martedì 23 dicembre 2025

La corazzata Potëmkin: cento anni di rivoluzione



Inizia tutto con una risata liberatoria e sacrilega, quella del ragionier Ugo Fantozzi che in una delle scene più celebri della commedia italiana del Novecento si alza in piedi, tremante e disperato, e urla davanti ai suoi superiori e al mondo intero che “la corazzata Kotiomkin è una cagata pazzesca”, frase che da decenni riecheggia come una bestemmia laica contro l’obbligo culturale, contro la venerazione imposta, contro il cinema visto come dovere più che come piacere.
Eppure proprio da quella risata, da quella ribellione goffa e umanissima, può nascere il modo migliore per celebrare i cento anni di La corazzata Potëmkin, perché solo un’opera davvero enorme, davvero fondativa, davvero radicata nell’immaginario collettivo può permettersi di essere parodiata, ridicolizzata, amata e odiata allo stesso tempo senza perdere un grammo della propria potenza, e anzi rafforzandola, trasformandosi in un mito che vive su più livelli, alto e basso, colto e popolare, politico e comico, esattamente come il film di Sergej Michajlovič Ejzenštejn, girato nel 1925 nell’Unione Sovietica ancora giovane, febbrile, ideologicamente incandescente, quando il cinema non era solo intrattenimento ma strumento di educazione, propaganda, sperimentazione formale e costruzione dell’uomo nuovo. 
La corazzata Potëmkin nasce per celebrare il ventennale della rivoluzione del 1905, considerata il prologo della Rivoluzione d’Ottobre, e racconta un episodio specifico, l’ammutinamento dei marinai della nave da guerra Potëmkin contro gli ufficiali zaristi, ma in realtà ambisce fin dall’inizio a qualcosa di molto più grande, a diventare un poema visivo sulla nascita della coscienza di classe, sulla violenza del potere e sulla legittimità della ribellione, e per farlo Ejzenštejn mette in campo una concezione del cinema radicalmente nuova, fondata sul montaggio come principio dialettico, come scontro di immagini che genera significato non per somma ma per conflitto, in linea con il pensiero marxista che permeava l’aria del tempo e che il regista, teorico oltre che cineasta, studiava e applicava con rigore quasi scientifico. 


Guardato oggi, a cento anni di distanza, il film conserva una forza sorprendente nonostante l’assenza di dialoghi, di colore, di sonoro sincronizzato, perché la sua energia non sta nella tecnologia ma nel ritmo, nella composizione delle inquadrature, nella capacità di trasformare volti anonimi in simboli universali, masse in soggetti storici, scale in teatri di tragedia. 
Proprio la famosissima sequenza della scalinata di Odessa, forse una delle scene più citate, imitate e analizzate della storia del cinema, dimostra come Ejzenštejn fosse in grado di manipolare il tempo e lo spazio attraverso il montaggio, dilatando pochi istanti in una tragedia epica fatta di passi militari che scendono implacabili, di corpi che cadono, di sguardi terrorizzati, di un passeggino che rotola giù come un destino fuori controllo, immagini che non descrivono solo un evento storico ma lo sublimano in un archetipo della repressione e dell’innocenza violata. 
Inserire La corazzata Potëmkin nel contesto storico in cui fu realizzata significa ricordare che l’Unione Sovietica degli anni Venti vedeva nel cinema l’arte più importante, capace di raggiungere anche una popolazione in gran parte analfabeta, e che Ejzenštejn, insieme a Dziga Vertov e Vsevolod Pudovkin, faceva parte di una generazione di cineasti che non si limitava a raccontare storie ma voleva reinventare il linguaggio stesso del mezzo, rompendo con il cinema narrativo borghese occidentale e cercando una forma che fosse coerente con i contenuti rivoluzionari, e che non ipnotizzasse lo spettatore ma lo scuotesse, lo rendesse attivo, consapevole, critico. 
In questo senso La corazzata Potëmkin non è mai stata pensata come un film “facile” o “piacevole”, ed è forse qui che nasce, a distanza di decenni, la frattura comica incarnata da Fantozzi, simbolo dell’uomo comune schiacciato da un’élite culturale che impone capolavori come medicine amare, dimenticando che ogni opera d’arte vive anche del rapporto emotivo con chi la guarda.
Eppure questa tensione tra difficoltà e grandezza è parte integrante del destino del film, che fin dalla sua uscita suscitò reazioni contrastanti, entusiasmi e censure, venendo vietato o mutilato in molti paesi occidentali per il suo contenuto sovversivo, mentre veniva esaltato da critici e intellettuali come una rivelazione assoluta, capace di dimostrare che il cinema poteva essere arte al pari della musica e della letteratura. 

