venerdì 28 giugno 2024

Dischi da ascoltare: Daniela Pes - Spira




Prima di parlare di questo affascinante album, da annoverare tra le più interessanti produzioni, non solo italiane, dello scorso anno, occorre fare una premessa. 
Hildegard Von Bingen.
Nata in Germania nel 1098, già in tenera età fu interessata fa visioni di carattere mistico, circostanza questa che indusse i genitori a farla stabilire, all’età di otto anni, nell’Abbazia di Disibodenberg dove, tra il 1112 e il 1115, prese i voti.
Nel corso della sua vita Ildegarda di Bingen concepì la Lingua Ignota, un codice linguistico artificiale composto da 23 ignotae litterae traslitterate principalmente dal latino e dalla fonologia dell’alto-tedesco medio. Dei suoi scritti in Lingua Ignota ci sono pervenuti solo dei frammenti, oltre due esemplari di glossario redatti dalla stessa Ildegarda di Bingen, che ne esplicitano la matrice mistica. La Lingua Ignota è una forma d’espressione dell’inesprimibile respiro divino che media l’interazione tra gli esseri umani e tutto ciò che è vivo ed esistente. Un linguaggio universale direttamente riconducibile ai brani liturgici che Ildegarda di Bingen ha composto, facendoci pervenire un corpus di opere musicali medievali dalla potenza spirituale ancora intatta.

Innumerevoli sono stati i tentativi di interpretare il pensiero di Hildegard, alcuni dei quali hanno descritto con dovizia di particolari e licenze poetiche l’immaginario fatto di visioni e profezie che la badessa ha esperito sin da bambina e per tutto il corso della sua vita. In particolare nella “trilogia profetica” composta da Scivias, Liber vitae meritorum e Liber divinorum operum viene delineato un universo di visioni che parlano dell’umanità e della sua caduta, fino alla descrizione di un’Apocalisse che ha tutte le caratteristiche dell’epoca odierna, fatta di cataclismi, devastazioni e incendi furiosi.
Percorrendo i secoli successivi a Ildegarda di Bingen si contano innumerevoli esperimenti di lingua inventata, artificiale o pianificata che dir si voglia. Dall’Hardico del Ciclo di Earthsea di Ursula K. Le Guin, al Cityspeak di Blade Runner. Dalle lingue ausiliarie come il Communicationssprache al più celebre Esperanto. In musica abbiamo lessici sperimentali come il kobaiano, un linguaggio alieno creato nel 1970 dalla band progressive francese Magma, oppure il Vonlenska, inventato dai Sigur Rós a inizio millennio e usato in gran parte della loro discografia.
A questi e a molti altri dischi si è appunto aggiunto quello firmato da Daniela Pes.

 “Non ho fatto nessun tipo di lavoro specifico sulla lingua. Le parole dei miei testi non hanno un significato che gli ho attribuito a priori. È stato tutto spontaneo e istintivo, non sapevo che sarebbe stato così accessibile e armonioso, l’ho scoperto insieme alla musica. Le parole dei miei testi non hanno un significato che gli ho attribuito a priori.”

I testi dell’album derivano da una commistione di gallurese antico e parole del tutto inventate, sporadicamente interrotte da frammenti in lingua italiana, che forniscono un effetto del tutto straniante all’insieme.
I versi vagamente comprensibili, più che momenti di razionalità, somigliano a dei bug in un discorso che si muove su binari diversi rispetto alla semiotica di un linguaggio noto e giocano con l’area del cervello che recepisce il linguaggio, attivandola di colpo e mandandola in iperstimolazione.
Forse non è del tutto un caso che l’embrione di questo lessico provenga da testi religiosi e dalle sperimentazioni che Daniela Pes ha eseguito negli anni precedenti alla scrittura del disco.

“Venivo da un periodo di studio e lavoro di musicalità sulle poesie di un sacerdote del Settecento del mio paese. Stavo testando. La mia idea era di fare un disco di poesie musicate, perché sono una cantante e non ho mai avuto l’esigenza di esprimermi attraverso dei testi. C’era qualcosa nel gallurese antico che mi attirava molto. Ho iniziato a scremare alcuni aspetti della pronuncia che non mi convincevano e poi è nato qualcosa di mio, ho iniziato a metterci dei fonemi che non significano niente e che però io sentivo dentro di me. Mi sono chiesta tanto se fosse una scelta azzardata, ma per me era credibile e quindi voleva dire che era giusto correre quel rischio.”

Se la musica di Daniela Pes è abitata da un’energia primordiale e atavica, tanto da assumere i connotati di una liturgia, è lecito affermare che l’ascoltatore sembra anch’egli coinvolto nelle medesime visioni che parlano dell’umanità e della sua prossima caduta.
Ormai da qualche anno i concerti sono pieni di presagi di morte.
Gli attentati, la pandemia, i reportage dai club sotterranei a Kiev, le immagini del rave nel deserto del Negev o i festival rimandati per nubifragi o per gli incendi durante l’estate, sembrano aver compromesso irrimediabilmente il nostro immaginario, al punto che assistiamo a qualunque concerto con l’idea che possa essere uno degli ultimi prima della fine del mondo.
C’è una specie di ostinazione encomiabile e fuori luogo nel chiudersi in un posto ad ascoltare musica dal vivo, come un nucleo di resistenza mentre attorno si restringe un cerchio di oscurità.
Nei versi più concitati, quando la voce di Daniela si sgretola e trafigge come una pioggia di schegge acuminate gli ascoltatori, ormai posseduti da questa forza primordiale, è proprio in quel momento che la sua lingua ignota acquisisce la potenza spirituale che ci permette di familiarizzare con un nuovo ordine di significati e illumina il buio incombente.
Le sue parole sembrano avere a che fare con una serie di sensazioni incompiute, pressioni, hanno un che di tattile. 
Spira è nato quando il mondo si è fermato per la pandemia da Covid-19, l’esperienza preapocalittica collettiva più significativa dei tempi recenti e ha richiesto tre anni di lavorazioni intensive.
C’è un incontro che è stato fondamentale per l’ascesa di Daniela Pes ed è quello con Iosonouncane. 
Non a caso anche IRA, il terzo disco di Iosonouncane uscito nel 2021, è cantato con una lingua artificiale, un lessico che raccorda francese, arabo, inglese, italiano, spagnolo, dialetti locali e chissà quali espressioni inventate, per cui la sua consistenza è eterea e disarmante, se si pensa soprattutto alla grandezza dell’opera, che dura quasi due ore. 
Tutto farebbe quindi pensare a Spira come un’emanazione, o una prosecuzione, di una cifra stilistica ben specifica e invece Daniela Pes – e lo stesso Jacopo Incani, interpellato in merito – racconta di come abbia scoperto della lingua inventata di IRA solo dopo aver iniziato il suo percorso. La simbiosi con Iosonouncane del resto è pressoché totale.
Ascoltando Spira, il tocco di Incani lo troviamo soprattutto nei sintetizzatori tribali, nelle compressioni, nelle code dei pezzi. 
La forza della musica di Daniela Pes rende solida la certezza che presto lei sarà un’artista che travalicherà i confini stretti del nostro paese, per misurarsi con palcoscenici più grandi.
I tamburi di A te sola, che si chiude con un lungo delirio, una litania o forse una maledizione, annunciano una facile profezia. Quel tempo verrà e Daniela Pes l’ha già visto accadere.




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