venerdì 28 giugno 2024

Life is a Mass/Age

 


Parte I

D'abord...Stefania.
Manlio, Ludovica, la New Wave e il Punk, Napoli anni '80, Via Palizzi, Parigi, Giulia, Rue Nicolas Charlet, il basket a Casalnuovo, Frigidaire, Andrea Pazienza, Tattoo Records, Laurie Anderson, Patrizia, Wim Wenders, Parigi Texas, Betty Blue, Gigi e Francesco, Tequila boom boom,  Devo, Amalia, James Chance and the Contorsions, Lucia, Ciro, Apocalypse Now, Falso Movimento, la Galleria Toledo,  Husker Du, Ice Cold Ice, Maria, Solopizza, Lydia Lunch, i Clash, Joe Strummer, Blade Runner, Brian Eno, Amos Tutuola, My life in the bush of ghosts,  Kafka, Toto' e Peppino, Marco Pannella, Atomkraft?Nein danke,  Martha & the Muffins, Faliero, i Rolling Stones al S.Paolo, Italia Campione del Mondo, Sandro Pertini, Chernobyl.

Parte II

L'inizio è folgorante. Se il riff iniziale di "God save the Queen" dei Sex Pistols era stato un cazzotto al volto, l'esclamazione/grido con la quale David Byrne apre l'iniziale "Born under Punches" rappresenta un vero e proprio colpo ben assestato al plesso solare, di quelli che ti tolgono completamente il fiato.
E poi, in completa anossia, ti trovavi a muoverti involontariamente, tentando di seguire il flusso del ritmo, dettato da percussioni ipnotiche, che richiamavano ritmi africani, e da una chitarra suonata in maniera "obliqua", da quel genio che avremmo poi scoperto essere Adrian Belew.
La trance nella quale venivi risucchiato da questo vortice sonoro rimandava alle esperienze vissute da artisti come Picasso, Brancusi, Matisse, Modigliani.
Si leggano a tal proposito le parole di Pablo Picasso: “…non riuscivo a staccarmi da quanto avevo davanti agli occhi. Compresi che mi stava succedendo qualcosa. Le maschere non erano come le altre sculture: erano qualcosa di magico, si ergevano contro tutto, contro gli spiriti ignoti e minacciosi. E io continuavo ad ammirare quei feticci… E capii. Anch’io mi ergo contro tutto. Anch’io credo che tutto è sconosciuto, tutto è nemico”.



Anticipato dal magnifico "Fear of Music", che conteneva già in embrione le aperture poi successivamente attuate - su tutte l'incredibile "I Zimbra" -, l'album presenta poliritmie, cori, strutture call & response, timbri e colori, tutte integrate in un corpo cibernetico, simultaneo alla febbre post-punk e ai fondali grigio acciaio della new wave.
 In ogni canzone sembrano accadere più cose contemporaneamente, strati sonori (riff elettrici ed elettronici, frasi di tromba, giri di basso, pattern percussivi…) che scorrono l’uno sull’altro, interconnessi eppure in qualche modo autonomi, quasi indifferenti tra loro.
E' una sorta di giungla artificiale, con voli radenti di uccelli meccanici, infiorescenze coloratissime tutto intorno, un calore innaturale nella voce di David Byrne, predicatore da un pulpito invisibile: "Born Under Punches" si presenta così, una ritmica pressante e anomala, con il basso a colare gommoso su acide riffate funky.
È disturbante, scomodo addirittura, ma siamo già con tutti e due i piedi dentro a questo zoo (post)moderno tanto denso quanto disabitato, dove anche il ritornello sembra perdere le proprie tracce in un circuito inconcludente ed estatico.
Martellano impietosamente anche le successive "Crosseyed and Painless" e "The Great Curve", impossibili da ascoltare restando immobili, sollecitati dalle performances alle voci di Nona Hendryx e dalla chitarra "spietata" di Adrian Belew.
Il contributo di Belew ricorda a livello metodologico quello di Fripp in "Heroes" di Bowie (che tra l’altro prestò la sua chitarra proprio per I Zimbra) per quel modo di applicare interventi capaci di spostare l’equilibrio ma che sembrano precipitare da una dimensione aliena: sono schitarrate intruse, ed è il motivo per cui hanno senso.
E si arriva così a "Once in a lifetime", quasi uno spartiacque dell'album, visto che precede quattro pezzi nei quali il ritmo, le atmosfere, vengono decisamente smorzate, a partire da "Houses In Motion", con quel contrasto stridulo tra il passo cupo e il groove glaciale, il tutto in bilico su versi terminali come “I’m walking a line/Just barely enough to be living”.
Se Listening Wind è l’episodio che più scopertamente potrebbe far pensare a un tentativo di evocare clima e suggestioni afro, la chiusura di "The Overload" suggella con un emblematico ricorso al verbo Joy Division, processione plumbea in una cappa di pennellate penetranti ed evocative, il futuro sterilizzato in una sequela di immagini algide.
Leggenda vuole che questa sorta di omaggio alla band di Ian Curtis sia stato composto e realizzato senza avere mai ascoltato nulla di loro, ma basandosi solo su testimonianze e recensioni: il risultato è alla fine un'aspra e rarefatta ballata dark, sigillo d'incubo a questo capolavoro sfuggente e intenso, sicuramente indimenticabile.



P.S. Manlio, grazie per il titolo. Miss you.

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