellione. Nella mia ora di libertà è un inno alla collettività nata nel carcere, ovvero nel luogo più oppressivo, ma anche più rivelatore. Qui De André anticipa una delle contraddizioni più forti del nostro tempo: l’individuo isolato è potente nella denuncia, ma debole nel cambiamento.
Negli anni ’70, le collettività erano visibili, radicate: partiti, sindacati, collettivi, comuni. Oggi la collettività è più fluida, intermittente. 
Si manifesta nelle marce transnazionali, nei flash mob, nelle proteste climatiche, nel mutualismo digitale. Ma spesso manca di continuità, di organizzazione, di progettualità a lungo termine.
Ciononostante, si vedono segnali di aggregazione alternativa. Le reti di economia solidale, le comunità educative, le occupazioni artistiche, i movimenti per i diritti civili, le iniziative locali per la giustizia sociale sono forme nuove di "carcere liberato": spazi dove le persone si incontrano non solo per protestare, ma per costruire un altro mondo. 
Proprio come i detenuti dell’ultima canzone, queste realtà rifiutano il gesto estremo e solitario per ritrovare una collettività, un "noi" più ampio, più profondo.
L’intero album Storia di un impiegato è un sogno. 
De André usa il registro onirico per raccontare il reale, perché solo così può scardinare le difese della coscienza. Questo lo rende ancora attuale, se non addirittura profetico: viviamo in un tempo dove la realtà stessa ha assunto i tratti del sogno, o dell’incubo. Le narrazioni dominanti sono manipolate, spettacolari, iperrealistiche. 
Il sogno, paradossalmente, torna ad essere l’unico spazio libero dove immaginare l’alternativa.

Oggi, gli artisti indipendenti, i videomaker, i fumettisti, i poeti di strada, gli hacker, stanno recuperando questa forza immaginativa. Il dissenso non si esprime più solo nei comizi, ma nei videoclip sperimentali, nelle installazioni urbane, nei giochi interattivi che decostruiscono il potere. Sono nuove forme di bomba in testa, pacifiche ma forse più deflagranti.
Cinquantadue anni dopo, l'impiegato è ancora tra di noi.
Forse ora lavora in smart working, forse ha una startup, o forse ancora è disoccupato.
Ma si porta dentro la stessa inquietudine: quella di chi sente che la vita comoda non basta, che "essere assolti" non equivale a "non essere coinvolti"
E, ora come allora, la risposta non può che venire da un gesto collettivo, da una presa di coscienza condivisa, da una bellezza capace di indicare nuovi orizzonti.
Storia di un impiegato ci ricorda che la libertà, come il sogno, non è mai un lusso individuale. È una costruzione difficile, lenta, da fare insieme. Magari in una cella, magari in una chat, magari in una piazza. 
Ma sempre con lo sguardo fisso su ciò che può ancora nascere.

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