Buio in sala, partono i titoli di testa ed è subito uno degli inizi più belli dell'intera storia del cinema: un travolgente rock con la voce di un giovane Elton John che canta "Saturday night's alright (for fighting)", accompagnando le immagini di una corsa in auto nel deserto.
Signore e signori, ecco a voi Fandango.
L'artefice era Kevin Reynolds, che aveva concepito il film, originariamente solo un "corto", quando ancora studiava all'Università, stigmatizzando l'ambiente delle confraternite universitarie e del loro culto del branco e dei riti propiziatori. Fortuna volle che quel corto, intitolato Proof, finisse sotto gli occhi di Steven Spielberg, che si prodigò affinché Reynolds allargasse il racconto, lo rendesse un film in grado di parlare di passaggi d'età, illusioni di gioventù, amicizia e amore, in un contesto particolare: l'America intrappolata nell'incubo vietnamita.
Fandango parte dall'Università del Texas, dove si sono appena laureati i "Groovers", cioè Gardner (Kevin Costner), Kenneth (Sam Robards), Phil (Judd Nelson), Lester (Brian Cesak) e Dorman (Chuck Bush). Hanno tutti sogni, l'entusiasmo della gioventù, ma c'è un problema: Gardner e Kenneth hanno appena ricevuto la lettera d'arruolamento per il Vietnam.
Che fare?
La risposta la trova Gardner: partire a bordo di una sconquassata Cadillac alla volta del confine messicano, per ufficializzare la fine della loro gioventù diseppellendo un misterioso Dom. Poco prima di partire Kenneth decide di lasciare la fidanzata Debbie (Suzy Amis), che tra l'altro è l'ex dell'amico Gardner, mentre Lester è sostanzialmente in coma per l'alcool e le droghe. I cinque (anzi quattro, visto che Lester resterà in quello stato per quasi tutto il film) sono una vera forza inarrestabile, per quanto sgangherata. Fandango fin dall'inizio ha dalla sua un'atmosfera magnifica, elettrizzante, è uno dei film che più di tutti riesce a trasmettere quella sensazione magnifica di fertile incertezza, follia, libertà assoluta e ambizione indefinita che rende il passaggio tra giovinezza ed età adulta, uno dei più esaltanti, belli e potenti dell'esistenza.
Il gruppo finisce sperduto dentro quel deserto, con l'auto in panne, partorisce le idee più folli per andarsene, distruggendo l'auto definitivamente. Eppure, per quanto possa sembrare assurdo, Fandango mentre ci mostra tutto questo, riesce a convincerci della sua verosimiglianza, della sua verità.
E' un road movie di formazione che in nessun punto differisce dal suo genere di riferimento: grandi spazi desolati, un gruppo di amici senza una meta definita, una strada, un auto e il senso che qualcosa deve e può essere cambiato. Un viaggio iniziatico che molto deve alla tradizione cinematografica che lo precede: c'è un po' di Easy Rider, un po' di Zabriskie Point, un po' di American Graffiti, si ricorda anche James Dean ne Il gigante.
Queste coordinate aiutano certamente il film a trovare una sua strada, riuscendo a non farlo scivolare nella sterile riproposizione di un modello senza più anima. Fandango è una danza, un ritmo fatto di variazioni che oscillano, che rallentano, che si velocizzano di volta in volta: Reynolds sembra voglia partire proprio da qui, strutturando l'intero film attorno all'asse del tempo, facendo confluire passato, presente e futuro in una danza adesso tipicamente americana.
Proprio il tempo che passa è la grande costante di un film dove è impossibile non immedesimarsi in ognuno dei ragazzi, mentre disseppelliscono quella bottiglia di Dom Perignon, in loro c'è ognuno di noi, colto in quei momenti in cui abbiamo avvertito che tutto stava cambiando, per sempre.
"A quello che siamo, a quello che eravamo... e a quello che saremo” brindano i quattro amici svegli e quello in coma, sopra un magnifico canyon, lì dove George Stevens filmò Il Gigante, dove John Ford fece la storie del western.
Poi gettano quella bottiglia e con essa la loro gioventù.
Dalla festa di laurea, al viaggio in solitaria, dal lancio del paracadute, al rituale per eccellenza: il matrimonio, Fandango è una sorta di sintesi della vita. Al confine col Messico, Gardner riesce a convincere Kenneth a sposare Debbie che, in una sequenza meravigliosa accompagnata dalle note di Born to be wild degli Steppenwolf, viene trasportata in aereo verso quella notte che Kevin Reynolds riesce a rendere fatata, agrodolce, a metà tra sogno giovanile e negazione dello stesso.
Kenneth sa che Gardner prova ancora qualcosa per Debbie, il ballo che offre all'amico e alla sposa, è uno grande gesto d'amicizia e di fiducia, una delle tante prove di notevole sensibilità della scrittura di Reynolds, un rito nel rito.
Gardner e Debbie ballano per celebrare la fine di un momento della loro vita, ma in quella meravigliosa danza tra due che si sono amati, con quel fazzoletto rosso che torna, vi è l'addio a ciò che poteva essere e non è stato, a ciò che non sarà mai.
Quel finale, sulle note della chitarra di Pat Metheny, si fisserà nella mente di un'intera generazione di spettatori in modo potentissimo, diventerà uno degli istanti cinematografici più iconici del decennio, venendo anche ripreso Damien Chazelle in La La Land.
Poi tutto finisce, come nella vita, col silenzio assordante. Phil regala agli sposi la sua macchina, Lester si risveglia e se ne va, Phil e Dorman sono infine diventati amici, non si rivedranno più, forse è stata tutta un'illusione, ma sono stati giovani assieme, nulla potrà cambiare tutto questo. Gardner da lontano vede le luci spegnersi, con esse quel periodo della sua vita, della loro vita, della nostra vita.
Brinda, saluta e scappa via in Messico dalla guerra.
Ancora oggi il film è vivo nella memoria di un'intera generazione, ha definito un genere e solamente Stand by me e Un mercoledì da leoni reggono il confronto ancora oggi, a quarant'anni di distanza.
Fandango ancora oggi stupisce per la capacità di affrontare temi universali, ragionare sull'esistenza e la sua mutevolezza, in modo assolutamente incredibile.
Anche per questo, dopo tanto tempo, rimane un film inimitabile, uno di quelli che tutti dovrebbero vedere una volta nella vita.
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