Sergej Michajlovič Ėjzenštejn

Ejzenštejn, giovane, ambizioso, teoricamente armato, girò il film con una precisione quasi ossessiva, scegliendo attori non professionisti, volti presi dalla strada, perché non voleva divi ma tipi umani, e costruì le scene come composizioni dinamiche in cui ogni gesto, ogni sguardo, ogni taglio di montaggio aveva una funzione precisa all’interno di una struttura che oggi definiremmo quasi musicale, fatta di temi, variazioni, accelerazioni e pause, e sebbene il film racconti un episodio del 1905, è impossibile non leggerlo come una dichiarazione di fede nella rivoluzione in atto, come un manifesto cinematografico che guarda al passato per legittimare il presente e prefigurare il futuro. 
A cento anni dalla sua realizzazione, La corazzata Potëmkin è diventata un oggetto stratificato, che vive simultaneamente come opera storica, come testo teorico, come icona pop e come bersaglio di ironia, e questa molteplicità è forse il segno più evidente della sua vitalità, perché solo ciò che continua a parlare, a provocare, a dividere può attraversare un secolo senza trasformarsi in un reperto muto. Anche chi oggi sorride ricordando la battuta di Fantozzi, chi la usa per dichiarare la propria insofferenza verso il cinema d’autore imposto, in realtà partecipa a questa lunga storia di ricezione, dimostrando che il film non è affatto morto ma continua a generare discorso, emozione, reazione. 
Celebrarne i cento anni significa allora non solo riconoscerne il ruolo fondamentale nella storia del cinema mondiale, l’influenza enorme esercitata su generazioni di registi, da Hitchcock a Kubrick, da De Palma a Scorsese, ma anche accettare le sue contraddizioni, il suo essere al tempo stesso capolavoro e strumento di propaganda, opera d’arte e oggetto ideologico, lezione di linguaggio e prova di resistenza per spettatori non sempre disposti ad abbandonarsi a un’esperienza così lontana dai codici narrativi contemporanei. 
Ejzenštejn stesso, del resto, era consapevole della natura problematica del proprio lavoro, e la sua carriera successiva sarebbe stata segnata da conflitti con il potere, da accuse di formalismo, da progetti interrotti, a dimostrazione che l’arte rivoluzionaria non è mai completamente al sicuro nemmeno nei regimi che la celebrano, e che La corazzata Potëmkin rappresenta anche un momento irripetibile di allineamento tra ambizione artistica e mandato politico. 


Oggi, nel ricordare questo film a cento anni dalla sua nascita, possiamo guardarlo con uno sguardo più libero, meno obbligato, capace di coglierne tanto la grandezza quanto la distanza, di apprezzarne l’audacia formale senza sentirci in colpa se alcune sue parti ci appaiono retoriche o fredde, e forse è proprio questa libertà che permette di superare la contrapposizione fantozziana tra venerazione e rifiuto, restituendo al film la sua natura di opera viva, aperta, discutibile, e quindi profondamente umana. 
La corazzata Potëmkin resta un monumento, ma non di marmo, piuttosto un edificio di immagini in movimento che continua a proiettare ombre e riflessi sul nostro modo di vedere il cinema e la storia, ricordandoci che ogni linguaggio nasce da una rottura, che ogni capolavoro è stato una volta un atto di sfida, e che anche dietro la risata liberatoria di un ragioniere oppresso può nascondersi, paradossalmente, l’ennesima prova della forza di un film che, a cento anni di distanza, non ha ancora smesso di farci reagire.

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