venerdì 26 dicembre 2025

La Biblioteca di Babele 8: Mark Z. Danielewsky - Casa di foglie (2000)


A volte basta un dettaglio minuscolo per incrinare la normalità: una porta che sembra spostata di qualche millimetro, un corridoio più lungo del previsto, un’ombra che non ricordavamo così profonda. Casa di foglie parte proprio da questo tipo di impercettibile stonatura, quella che per un attimo ci fa dubitare della nostra percezione e che poi fingiamo di non aver notato. 
Danielewski prende quel dubbio minuscolo e lo fa crescere fino a trasformarlo in un labirinto, non soltanto da leggere ma da attraversare. 
È un romanzo che non chiede di essere interpretato quanto di essere vissuto, un luogo che cambia forma mentre lo percorriamo, che ci costringe a un tipo di attenzione che assomiglia più all’orientamento in uno spazio reale che alla lettura, e forse è proprio questa la ragione per cui ha affascinato lettori molto diversi tra loro, compresi quelli che di solito diffidano dei libri “strani”
La trama, raccontata in modo molto semplice, ruota attorno a una casa più grande al suo interno che all’esterno. Una frase del genere potrebbe sembrare una trovata bizzarra, un gioco, un espediente per catturare l’attenzione. E invece è proprio da lì che nasce tutto: da un’imperfezione spaziale che sembra piccola, quasi trascurabile, ma che diventa la miccia per far esplodere il romanzo in decine di direzioni diverse. 
È come se Danielewski avesse preso un’idea che in un racconto breve durerebbe tre pagine e l’avesse trasformata nel centro di gravità di un mondo narrativo intero. Perché quella casa, man mano che si legge, diventa qualcos’altro: non è più un edificio con porte e corridoi, ma un luogo mentale, un vuoto che si allarga, una zona d’ombra che mette a disagio chi entra e chi osserva. La cosa curiosa è che l’orrore della casa non deriva mai dai mostri tipici dell’horror, né da visioni particolari, né da una minaccia esplicita. Deriva invece dalla perdita di orientamento. Dalla sensazione che lo spazio, che dovrebbe essere lo sfondo stabile delle nostre vite, diventi all’improvviso un’entità incerta, mutevole, ambigua. È un tipo di paura più sottile, ma anche molto più persistente: l’idea che ciò che consideriamo solido non lo sia affatto. 
Mentre si legge, si comprende che questa è un’esperienza che abbiamo fatto tutti almeno una volta: quando entriamo in un luogo familiare e, per un istante inspiegabile, ci sembra diverso; quando nella nostra casa un rumore riecheggia in un modo un po’ strano; quando uno spazio noto sembra più largo, più stretto, più distante.
La casa delle foglie esaspera quella sensazione, la rende concreta, la trasforma in materia narrativa. E così l’esplorazione della casa diventa un’esplorazione dell’incertezza. Il romanzo ha diversi livelli, ma non occorre conoscerli tutti in anticipo. Possiamo limitarci ai due principali: da una parte c’è la storia di Will Navidson, fotografo di guerra che decide di documentare la sua vita familiare trasferendosi in una casa che poi si rivelerà impossibile.
Dall’altra c’è Johnny Truant, un giovane che si imbatte nel manoscritto relativo alla storia di Navidson e, nel leggerlo e annotarlo, inizia progressivamente a perdere la stabilità emotiva. Queste due linee narrative si intrecciano senza mai sovrapporsi del tutto, come se ci fosse sempre una fessura fra loro, un dislivello.

Mark Z. Danielewsky

Ed è proprio in quella fessura che si infilano le interpretazioni del lettore: cosa succede davvero nella casa? Cosa succede davvero nella mente di Johnny? Cosa sta raccontando di preciso il romanzo? Il punto è che non c’è mai una risposta univoca, e non per compiacenza postmoderna, ma perché il romanzo stesso vuole mettere alla prova una domanda molto semplice: quanto possiamo fidarci di ciò che percepiamo?
La casa mette alla prova chi la abita, Johnny mette alla prova il lettore, e il lettore mette alla prova il libro. È una sorta di reazione a catena in cui ognuno cerca di capire cosa sia “vero”, e più ci si avvicina a una risposta più quella risposta sembra evaporare. Il romanzo è pieno di pagine che fuggono, si stringono, si spezzano. 
Questa scelta formale non è un capriccio: serve a farci vivere fisicamente lo smarrimento degli esploratori del corridoio, i loro respiri corti, le loro lampade che illuminano pareti che non ricordano di aver visto. La forma è un modo per avvicinarci a ciò che accade ai personaggi, per farci percepire l’ansia, la tensione, il disorientamento. 
Una scelta simile ha un effetto molto interessante: il libro parla della paura dello spazio, e il suo stesso spazio – quello della pagina – si fa instabile. In questo senso il romanzo lavora anche su un’altra idea molto semplice ma estremamente efficace: il vuoto. Il vuoto della casa, il vuoto tra una riga e l’altra, il vuoto nelle frasi di Johnny che non riesce a dire ciò che prova, il vuoto nelle riprese della famiglia Navidson. 
Tutto sembra suggerire che l’assenza sia più potente della presenza. 


