venerdì 16 maggio 2025

Gaza: il silenzio che uccide


C’è una parola che l’Occidente evita come la peste, anche di fronte a oltre 52.000 morti, di cui oltre la metà donne e bambini, ospedali bombardati, interi quartieri rasi al suolo, fame e sete usate come armi di guerra: GENOCIDIO. 
Eppure, cosa stiamo osservando da mesi nella Striscia di Gaza, se non un genocidio metodico, scientifico, protratto sotto gli occhi del mondo?
Non è solo la violenza indiscriminata dei bombardamenti israeliani a gridare vendetta. È il disegno preciso, deliberato, di distruggere una popolazione: fisicamente, psicologicamente, economicamente, culturalmente. È l’annientamento pianificato di una società, di una memoria, di un popolo. 
E tutto ciò non avviene in una zona remota della Terra ubicata nel cuore geopolitico del mondo, nel teatro permanente di tensioni che l’Occidente, a parole, dice di voler pacificare.
Gaza è oggi un ''laboratorio del disumano'', dove si sperimentano le forme più raffinate di annientamento: non solo bombe, ma assedio totale, blocco degli aiuti umanitari, distruzione sistematica di scuole, moschee, ospedali, università, biblioteche. 
Non un centimetro della vita civile è risparmiato. Ogni giorno che passa è un crimine contro l’umanità trasmesso in diretta, con la beffa atroce che chi lo denuncia viene censurato, criminalizzato o ridotto al silenzio.

Ogni volta che si prova a denunciare l’orrore, si viene travolti da un lessico tossico, costruito ad arte per confondere le acque. ''Operazione militare contro Hamas'', ''diritto alla difesa di Israele'', ''scudi umani'', ''terrorismo'', ''antisemitismo''
È una neolingua lucida e perversa, che ha lo scopo di neutralizzare l’indignazione e di ''spersonalizzare i morti''.

Ma chi muore a Gaza non sono soldati, non sono miliziani. 
Sono famiglie intere. 
Sono neonati sbranati dalle bombe. 
Sono bambini amputati senza anestesia. 
Sono donne partorienti lasciate morire. 
Sono medici assassinati tra i corridoi degli ospedali. 
E questi non sono ''danni collaterali''.
Sono bersagli deliberati, annientati in quanto palestinesi. Eppure, mentre il sangue scorre, i leader occidentali parlano di de-escalation, invitano entrambe le parti alla calma, come se tra una forza di occupazione nucleare e un popolo oppresso da 75 anni ci potesse essere simmetria.


Il silenzio, in questo caso, non è neutralità, è complicità attiva. I governi europei e gli Stati Uniti non solo non fermano Israele, ma lo foraggiano militarmente, diplomaticamente, economicamente. Le armi con cui vengono rasi al suolo i rifugi dell’UNRWA sono in buona parte americane. I droni che colpiscono i convogli umanitari volano grazie alla tecnologia israeliana venduta e potenziata proprio grazie agli scambi con l’Europa.
E mentre i Parlamenti occidentali si scannano su mozioni tardive e insignificanti, gli ambasciatori israeliani tengono lezioni di morale sulle democrazie liberali, con il sangue dei bambini palestinesi ancora caldo sotto le unghie. Le dichiarazioni della Casa Bianca, della Commissione Europea, di certi governi che si dicono neutrali sono atti di pura viltà e ignavia politica che resteranno come macchie incancellabili nella storia contemporanea.

E' logico chiedersi: perché questo silenzio? Le ragioni sono molteplici, e tutte ugualmente ignobili.
  • Paura: temono l’accusa di antisemitismo, ormai trasformata da legittima lotta contro l’odio razziale a strumento politico per zittire ogni dissenso.
  • Cinismo ideologico: per le élite occidentali, Israele è la punta avanzata dell’Occidente in Medio Oriente, un avamposto civilizzatore, un bastione bianco in un mondo arabo dipinto sempre e solo come barbaro.
  • Calcolo economico e strategico: la cooperazione militare e tecnologica con Tel Aviv è troppo redditizia per essere messa in discussione. I giacimenti di gas al largo di Gaza fanno gola a molti. Meglio allora far sparire chi ci vive sopra.
  • Complicità mediatica: i grandi media internazionali, con rare eccezioni, parlano di Gaza con lo stesso sguardo coloniale di sempre: le vittime palestinesi vengono numerate, ma mai raccontate. Il lutto collettivo viene anestetizzato da titoli generici, da cifre fredde, da una grammatica della deresponsabilizzazione.

La cosa più grave non è solo il numero dei morti, ma la perdita di umanità nella percezione di chi guarda. I palestinesi vengono descritti da decenni come una minaccia demografica, come una massa indistinta di terroristi. Non sono individui con nomi, vite, sogni, amori, ferite, lutti. Sono bersagli da neutralizzare, numeri da ridurre. 
Gaza è trattata come una colonia da bonificare, un serbatoio biologico da svuotare, come peraltro immaginato dal presidente americano, che addirittura si auspica la creazione di una sorta di nuova Miami/Las Vegas nel territorio della Striscia.
Questo processo di deumanizzazione sistematica è ciò che consente all’attuale orrore di reiterarsi senza ormai porsi alcuno scrupolo morale, certo ormai del silenzio/assenso dei media, completamente asserviti, e dei loro fruitori, già da tempo abilmente "anestetizzati".

