domenica 16 giugno 2024

Dischi da ascoltare

KING HANNAH - Big Swimmer

Era molto atteso questo nuovo album, soprattutto dopo il folgorante esordio "I'm not sorry, I was just being me" del 2022 e i due ragazzi di Liverpool non deludono, anzi sfornano un album "classicamente" americano, o meglio newyorkese.

Sembra infatti di ascoltare echi di Velvet Underground & Nico soprattutto nelle iniziali Big Swimmer e New York, let's do nothing, ma è l'intero album ad essere intriso delle medesime atmosfere.

Composto non a caso durante il loro tour americano, l'album vede Hannah Merrick fornire un prova di alto valore, tale da indurre a pensare a lei come la prossima Beth Gibbons/Hope Sandoval. Craig Whittle di contro maneggia il repertorio completo del chitarrista rock classico.

Questo secondo disco è più che mai un duetto, le canzoni spesso iniziano minimali, concentrate sulla voce, per poi esplodere in riff e assoli chitarristici che disegnano paesaggi variegati (Somewhere neae El Paso).

Di fronte a loro due, anche Sharon Van Etten sparisce nei suoi due featuring ai cori.




IL QUADRO DI TROISI - La Commedia

Personalmente ho sempre amato i Matia Bazar del periodo "elettronico", cioè quelli degli album "Tango", "Aristocratica", "Melancholia", espressioni di un tentativo di proporre una via italiana a una new wave di classe, ispirata da John Foxx, Ultravox et similia.

Per questo non posso evitare di gioire nell'ascoltare la seconda opera del trio composto da Eva Geist, Donato Dozzy e Pietro Micioni.

E' soprattutto nel secondo brano, "La Terra" che si sentono echi lontani delle tastiere di Mauro Sabbione dei Matia Bazar in "Elettrochoc", mentre la voce di Eva segue le tracce del canto melodico di Antonella Ruggiero.

Ma attenzione, sarebbe riduttivo indicare i soli Matia Bazar come sola fonte d'ispirazione.

La musica dei Quadro di Troisi è come filtrata da un un prisma che guarda a Giuni Russo, Alice e Pino Mango, ma che origina da un intricato lessico sintetico, figlio della regina madre Suzanne Ciani (amica del gruppo e qui chiamata in veste di collaboratrice) ma capace di muoversi in lungo e in largo per i decenni e i continenti, algido e malleabile al tempo stesso.

È un gioco di contrasti che acuisce la commedia messa in atto dal terzetto (in realtà quartetto grazie ai mirati contributi di violino di Francesca Colombo), che ne esalta l'oscura malia, il “soffio glaciale”, come da conclusione del cristallino techno-pop de “La notte”. 

Un grande album.


BETH GIBBONS - Lives Outgrown

Bristol, UK.

In principio fu il Pop Group di Mark Stewart, precursore di ogni contaminazione tra la furia del punk e la musica black (funk, reggae, dub, free-jazz).

E a metà anni Ottanta prende forma anche "The Wild Bunch", il Mucchio Selvaggio.

Un crogiuolo di rapper, dj, ballerini, writer e produttori che si riunisce per suonare nelle cantine dei sobborghi della città.

Poi, alcuni di loro spiccano il volo.

Come i tre Massive Attack che nel 1990 danno vita a un collettivo "aperto", pubblicando un anno dopo il loro album d'esordio "Blue Lines". Dentro c'è di tutto, dall'hip-hop al soul, ma anche il funk, il reggae, l'elettronica, la soundtrack music, l'acid-jazz.

Lo chiameranno Bristol sound o più semplicemente trip-hop. Una sorta di reazione "uguale e contraria" alla frenesia techno che dilaga in quegli anni. Musica atmosferica, da viaggio (il "trip"), che rallenta le pulsazioni hip-hop e house per ottenere un effetto più rilassato e onirico. Musica cerebrale, eppure profondamente fisica, con quei bassi dub che entrano nello stomaco.

Da questo ambito emergono oltre ai già citati Massive Attack,  anche Tricky e Portishead, con Beth Gibbons vocalist di questi ultimi.


Indicata come la "Billie Holiday venuta dallo spazio" per le sue performances vocali dolenti e spettrali, ma anche estremamente calde e sensuali, dopo lo scioglimento del gruppo ha diradato le sue già rare apparizioni, apparendo solo nel 2002, quando con Paul Webb, l'ex bassista dei Talk Talk, diede vita a quella perla nascosta che fu "Out Of Season", e nel 2009, con la partecipazione calla struggente condivisione della Sinfonia n°3 di Henryk Górecki.

Il qui presente Lives Outgrown ha in comune col meraviglioso Out Of Season – a parte il sottinteso di perdita di controllo e fuoriuscita dal solco che aleggia nel titolo – la natura di lavoro che non insegue stili o temi contemporanei ma scioglie il groviglio tenendo fede a regole proprie, con l’intenzione di rovesciare l’assedio della connessione in un isolamento che significa riflessività, cura del dettaglio, apertura all’imponderabile, esitazione sulla soglia tra consapevolezza e intuito. 

Ne risulta un suono costantemente sul punto di tradire il sentiero già battuto, sempre sul filo di un cambio di stato emotivo, in bilico tra tumulto irrequieto e incanto ombroso, immerso nella tradizione ma in grado di levitare anomalo, struggente e inafferrabile, ora caldo e l’attimo dopo spettrale. Dominano i timbri acustici, chitarre, archi, legni, sega ad arco, percussioni, con suoni e voci trovate (rumori bucolici, chiacchiericci, sospiri…) a rendere porose le pareti, ad aprire varchi tra interni e plein air, tra mente e vita. Quasi un invito a pensarsi come un fiorire di sensazioni, emozioni, pensieri, una ramificazione di esperienze il cui senso non è mai un risultato ma un affiorare.
Un processo che si realizza nel tempo, srotola il nastro del divenire, subendo – va da sé – la forza di attrazione lenta e implacabile dell’entropia.
Insomma: Beth riflette sull’invecchiare, sulla sensazione di precipitare nella pancia scura del niente (“The feeling of falling/The shadows warning/Wanting to quiet to tame this disorder”) e sull’impossibilità di trovarci un senso (“We’re all lost together/We’re fooling each other/We try but we just can’t explain”), da cui la necessità di aggrapparsi alla grazia vertiginosa del momento (“But all we have is here and now/All going to nowhere, to nowhere”).





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