''It’s a god-awful small affair…''
E con una frase semplice e disperata, David Bowie apriva la porta di un universo parallelo. Una ragazza con i capelli color topo, un padre disinteressato, un sogno che svanisce nella banalità del reale. Un’inquadratura che pare tratta da un film di Ken Loach o Mike Leigh, e invece è il prologo di una delle più sfolgoranti esplosioni pop mai registrate.
Quando Life on Mars? venne pubblicata come singolo nel 1973 (dopo essere già apparsa nell’album Hunky Dory del 1971), il mondo non era pronto.
E forse non lo è ancora.
Perché ogni volta che risuona quell’attacco pianistico, qualcosa nel cervello si accende. La canzone ti prende per mano, ti mostra un sogno infranto, poi ti trascina in un carosello surreale, poetico, lacerante e maestoso.
E alla fine ti lascia lì, con una domanda ancora senza risposta: ''Is there life on Mars?''
Per comprendere la genesi di Life on Mars?, dobbiamo compiere un piccolo viaggio all’indietro, fino al 1968.
Bowie, allora giovane artista emergente ma già frustrato, aveva scritto un testo in inglese per Comme d’habitude, canzone francese di Claude François. Il testo venne rifiutato, ma poco dopo Paul Anka ne scrisse un altro, che divenne My Way nella voce di Frank Sinatra.
Un successo planetario.
Bowie, ferito nell’orgoglio e desideroso di rispondere con ironia e talento, decise di scrivere una sorta di parodia surrealista di My Way. Il risultato è Life on Mars?.
Stessa struttura armonica di base, ma un testo assolutamente delirante, un flusso di immagini pop, riferimenti cinematografici e visioni distopiche.
Dove Sinatra cantava la dignità individuale, Bowie metteva in scena il crollo del sogno occidentale.
Ecco dunque il primo segreto della canzone: nasce come revenge song, ma diventa molto di più.
Bowie non solo scrive una replica a My Way; scrive la sua My Way.
Un manifesto in forma di delirio poetico.
La costruzione musicale di Life on Mars? è un miracolo di arrangiamento e teatralità. L’attacco pianistico è firmato da Rick Wakeman, il futuro tastierista degli Yes, che imprime al brano quella forza martellante e romantica che lo distingue. È come se Kurt Weill avesse incontrato i Beatles e deciso di scrivere per un musical apocalittico.
Il crescendo orchestrale, curato da Mick Ronson, è monumentale: archi, fiati, batteria e chitarre si sovrappongono in una vertigine emotiva. Bowie canta come se fosse in un teatro vuoto, rivolgendosi agli spettri, ai muri, al vuoto cosmico.
La sua voce, in bilico tra il crooner e il profeta, è la vera protagonista. Modula, grida, sussurra, vibra. È Bowie nel pieno della sua metamorfosi: non più il folk-singer acerbo degli esordi, non ancora il Duca Bianco, ma già un alieno con la sensibilità di un poeta decadente e lo sguardo di un astronauta perso nello spazio della società.
Life on Mars? è uno dei testi più criptici e affascinanti del rock. Parte da una scena quotidiana – una ragazza delusa, il rifiuto paterno, il sogno spezzato – e poi deraglia in una galleria di visioni: Mickey Mouse, cavalli marini, John Lennon, il Congo, i topi in battaglia, la legge che si fa scherno.
È un mondo in rovina, ma pieno di bellezza.
Il significato? Nessuno e mille. È l’''assurdo teatrale'' della società dei consumi.
È la cultura pop che diventa oppio.
È la TV che mostra un mondo che non esiste.
È l’incapacità di evadere, perfino nei sogni.
E poi c’è quella domanda, sospesa nel titolo, fuori dal testo, come un’eco spaziale: ''Is there life on Mars?''
Non è una questione scientifica, è esistenziale.
C’è vita fuori da questa vita? C’è un senso oltre la farsa? C’è un luogo dove la bellezza non è un’illusione?
Bowie non dà risposte. Le canta.
Curiosamente, ancora oggi molti ascoltatori fanno riferimento a Life on Mars? come una canzone di fantascienza. Certo, Bowie giocava con quell’immaginario: alieni, pianeti, alter ego cosmici. Ma qui non si tratta di fantascienza, quanto di metafora.
Marte è l’Altrove. È il luogo dove la ragazza immagina di trovare ciò che la Terra le nega.
Il titolo stesso è ironico, surreale, esistenziale. Una domanda che sembra triviale, ma che nasconde abissi. È come se Kafka avesse scritto una canzone per Broadway.
Quando il singolo venne pubblicato nel 1973, Bowie era già Ziggy Stardust. Ma per la copertina di Life on Mars?, decise di presentarsi in una nuova veste: elegante, truccato in modo quasi androgino, con un tailleur celeste. L’immagine, scattata da Brian Duffy, è diventata un’icona.
Non è solo glam: è un manifesto.
Bowie rifiuta la mascolinità tradizionale, gioca con l’ambiguità, seduce senza etichette. È arte visiva, è performance, è identità fluida. È Bowie che ci dice: non credete a nulla, e credete a tutto.
Life on Mars? è invecchiata splendidamente. Anzi, non è mai invecchiata. Negli anni è stata usata in film, serie TV, documentari. È stata reinterpretata da artisti come Barbra Streisand, Seu Jorge, Trent Reznor. È diventata la colonna sonora del lutto per la morte di Bowie nel 2016.
Nel 2018, durante i funerali di Stephen Hawking, il brano fu suonato come omaggio a colui che più di ogni altro ha cercato la vita su Marte con il pensiero.
Nel 2021, il regista Pablo Larraín l’ha usata nel film Spencer per accompagnare un momento di rottura emotiva e liberazione della principessa Diana. Ed è proprio lì, in quella scena in cui la protagonista abbandona le regole e corre via con i figli, che si sente tutta la potenza della canzone: la fuga dal dolore, il bisogno di un altro mondo.
Quando Bowie la riproponeva dal vivo – soprattutto nei tour degli anni ‘90 e 2000 – lo faceva con un misto di nostalgia e teatralità. La sua voce era più grave, più vissuta. Ma la canzone non perdeva nulla. Anzi, guadagnava in profondità.
Ogni volta che pronunciava ''Take a look at the lawman beating up the wrong guy'', sembrava parlare dei telegiornali del giorno.
Ogni volta che gridava ''Sailors fighting in the dance hall'', sembrava raccontare l’assurdo eterno della guerra.
E il finale – Is there life on Mars? – era sempre un pugno nello stomaco e una carezza.
Non esiste una canzone perfetta, ma Life on Mars? ci si avvicina molto.
È sofisticata ma accessibile. È popolare ma profonda. È kitsch e sublime, come solo David Bowie sapeva essere.
È la dimostrazione che la musica pop, quando è fatta da veri artisti, può sfidare i canoni, giocare con i generi, abbattere le barriere tra arte alta e bassa. Può essere come un dipinto di Dalí suonato da un’orchestra di Broadway sotto l’influenza di Nietzsche.
Cinquantadue anni dopo la sua uscita, Life on Mars? è ancora un punto fermo nella storia della musica moderna. È stata studiata nelle università, analizzata nei testi accademici, inserita in ogni classifica delle canzoni più importanti di sempre.
Ma soprattutto, è ancora amata.
Da chi l’ha ascoltata nel 1971 e da chi la scopre oggi su Spotify.
Perché parla a ogni generazione. Perché racconta il dolore, l’assurdo, la bellezza di essere umani. E perché ci fa sentire, per un istante, di poter evadere.
Di poter credere che, sì, forse da qualche parte c’è life on Mars.
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