Nel 1994, il genocidio ruandese uccise quasi un milione di persone in 100 giorni. La comunità internazionale, allora, si girò dall’altra parte. 
Oggi, con Gaza, si sta ripetendo lo stesso copione, ma in tempo reale, con tutti i mezzi per intervenire e nessuna volontà di farlo.

Chi oggi parla della guerra a Gaza come di un conflitto scoppiato il 7 ottobre mente, o ignora deliberatamente la storia. La tragedia palestinese non inizia con l’attacco di Hamas. 
Inizia con la Nakba (letteralmente "disastro", "catastrofe") del 1948, con l'espulsione forzata di 750.000 palestinesi e la distruzione di centinaia di villaggi, in conseguenza della fondazione dello Stato di Israele e della successiva guerra arabo-israeliana. 
Prosegue con l'occupazione del 1967, con gli insediamenti illegali, con l'embargo, con le operazioni punitive ricorrenti, con il Muro dell’apartheid, con le leggi razziali che discriminano ogni palestinese nei Territori Occupati e dentro Israele.


Gaza non è una base terroristica, come viene raccontata da certa stampa: è una prigione a cielo aperto, dove due milioni di persone vivono ammassate senza acqua potabile, senza elettricità, senza futuro. Da più di 15 anni Israele la tiene sotto assedio totale. Il 7 ottobre è stato un punto di rottura, ma non un inizio. La violenza israeliana viene da molto più lontano ed è sostenuta da una precisa ideologia suprematista.

Lo ha detto anche l’organizzazione Human Rights Watch, lo ha ribadito Amnesty International, lo hanno denunciato centinaia di giuristi ebrei antisionisti: Israele pratica un regime di apartheid, basato sulla discriminazione etnica e religiosa, sul controllo militare permanente, sul furto di terra, sullo strangolamento dei diritti civili. È un sistema coloniale, non un conflitto tra pari.
Il sionismo politico, nella sua forma attuale, non è più un progetto di autodeterminazione, ma una teocrazia armata che punta all’eliminazione sistematica della presenza palestinese. 
Non è antisemita dirlo: è antirazzista. È anticoloniale. È umano.

Chi resiste all’oppressione israeliana viene sistematicamente criminalizzato. La resistenza palestinese viene ridotta a terrorismo tout court, dimenticando che il diritto internazionale riconosce il diritto dei popoli occupati a resistere anche con le armi. Eppure, basta anche solo parlare di questo, e subito si scatenano le accuse.
Il risultato è che i palestinesi non possono vincere, né morire con dignità. Se combattono, sono terroristi. Se si arrendono, sono ignorati. Se muoiono, sono colpevoli della propria morte. Questa è la logica perversa del colonialismo moderno, che si traveste da democrazia mentre bombarda civili.

Di fronte a questo massacro silenzioso, qualcosa però si muove. Nelle università statunitensi occupate dagli studenti. Nelle manifestazioni di milioni di cittadini indignati in tutto il mondo. Nei proclami di artisti, intellettuali, sindacati, scrittori, persino di superstiti dell’Olocausto. 
Tutti uniti per dire: non in nostro nome. Non con i nostri soldi. Non con la nostra complicità morale.
La censura è feroce. Le cariche della polizia pure. Ma la voce di chi si oppone cresce ogni giorno. Perché nessun potere, nessuna lobby, nessuna propaganda può zittire a lungo la verità: quello che accade a Gaza è un genocidio. E chi lo sostiene, lo giustifica o lo silenzia ne porta il peso storico.


Il più grande pericolo oggi è l’assuefazione. Guardare ogni giorno le immagini di corpi sotto le macerie, di madri che urlano nei corridoi degli ospedali, di bimbi che chiedono aiuto e abituarsi. 
Spegnere il cuore. 
Spegnere lo sdegno. 
Trovare rifugio nella distanza, nel disimpegno, nella neutralità finta di chi dice: è troppo complicato.
Non è complicato. È una questione di giustizia, di umanità e di dignità. E ognuno di noi, ogni giorno, sceglie da che parte stare. Non serve essere esperti di geopolitica per capire che bombardare ospedali è un crimine. Che affamare un’intera popolazione è un crimine. Che negare l’acqua e la cura a un popolo intero è un crimine.
Quello che sta accadendo a Gaza non è solo un test per i governi. È un test per la nostra coscienza collettiva. 
E la Storia ci giudicherà per ciò che abbiamo fatto o non fatto, mentre un popolo veniva sterminato in diretta, sotto il nostro sguardo passivo.
E prima o poi, ci presenterà il conto da pagare.
Non c’è più tempo per i distinguo. Non c’è più tempo per la prudenza diplomatica. Gaza brucia. La Palestina muore. E ogni giorno in più di silenzio è una condanna. È tempo di rompere le righe, di disobbedire ai diktat mediatici, di togliere il velo dell’ipocrisia. È tempo di pretendere sanzioni contro Israele, di boicottare i suoi prodotti, di tagliare le collaborazioni accademiche e militari, di sostenere con ogni mezzo la causa palestinese.
Non ci sarà pace senza giustizia. E non ci sarà giustizia senza verità. E la verità, oggi, è semplice e spietata: Israele sta compiendo un genocidio. 
L’Occidente lo sa. 
E tace.

1 commento:

  1. Obrigado por sua visita ao atituderocknroll.com.br. Parabéns pelo conteúdo do seu site, digino de uma verdadeira atitude rocknroll.

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