Il corridoio buio è più inquietante perché è buio, non perché c’è qualcosa dentro. Il manoscritto è inquietante perché è incompleto, non perché rivela verità clamorose. Johnny fa paura non quando parla troppo, ma quando tace. Il romanzo sembra ricordarci che spesso la nostra mente dà la forma alla paura prima ancora che la paura abbia qualcosa da cui prendere forma. In diversi momenti si ha l’impressione che la casa reagisca agli stati d’animo di chi la abita: quando litigano, si allarga; quando si cercano, si restringe; quando provano a ignorarla, si fa più rumorosa. Non è mai dichiarato apertamente, ma è una sensazione costante. Ed è così che la casa diventa un luogo vivo, non per magia, ma perché reagisce al senso di inquietudine che cresce nei personaggi. 
La casa non è un mostro, ma un riflesso amplificato delle loro paure. Ed è probabilmente questa l’idea più brillante del romanzo: trasformare un luogo in una specie di specchio emotivo. La storia di Johnny, in parallelo, è un altro tipo di specchio: uno specchio della fragilità mentale, della facilità con cui un giovane apparentemente normale può scivolare nel disordine. Ma anche qui non c’è enfasi drammatica né sentimentalismo: Johnny non diventa un simbolo, non diventa una lezione morale.
È semplicemente un ragazzo che non riesce a stare dentro i propri confini, esattamente come la casa non riesce a stare dentro i suoi. La sua lingua cambia, si incrina, diventa più lunga o più contratta a seconda del suo stato emotivo. Anche qui, come per la casa, la forma racconta ciò che le parole da sole non direbbero. C’è un’analogia molto evidente tra la casa che si espande e Johnny che si dissolve: entrambi perdono definizione, entrambi scivolano verso un centro che non riescono a trovare. 
Ciò che rende La casa delle foglie un romanzo così particolare non è tanto il mistero della casa – per quanto accattivante – ma il modo in cui questo mistero riesce a far emergere le fragilità dei personaggi. Non si tratta di capire cosa sia davvero la casa, ma cosa succede a chi prova a darle un senso. L’errore sarebbe cercare una spiegazione razionale definitiva. Il romanzo non funziona così. Non funziona come un enigma da risolvere, ma come un’esperienza da sentire. È un libro che mette alla prova la nostra capacità di restare nel dubbio senza cercare risposte immediate. Per questo, pur contenendo molte citazioni, riferimenti, livelli, non è un romanzo per specialisti o per lettori accademici. È invece un romanzo sorprendentemente accessibile: chiunque abbia provato almeno una volta la sensazione di non capire dove si trova, o di percepire qualcosa che non torna, può riconoscersi in ciò che accade nella casa. Non serve conoscere teorie o testi del passato per apprezzarlo: basta lasciarsi accompagnare dal suo ritmo strano, dai suoi silenzi, dai suoi improvvisi restringimenti. 
Certo, ogni tanto emergono echi di altri autori, come succede sempre quando si parla di luoghi che sembrano vivi o di realtà che si incrinano. Ma questi echi sono più ispirazioni di fondo che citazioni dirette. 


La casa delle foglie cammina da sola, con la sua voce tutta sua, con la sua struttura unica, con la sua capacità di trasformare una semplice differenza di centimetri in un abisso. Quando si arriva alla fine – se così si può dire, perché un libro del genere non si chiude davvero – si rimane con una strana sensazione: come se qualcosa si fosse spostato dentro di noi. Non è una rivelazione, non è una lezione, non è una morale. 
È più simile a quando si esce da una stanza buia e ci si accorge che i nostri occhi hanno impiegato più tempo del previsto ad abituarsi di nuovo alla luce. È quel leggero ritardo, quello sfasamento minimo ma persistente, che La casa delle foglie lascia in chi la attraversa. 
Perché in fondo la sua idea più semplice e più profonda è questa: anche ciò che conosciamo meglio – la nostra casa, la nostra mente, la nostra percezione – può diventare improvvisamente estraneo. 
E l’unico modo per affrontare quell’estraneità non è capirla del tutto, ma continuarci a camminare dentro.

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