Una doverosa premessa: qui andiamo a trattare di un film che, più di ogni altra opera cinematografica, proietta lo spettatore nel dolore, nella sofferenza, rendendolo partecipe di un autentico dramma.
Parliamo di "La Passione di Giovanna d'Arco" di Carl Theodor Dreyer.
Tra le prime scene del film "Questa è la mia vita" di Jean Luc Godard, esponente di spicco della nouvelle vague del cinema francese, vi è quella in cui la protagonista Nana (Anna Karina) assiste alla proiezione de "La passione di Giovanna d’Arco" di Dreyer. L’accostamento del volto sofferente di Renée Falconetti, l'attrice che diede il volto alla pulzella di Orleans, a quello commosso di Nana incarna l’essenza stessa del cinema impressionista francese, che negli anni Venti esaltò l’espressività visiva e l’introspezione psicologica.
Curiosamente, a sintetizzare l’essenza dell’avanguardia francese fu un danese. Carl Theodor Dreyer, ispirandosi agli atti autentici del processo del 1431 e agli studi di Pierre Champion, concepì "La Passione di Giovanna d’Arco" come un’opera epurata dalla narrazione storica tradizionale, concentrandosi invece sulla dimensione interiore dell’eroina.
Il film si articola in tre momenti cruciali: il processo, la tortura e la condanna al rogo, in una progressione che esalta il contrasto tra il dolore della protagonista e la crudeltà dei suoi accusatori. Dreyer trasforma la pellicola in un dramma mistico, nel quale il martirio di Giovanna assume una valenza universale.
L’innovazione del regista risiede nella fusione tra la potenza dell’immagine e l’intensità del testo. Le didascalie, lontane da un mero supporto descrittivo, diventano elementi espressivi capaci di suggerire la profondità psicologica dei personaggi.
La sua scelta di ricorrere quasi esclusivamente a primi e primissimi piani perfeziona la teoria della "photogénie", secondo la quale l’immagine acquisisce una propria aura espressiva. Il volto della Falconetti, scavato dalla sofferenza, enfatizzato dalla fotografia abbacinante di Rudolph Maté, si pone come un’icona assoluta della storia del cinema, rendendo l'opera quanto di più vicino a una vera e propria reincarnazione si sia mai verificato su un set cinematografico.
Le riprese avvennero in un clima tutt’altro che agevole e sereno, sotto una ferrea regola del silenzio, non risparmiando disagi fisici agli attori e soprattutto alla Falconetti, con scene ripetute ossessivamente alla ricerca della perfezione e attraverso una costante pressione psicologica.
A tal proposito, sorsero spontanee quanto fasulle leggende sulla crudeltà di Dreyer verso la Falconetti, tanto da causarle disagi psicologici. In verità, sembra che Renée condivise il metodo con il regista e si sottopose volontariamente alle ossessive ripetizioni, così come a disagevoli prove fisiche, quali la rasatura dei capelli e la morsa ai piedi.
Stando alla testimonianza dello scenografo Hermann Warm, l’unica deroga alla verità e al realismo estremo voluto da Dreyer fu la scena del salasso, avvenuta sul braccio di una comparsa e non sulla Falconetti.
Il film di Dreyer fu, per molti versi, un campo di forza, dove non solo si manifestarono in tutta la loro potenza esplosiva le possibilità evocative dell’immagine cinematografica, ma anche, e forse per la prima volta, gli effetti di quello che solo in seguito venne definito "teatro della crudeltà" dal suo ideatore, quell'Antonin Artaud che, nelle vesti del monaco Massieu, resta accanto a Renée Falconetti come uno spettatore affascinato e confuso, comprendendo probabilmente, in quel suo osservare rapito, la potenzialità della sua futura creazione.
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| Antonin Artaud |
Nell’osservare con attenzione l’immagine filmica dell'interpretazione di Renée, si nota, innanzitutto, una sostanziale differenza con gli altri interpreti, compreso lo stesso Artaud.
Tale differenza si sostanzia, in primo luogo, attraverso una mancata recitazione, sostituita da un agire/patire intenso e veritiero, ottenuto grazie a una magistrale sottrazione di sé da parte dell'attrice, che tende quasi a cancellarsi.
Nonostante un sontuoso impegno economico per la costruzione del set, Carl Theodor Dreyer lasciò che le scenografie circondassero/influenzassero soltanto il cast, senza coinvolgere l’occhio dello spettatore: per noi seduti davanti allo schermo, c’è infatti qualcosa di più stimolante, un vero e proprio elogio della sofferenza qui trascinato al di fuori dello spazio e del tempo.

I primi piani sul volto disperato di Giovanna o quelli sulle espressioni - a tratti grottesche - dei suoi accusatori, rappresentano un apice difficilmente superabile, una vetta dove il cinema riesce a far esplodere sia i più colti rimandi pittorici che l’ambiguità della psicologia umana, in ogni sua forma possibile. La scena del taglio dei capelli, finita addirittura sulla copertina di un disco degli Ulver (Flowers of Evil), è probabilmente una delle istantanee più intense nella storia della settima arte (e non solo).
Siccome ogni singola immagine del film è stata sapientemente esaminata, studiata e raccontata da tanti illustri cinefili, non serve dilungarsi oltremisura su questo capolavoro del cinema muto, del quale esistono diversi accompagnamenti musicali, anche se l’opzione di silenziare l’audio è forse la migliore scelta.
Il dolore, il martirio, la morte: solo un genio come Dreyer poteva scendere così a fondo negli abissi della stoltezza umana, lasciando parlare soltanto i movimenti del viso, gli sguardi, le lacrime e una manciata di didascalie.
Il film fu proiettato per la prima volta il 21 aprile 1928 al Cinema Palads Teatret di Copenaghen. Fu l’unica volta che il film venne proiettato nella sua versione originale non censurata. Le vicissitudini di cui fu oggetto la pellicola furono numerose e, per certi versi, incredibili.
Già in occasione della prima francese il film subì dei tagli, imposti dall’Arcivescovo di Parigi, e venne rimontato senza che Dreyer potesse opporsi. Il 6 dicembre 1928 il negativo originale, custodito presso gli studi dell’UFA a Berlino andò distrutto da un incendio.
Dreyer riuscì a montare una nuova versione utilizzando scene alternative mai proiettate, ma anche questa copia andò perduta in un incendio. Fu nel 1951 che lo storico cinematografico Joseph-Marie Lo Duca trovò una copia della seconda versione nei sotterranei della Gaumont che rimontò e modificò, aggiungendo una colonna sonora poco adeguata.
Per molti anni la copia di Lo Duca fu l’unica disponibile.
Bisognerà attendere il 1981, quando un impiegato di un istituto psichiatrico nei pressi di Oslo scoprì per caso in un armadio delle vecchie pellicole. Solo tre anni più tardi, il Norwegian Film Institute si accorse che si trattava di una copia del negativo originale andato perduto a Berlino.





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