mercoledì 17 luglio 2024

Totò...una risata vi seppellirà!



Come molti (almeno lo spero), ho visto più volte il film "Totò a colori", uscito nel 1952 ed erroneamente indicato come il primo lungometraggio a colori prodotto in Italia (il primato va infatti assegnato ad altro lungometraggio, di ben due anni precedente, "Mater Dei", di Emilio Cordero, che narrava la vita di Maria, madre di Gesù, e che fu destinato esclusivamente al circuito delle sale parrocchiali.
Dicevamo di "Totò a colori", film nel quale il nostro eroe, svelando la sue reale natura, si mostra spietatamente dissacrante, menando fendenti a destra e sinistra, ridicolizzando l'Italia del tempo e le sue classi sociali, senza alcuna distinzione di ceto.
Bene ha fatto Goffredo Fofi a definire questo film «sovversivo e irruente», perché «la libertà che l’attore si concede è impressionante: l’Italia democristiana, l’Italia dei ricchi e dei politicanti, è presa di mira con una virulenza che va oltre le maglie di tutte le censure, corposa e solida, pesante e violenta», espressione di un qualunquismo sotto-proletario «più apprezzabile», «perché specchio veridico di certi umori popolari»”.

Antonio Scannagatti, il “maestro di mòseca”, detto il Cigno di Caianiello, in frac e bombetta, dissacra tutti i principali status symbol della società borghese a lui coeva: travestito da marinaio un po’ dandy e con l’immancabile erre moscia (un esilarante Pupetto Montmartre de Champs - Elysèes), fa una parodia elegante e feroce di una certa borghesia ricca e annoiata, un po’ esistenzialista, che culmina con la demolizione dell’arte contemporanea nel famoso rituale dello sputo in un occhio per premiare l’artista autore della copia di un dipinto di Picasso (“la scienza va premiata”).


Oltre ad alcune chicche della comicità di Totò, tutta basata sul linguaggio (il dialogo con il giardiniere pugliese: “Dèca…Dèca? Ah, voleva dire dica” e il colloquio con l'impresario Tiscordi), e sulla snodabile espressività plastica dei suoi movimenti (la scena del Pinocchio disarticolato dove Totò sembra veramente una marionetta), arriviamo al più celebre e dissacrante attacco e ridicolizzazione del potere fra gli sketch di Totò, quello del wagon-lit con l’onorevole Cosimo Trombetta, interpretato da Mario Castellani, una delle mitiche spalle di Totò.
Antonio Scannagatti demistifica la prosopopea del titolo (“Onorevole Lei? Ma mi faccia il piacere!”) sfoderando contro il povero Castellani tutto il repertorio della mimica, della gestualità provocatoria (i tocchi e ritocchi, che già avevamo visto in Guardie e Ladri di Steno e Monicelli, 1951), e della dissacrante inventiva verbale tipiche di Totò.
Portato per la prima volta in scena nella rivista "C'era una volta il mondo" del 1946, lo sketch del treno, nella trasposizione cinematografica subì una piccola censura; infatti nella versione teatrale Mario Castellani diceva: "Se non vi riesce di chiamarmi Trombetta, chiamatemi onorevole" e Totò gli rispondeva "Non posso, la mia coscienza non me lo permette".
Sullo schermo si ritenne opportuno sostituire questa battuta, ma finì per apparire ancor più irriverente Totò che, sghignazzando in faccia a Trombetta, gli dice"Onorevole? Ma chi? Ma mi faccia il piacere!".


Anarchico, libertario, sovversivo, antigerarchico, Antonio Scannagatti/Totò rappresenta una vera mina vagante, mai vista sino a quel momento nell'intera cinematografia italiana.
In forme decisamente minori, ma non per questo meno incisive, Totò proseguì la propria opera di castigatore dei costumi, arrivando a dividere in due categorie - uomini e caporali -  l'intero genere umano.
Pronunciata la prima volta il 3 marzo 1949 nello spettacolo Bada che ti mangio! e poi in Totò Le Moko del 1949 (regia di Carlo Ludovico Bragaglia), questa "teoria" diventa titolo dell’omonimo film diretto da Camillo Mastrocinque (1955), nel quale, in un breve dialogo con lo psichiatra interpretato da Nerio Bernardi, Totò spiega la sua filosofia di vita:

“Direttore, le spiego. L’umanità io l’ho divisa in due categorie di persone: uomini e caporali. La categoria degli uomini è la maggioranza, quella dei caporali per fortuna è la minoranza. Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il povero uomo qualunque. Dunque, dottore, ha capito? Caporali si nasce, non si diventa, a qualunque ceto essi appartengano, di qualunque nazione essi siano, ci faccia caso: hanno tutti la stessa faccia, le stesse espressioni, gli stessi modi, pensano tutti alla stessa maniera”.

Antonio De Curtis, il principe borghese e reazionario lasciava a Totò il compito di spernacchiare i nobili, i borghesi, i reazionari, ma nello stesso tempo metteva sotto satira i ragionieri Casoria, e tutti i rappresentanti dell’ordine costituito, onorevoli, governanti, alti burocrati e comandanti, l’alto e il basso clero, e metteva in ridicolo le magagne, le ipocrisie, le meschinità della borghesia grande, media e piccola.
Aristocratico plebeo o plebeo aristocratico, apolitico come si definiva, né di destra né di sinistra, e neppure di centro, Antonio/Totò non era comunque un qualunquista.


Futurista, cubista, dadaista, astrattista, ermetico, neorealista, surrealista pop, lo è stato con la sua arte, senza aver bisogno di aderire ai manifesti delle avanguardie artistiche, riuscendo a dare un senso anche al non-sense, e all'insensatezza che sembra ormai dominare il mondo.


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